1. In sociologia,
per spiegare i fenomeni migratori, si utilizzano due termini della lingua
inglese per indicare due distinte dinamiche. Da una parte il push, la
spinta, per indicare tutto ciò che spinge, che determina persone, gruppi umani,
popoli a partire e a trasferirsi in un luogo dove poter lavorare, dove poter
stabilirsi e poter vivere. Dall’altra il pull (da to pull,
tirare), il richiamo, a indicare la dinamica della domanda di manodopera, del
paese o luogo che presenta opportunità di lavoro e comunque di insediamento. L’esempio classico
di queste dinamiche è offerto dal caso dell’Irlanda. Tra il 1846 e il il 1848
condizioni climatiche sfavorevoli determinarono cattivi raccolti di patate,
l’alimento fondamentale per la popolazione irlandese. Un milione e più di
irlandesi morirono letteralmente di fame e di stenti. Un altro milione fu
costretto a emigrare (il push) in Inghilterra e negli Usa (il pull,
per il bisogno di manodopera in questi paesi in forte espansione economica). Va da sé che
storicamente la spinta a partire era data da problemi economici e di lavoro e
in generale da problemi di sopravvivenza materiale, da guerre, da instabilità
politica e sociale, da sistemazioni geopolitiche altamente problematiche
(questione palestinese, questione curda, varie questioni in Africa ecc., tutte
retaggio netto del colonialismo e dell’imperialismo). Oggi si aggiunge
la migrazione a causa di disastri ambientali e climatici, da penuria d’acqua
potabile e di cibo ecc. Vedi gli esempi illustrati più avanti a proposito delle
alluvioni in Pakistan e della grave situazione nel Corno d’Africa. 2. L’emigrazione
costituisce sempre un vantaggio economico in sé per il paese di destinazione,
oltre alla possibilità dello sfruttamento vero e proprio, e di converso un
impoverimento per il paese di origine. In primo luogo, il
paese di origine contribuisce a formare l’individuo fino all’età adulta, fino
all’età lavorativa, con alimenti e tutto ciò che serve per vivere. Ancor più
contribuisce, in presenza di persone alfabetizzate o addirittura diplomate o
laureate, con altre spese per la formazione scolastica, per l’apprendistato e
la formazione professionale nel lavoro ecc. Al momento in cui lo stesso
individuo è in grado di ripagare con il lavoro la propria comunità e il proprio
paese e anzi di contribuire ad aumentare la ricchezza complessiva nel contesto
d’origine, questo non avviene. Il paese di destinazione, il quale non ha speso
niente per la formazione dell’immigrato, riceve una persona che produce
immediatamente ricchezza. Si dice pertanto
che l’emigrazione è di per sé un “trasferimento di valore” nella persona stessa
del migrante. Sia esso un ingegnere, un medico, un tecnico o semplicemente un
bracciante, un manovale, un muratore, una forza-lavoro senza alcuna qualifica.
Un aspetto importante della più generale dinamica dello “scambio ineguale” e
dello “sviluppo ineguale” di cui un paese come gli Stati Uniti, come caso
esemplare, ha beneficiato enormemente. Paolo Cinanni,
fondatore, nel lontano 1970, con Carlo Levi della Filef (Federazione Italiana
Lavoratori Emigrati e Famiglie) ed esponente del Pci, a suo tempo calcolò
quanto valore fu trasferito agli Usa con l’emigrazione. Sempre prescindendo
dallo sfruttamento supplementare di una forza-lavoro così subalterna e ricattabile
come quella propria di un migrante. L’altra faccia
della medaglia è rappresentata dall’ulteriore impoverimento dei paesi
d’origine. I quali vengono privati di persone potenzialmente attive, non
rassegnate, intraprendenti, coraggiose, magari dissidenti rispetto al contesto
politico eventualmente oppressivo ecc. e che solo in parte questi paesi vengono
compensati dalle “rimesse”, i risparmi dei migranti inviati alle famiglie nella
terra d’origine. 3. Il migrante è
spesso una persona senza diritti. È spinto dal bisogno e pertanto accetta ogni
condizione di lavoro. Un solo esempio. Negli Usa,
all’inizio del Novecento, il sindacato più forte numericamente e più
organizzato era l’American Federation of Labor (Afl). Il risentimento contro i
migranti era grande entro questo sindacato, fino a sfociare in manifestazioni
di aperto razzismo. Spesso i padroni statunitensi ricorrevano alla manodopera
di immigrati in occasione di scioperi e dei relativi picchetti davanti alle
fabbriche ecc. Gli immigrati venivano utilizzati come strikebreakers
(“crumiri”). E questo fatto non faceva che rinfocolare l’odio nei confronti di
questi stranieri. Inoltre, essendo gli immigrati disposti a lavorare anche per
salari più bassi, venivano utilizzati dai padroni stessi per abbassare in
generale i salari di tutti. La Afl aveva tra i
propri iscritti solo lavoratori e lavoratrici statunitensi. Il sindacato
minoritario degli Industrial Workers of the World (Iww) era l’organizzazione
radicalizzata che annoverava tra le proprie fila anche migranti. 4. Il migrante,
spinto dal bisogno, mostra normalmente un’incredibile capacità di fare
sacrifici pur di risparmiare e di poter inviare così un poco di denaro alla
propria famiglia nel paese d’origine. Allo sfruttamento normale si aggiunge
così l’autosfruttamento. Spesso per queste famiglie è l’unico reddito su cui
possono contare per sopravvivere. Le rimesse costituiscono voci importanti per
il bilancio di molti paesi d’origine. 5. Il migrante e
lo “sradicamento”. La difficile condizione del migrante ha spesso effetti nel
suo equilibrio psichico. La sua è la condizione dello sradicato. Ha perso, da
una parte, il suo legame con il paese d’origine ed è, dall’altra, comunque
estraneo, per cultura, costumi, lingua, per tratti antropologici, per condizione
materiale ecc. al luogo dove è immigrato. Ciò a prescindere da eventuali
manifestazioni di razzismo, di umiliazioni, di xenofobia che lo possono
investire. È questo il
terreno propizio per il disagio psichico. Ciò mette a dura prova il proprio
equilibrio. Il disagio psichico fino alla vera e propria malattia mentale è
molto diffuso tra i migranti. Le continue umiliazioni, la rabbia repressa, la
ghettizzazione ecc. conducono a ciò. Frantz Fanon, psichiatra, filosofo,
rivoluzionario, solo come riferimento, ha scritto pagine memorabili sulla
condizione del colonizzato, tra malattia mentale ed esplosione improvvisa della
violenza compressa. Spesso
depressione, malinconia, comportamenti anomali, esplosioni d’ira, aperta
violenza rappresentano i sintomi di questa condizione. Delia Frigessi
Castelnuovo e Michele Risso hanno scritto, negli anni settanta, A mezza
parete, un libro memorabile come indagine sul campo nella Svizzera tra i
migranti, soprattutto italiani. Lo Heimweh, la nostalgia e il continuo
pensare al proprio focolare domestico, caratterizzante il pensiero dominante
del migrante, viene descritto e analizzato dai due autori con precisione e come
soglia pericolosa di possibili problemi psichiatrici. 6. L’emigrazione
rappresenta comunque anche la possibilità, ripetiamo la possibilità, per i
soggetti coinvolti non solo di migliorare la propria condizione materiale, ma
anche di elevare e di arricchire la propria visione del mondo, la propria
cultura, la propria padronanza di tecniche, di capacità lavorative e non ecc.
Solo la possibilità, qualora si sia sfuggiti al duro destino di annichilimento
della condizione di migrante.