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martedì 11 luglio 2023

MIGRAZIONE E LAVORO/ 2
di Giorgio Riolo
 


1. In sociologia, per spiegare i fenomeni migratori, si utilizzano due termini della lingua inglese per indicare due distinte dinamiche. Da una parte il push, la spinta, per indicare tutto ciò che spinge, che determina persone, gruppi umani, popoli a partire e a trasferirsi in un luogo dove poter lavorare, dove poter stabilirsi e poter vivere. Dall’altra il pull (da to pull, tirare), il richiamo, a indicare la dinamica della domanda di manodopera, del paese o luogo che presenta opportunità di lavoro e comunque di insediamento.
L’esempio classico di queste dinamiche è offerto dal caso dell’Irlanda. Tra il 1846 e il il 1848 condizioni climatiche sfavorevoli determinarono cattivi raccolti di patate, l’alimento fondamentale per la popolazione irlandese. Un milione e più di irlandesi morirono letteralmente di fame e di stenti. Un altro milione fu costretto a emigrare (il push) in Inghilterra e negli Usa (il pull, per il bisogno di manodopera in questi paesi in forte espansione economica).
Va da sé che storicamente la spinta a partire era data da problemi economici e di lavoro e in generale da problemi di sopravvivenza materiale, da guerre, da instabilità politica e sociale, da sistemazioni geopolitiche altamente problematiche (questione palestinese, questione curda, varie questioni in Africa ecc., tutte retaggio netto del colonialismo e dell’imperialismo).
Oggi si aggiunge la migrazione a causa di disastri ambientali e climatici, da penuria d’acqua potabile e di cibo ecc. Vedi gli esempi illustrati più avanti a proposito delle alluvioni in Pakistan e della grave situazione nel Corno d’Africa.
 
2. L’emigrazione costituisce sempre un vantaggio economico in sé per il paese di destinazione, oltre alla possibilità dello sfruttamento vero e proprio, e di converso un impoverimento per il paese di origine.
In primo luogo, il paese di origine contribuisce a formare l’individuo fino all’età adulta, fino all’età lavorativa, con alimenti e tutto ciò che serve per vivere. Ancor più contribuisce, in presenza di persone alfabetizzate o addirittura diplomate o laureate, con altre spese per la formazione scolastica, per l’apprendistato e la formazione professionale nel lavoro ecc. Al momento in cui lo stesso individuo è in grado di ripagare con il lavoro la propria comunità e il proprio paese e anzi di contribuire ad aumentare la ricchezza complessiva nel contesto d’origine, questo non avviene. Il paese di destinazione, il quale non ha speso niente per la formazione dell’immigrato, riceve una persona che produce immediatamente ricchezza.
Si dice pertanto che l’emigrazione è di per sé un “trasferimento di valore” nella persona stessa del migrante. Sia esso un ingegnere, un medico, un tecnico o semplicemente un bracciante, un manovale, un muratore, una forza-lavoro senza alcuna qualifica. Un aspetto importante della più generale dinamica dello “scambio ineguale” e dello “sviluppo ineguale” di cui un paese come gli Stati Uniti, come caso esemplare, ha beneficiato enormemente.
Paolo Cinanni, fondatore, nel lontano 1970, con Carlo Levi della Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie) ed esponente del Pci, a suo tempo calcolò quanto valore fu trasferito agli Usa con l’emigrazione. Sempre prescindendo dallo sfruttamento supplementare di una forza-lavoro così subalterna e ricattabile come quella propria di un migrante.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’ulteriore impoverimento dei paesi d’origine. I quali vengono privati di persone potenzialmente attive, non rassegnate, intraprendenti, coraggiose, magari dissidenti rispetto al contesto politico eventualmente oppressivo ecc. e che solo in parte questi paesi vengono compensati dalle “rimesse”, i risparmi dei migranti inviati alle famiglie nella terra d’origine.
 
3. Il migrante è spesso una persona senza diritti. È spinto dal bisogno e pertanto accetta ogni condizione di lavoro. Un solo esempio.
Negli Usa, all’inizio del Novecento, il sindacato più forte numericamente e più organizzato era l’American Federation of Labor (Afl). Il risentimento contro i migranti era grande entro questo sindacato, fino a sfociare in manifestazioni di aperto razzismo. Spesso i padroni statunitensi ricorrevano alla manodopera di immigrati in occasione di scioperi e dei relativi picchetti davanti alle fabbriche ecc. Gli immigrati venivano utilizzati come strikebreakers (“crumiri”). E questo fatto non faceva che rinfocolare l’odio nei confronti di questi stranieri. Inoltre, essendo gli immigrati disposti a lavorare anche per salari più bassi, venivano utilizzati dai padroni stessi per abbassare in generale i salari di tutti.
La Afl aveva tra i propri iscritti solo lavoratori e lavoratrici statunitensi. Il sindacato minoritario degli Industrial Workers of the World (Iww) era l’organizzazione radicalizzata che annoverava tra le proprie fila anche migranti.
 
4. Il migrante, spinto dal bisogno, mostra normalmente un’incredibile capacità di fare sacrifici pur di risparmiare e di poter inviare così un poco di denaro alla propria famiglia nel paese d’origine. Allo sfruttamento normale si aggiunge così l’autosfruttamento. Spesso per queste famiglie è l’unico reddito su cui possono contare per sopravvivere. Le rimesse costituiscono voci importanti per il bilancio di molti paesi d’origine.
 
5. Il migrante e lo “sradicamento”. La difficile condizione del migrante ha spesso effetti nel suo equilibrio psichico. La sua è la condizione dello sradicato. Ha perso, da una parte, il suo legame con il paese d’origine ed è, dall’altra, comunque estraneo, per cultura, costumi, lingua, per tratti antropologici, per condizione materiale ecc. al luogo dove è immigrato. Ciò a prescindere da eventuali manifestazioni di razzismo, di umiliazioni, di xenofobia che lo possono investire.
È questo il terreno propizio per il disagio psichico. Ciò mette a dura prova il proprio equilibrio. Il disagio psichico fino alla vera e propria malattia mentale è molto diffuso tra i migranti. Le continue umiliazioni, la rabbia repressa, la ghettizzazione ecc. conducono a ciò. Frantz Fanon, psichiatra, filosofo, rivoluzionario, solo come riferimento, ha scritto pagine memorabili sulla condizione del colonizzato, tra malattia mentale ed esplosione improvvisa della violenza compressa.
Spesso depressione, malinconia, comportamenti anomali, esplosioni d’ira, aperta violenza rappresentano i sintomi di questa condizione. Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso hanno scritto, negli anni settanta, A mezza parete, un libro memorabile come indagine sul campo nella Svizzera tra i migranti, soprattutto italiani. Lo Heimweh, la nostalgia e il continuo pensare al proprio focolare domestico, caratterizzante il pensiero dominante del migrante, viene descritto e analizzato dai due autori con precisione e come soglia pericolosa di possibili problemi psichiatrici.
 
6. L’emigrazione rappresenta comunque anche la possibilità, ripetiamo la possibilità, per i soggetti coinvolti non solo di migliorare la propria condizione materiale, ma anche di elevare e di arricchire la propria visione del mondo, la propria cultura, la propria padronanza di tecniche, di capacità lavorative e non ecc. Solo la possibilità, qualora si sia sfuggiti al duro destino di annichilimento della condizione di migrante.