Il
tema del salario minimo garantito sembra finalmente irrompere nel dibattito
politico e sindacale, almeno tra le forze d’opposizione. Pd, M5stelle, Azione,
Alleanza Verdi, Più Europa hanno trovato un’intesa, con la significativa presa
di distanza di Matteo Renzi, su una proposta di legge attorno al salario minimo
legale orario pari a 9 euro. La proposta riprende le linee del disegno di legge
presentato dalla allora ministra Catalfo il 22 aprile dell’anno scorso. Il voto
alla Camera sarebbe già stato calendarizzato e dovrebbe avvenire il 28 luglio.
L’uso del condizionale è d’obbligo non solo per l’importanza e lo scontro degli
interessi in gioco, ma anche perché nulla è più incerto dei calendari
parlamentari. Nello stesso tempo è in corso una raccolta di firme per un
referendum sulla materia incentrato sulla necessità di portare il salario
minimo orario a 10 euro. Al di là della diversità della misura del salario - su
cui tornerò più avanti - non può essere trascurata la possibilità che, una
volta tanto, le energie che si spendono per una giusta causa anziché scontrarsi
tra loro sulle differenze, colgano l’occasione per produrre una offensiva su un
aspetto così importante, anche se non esaustivo, della tremenda questione
salariale che affligge da più decenni il nostro paese. Sarebbe il modo migliore
per costruire una reale opposizione, sociale e politica, che, per essere tale,
non può giocare di rimessa, sulla difensiva rispetto alle iniziative del
governo, ma deve riuscire a imporre i propri temi di lotta, la propria
“agenda”, avrebbe detto se fosse ancora tra noi Stefano Rodotà. Non è un caso
che i proponenti il testo di legge intendano affiancarlo con una raccolta di
firme, seppure fatta con un click su “change
org”, non esattamente il massimo della mobilitazione.
La
maggioranza di governo dal canto suo si era già espressa nello scorso novembre
facendo approvare dal parlamento una risoluzione nella quale, tra le altre
cose, veniva affermato che “con la
definizione per legge di un salario minimo si metterebbe a rischio il sistema
della contrattazione collettiva, con il serio pericolo di favorire la tendenza
alla diminuzione delle ore lavorate, l’aumento del lavoro nero, l'incremento
della disoccupazione e l’aumento dei contratti di lavoro irregolare e dei
contratti «pirata»”. Quello che colpisce non è tanto la contrarietà delle
destre all’introduzione di un salario minimo in uno dei pochi paesi della Ue
che ne è privo, ma l’argomento portato a sostegno della tesi. Addirittura
quello che verrebbe messa a rischio la contrattazione collettiva, tesi poi
ripresa diverse volte da Giorgia Meloni nel corso di dichiarazioni e discorsi
pubblici in questi mesi. Naturalmente il punto scelto dalle destre è
chiaramente strumentale. Riesce ben difficile trovare una linea coerente tra
chi avanza oggi un progetto di autonomia differenziata, che tra le 23 materie
che potrebbero essere devolute alle singole regioni include anche quelle che
hanno direttamente a che fare con la prestazione lavorativa e le sue condizioni,
e chi invece vorrebbe farsi carico delle sorte della contrattazione collettiva.
Se l’autonomia differenziata si realizzasse - e purtroppo non tutti i sindacati
lo hanno compreso, e non mi riferisco solo alla Cisl che addirittura ne è
alfiere - una delle prime vittime, se non la prima, sarebbe proprio il
Contratto collettivo nazionale di lavoro. D’altro canto l’aziendalizzazione
della contrattazione, fino al rapporto tra singolo lavoratore e il padrone, ha
accompagnato costantemente la rivoluzione conservatrice del neoliberismo, anzi
ne è stata uno dei punti di forza, perché, laddove è integralmente passata, ha
sminuzzato la capacità di reazione e di organizzazione delle classi
lavoratrici.
Tuttavia per quanto scopertamente strumentale, non
si può fingere di non vedere che le destre hanno fatto proprio un argomento che
all’interno del movimento sindacale italiano è stato precisamente quello che ha
finora impedito che la sua maggioranza prendesse decisamente in mano la causa
del salario minimo garantito. Chi ha militato in Cgil, come ho fatto per una
decina di anni, si sarà sentito ripetere più di una volta che il salario minimo
garantito, soprattutto se attraverso una legge, avrebbe minato l’autorità
salariale del sindacato. O che un salario minimo avrebbe ridotto tutte le
retribuzioni a quel livello. Ossia il pavimento sarebbe diventato il tetto
della dinamica salariale. E questo veniva ripetuto anche di fronte alla
evidenza che tale autorità non veniva esercitata, o quantomeno non
sufficientemente, altrimenti non avremmo conosciuto in trent’anni la perdita
del valore reale delle retribuzioni medie del 2,9%, caso unico in Europa.
Andando al fondo della questione è stato presente
nel sindacato italiano una contrapposizione tra legge e contratto, che non
avrebbe dovuto sussistere non solo in punto di teoria, ma in base alla più
semplice delle riflessioni sulla storia del movimento operaio e del paese degli
anni sessanta e settanta. Furono anni di intensa lotta di classe, in cui la
spartizione della ricchezza prodotta tra profitti e salari vide questi ultimi
rosicchiare diverse posizioni. Durante i quali la forza e l’organizzazione dei
lavoratori fece entrare la Costituzione nei luoghi di lavoro. Nello stesso
tempo furono gli anni - gli unici - nei quali la parola “riforma” poteva essere
pronunciata con un qualche senso. Furono gli anni dello Statuto dei diritti dei
lavoratori, della riforma sanitaria, della riforma fiscale e l’elenco potrebbe
allargarsi al campo dei diritti civili, senza alcuna falsa contrapposizione fra
questi e quelli sociali. Quindi non solo non vi fu contrapposizione fra
iniziativa legislativa e contrattazione, ma reciproco sostegno, anche se
temporalmente non sempre così coincidente da rendersi del tutto evidente.
Quella storia ha falsificato definitivamente ogni teoria che si basi sulla
contrapposizione fra legge e contratto.
Ma se questo non bastasse, è sufficiente guardare
alla realtà del mondo del lavoro nel nostro paese, oggi. Secondo Pasquale
Tridico sono ben 4,2 milioni, ma c’è chi ne calcola di più, le lavoratrici e i
lavoratori che stanno sotto i 9 euro all’ora. Di questi circa 743 mila sono nei
servizi alle imprese, noleggio e agenzie viaggi; 614mila sono domestici;
576mila in ristorazione e alloggio; 340mila nel commercio; 246mila in
istruzione, sanità e assistenza sociale; 157mila nelle costruzioni. Anche la
manifattura fa la sua parte: sono ben 537mila gli addetti in queste condizioni.
Il 30% sono donne, il 24% uomini, il 38% si trovano tra gli under 35 e il 16% tra
gli over 35. Se la loro paga raggiungesse i 9 euro all’ora si arriverebbe già
ad un incremento mensile della retribuzione di 163 euro. Di questo aumento ci
sarebbe grande e urgente bisogno. Infatti alla fine del 2022 - secondo i dati
pubblicati dall’Employment outlook dell’Ocse - i salari reali in Italia
erano calati del 7%, rispetto al periodo pre-pandemico e la discesa è
continuata nel primo trimestre di quest’anno, con una diminuzione su base annua
del 7,5%. Non solo, ma in questo modo aumenterebbe il
montante pensionistico, portando ad un miglioramento di circa il 10% delle
pensioni sotto soglia. Nello stesso tempo porterebbe ad un riequilibrio,
seppure parziale, tra Nord e Sud, essendo che è nel Mezzogiorno che si trovano
le percentuali più elevate di lavoratori che percepiscono meno di nove euro
all’ora. Come si può capire già da queste nude cifre l’introduzione di un
salario minimo potrebbe fungere da volano per avviare un processo di riforme
sociali in diversi campi, quali la parità di genere nel trattamento economico e
l’elevamento delle pensioni troppo basse.
Il che porterebbe ad una maggiore
capacità di spesa in tutte le fasce di età contribuendo quindi ad un incremento
della domanda interna. Giustamente Landini ha detto che la conquista di un
salario minimo non che la prima tappa di un percorso in difesa delle
retribuzioni e dei diritti del lavoro. Non si può fare a meno di osservare però
che se il sindacato nel suo complesso si fosse mosso prima su questo terreno,
forse la prima tappa l’avremmo già raggiunta, sarebbe alle nostre spalle e
potremmo con più convinzione raggiungere quella successiva. La quale consiste
essenzialmente nella introduzione di una legge sulla rappresentanza sindacale.
Certamente ce ne sarebbe bisogno, ma per ragioni che vanno al di là della
questione del salario minimo, poiché concerne non solo la possibilità di
individuare e misurare la rappresentatività delle OO.SS. al tavolo della
trattativa, stroncando la piaga dei “contratti pirata”, ma, soprattutto, le
regole democratiche che presiedono alla relazione tra sindacato e lavoratori.
Il che significa porre il tema della rappresentanza avanti a quello della
rappresentatività, o meglio a trattare il tema partendo dal rapporto fra
lavoratori rappresentati e sindacati rappresentanti e non da quello della
credibilità contrattuale dei sindacati agli occhi del padronato, che ne è
invece la conseguenza. Ma proprio questa considerazione dovrebbe portare a
preferire senza molti dubbi una regolazione legislativa del salario minimo,
anziché una individuazione sulla base dei contratti collettivi di lavoro
esistenti. Il che ovviamente non esclude che prima di giungere alla definizione
per legge ci sia un intenso e minuzioso confronto tra il legislatore e le
organizzazioni sindacali. Certamente il tema ha le sue tecnicalità - lo
dimostra il botta e risposta sul Sole 24 Ore fra Maria Cecilia Guerra e
Michele Tiraboschi -, ma queste sono superabili e comunque non possono essere
portate a giustificazione per non procedere sul piano legislativo. Anche qui ci
aiuta la storia che abbiamo alle spalle. In base alla quale si deve convenire
che tanti decenni di contrattazione collettiva non hanno affatto estirpato il
lavoro povero, che anzi è venuto allargandosi.
È in atto una discussione sulla misura della
retribuzione oraria. Lo stesso sondaggio che ha rivelato come il 64% degli
interrogati si sia pronunciato a favore della introduzione di un salario
minimo, ha anche messo in luce come l’arco delle cifre indicate va dai 9 ai 12
euro. In Germania, ad esempio, come ha
ricordato il prof. Marco Barbieri nella recente audizione tenuta alla Camera a
fine giugno, a partire da quest’anno il salario minimo legale è di 12 euro
l’ora. La cifra deve comunque risultare coerente con le indicazioni contenute
nella Direttiva della Ue 2041 del 19 ottobre 2022. Il che sarebbe meglio
garantito se la cifra arrivasse ai 10 euro orari, cosa preferibile anche per
chi scrive. Tuttavia non ritengo che si debba aprire, al prezzo di ulteriori
divisioni, una battaglia campale tra i 9 e i 10 euro o cifre superiori. Sia perché l’esperienza passata dovrebbe
averci insegnato che simili divisioni avvantaggiano solo coloro che sono
contrari a qualunque misura di salario garantito. Sia perché la questione su
cui battersi sta piuttosto sulla necessità di introdurre meccanismi di
indicizzazione di tale cifra. Negli ultimi due anni il potere d’acquisto dei
lavoratori a reddito fisso è stato eroso dall’inflazione nella misura del 15%.
Secondo la maggior parte degli economisti a livello internazionale la
previsione di raggiungere il mitico 2%, nel tasso di inflazione, entro tempi
brevi e calcolabili è destinata ad andare delusa. Si ragiona oramai su come
convivere con un’inflazione che nel migliore dei casi non arretrerà rispetto a
valori del 3 o del 4 per cento. E già sarebbe molto, viste le incertezze dello
stato dell’economia mondiale, su cui influisce potentemente la guerra in atto
fra Russia e Ucraina. Quindi la cifra del salario minimo deve necessariamente
essere aggiornata automaticamente all’incremento dell’inflazione, se si sceglie
la strada dell’intervento della legge. Altrimenti si andrebbe rapidamente al di
sotto dei limiti previsti dalla Direttiva europea. Anche in questo caso il
salario minimo può essere un volano per riproporre il tema della indicizzazione
delle retribuzioni ad ogni livello. Per tutte queste ragioni sappiamo che lo scontro
non sarà semplice. La ministra del lavoro Marina Calderone è una acerrima
avversaria. Non a caso. Prima di diventare ministra era a capo del Consiglio
Nazionale dei Consulenti del lavoro, da sempre contrari al salario minimo. Ora
che è ministra ha passato l’incarico al marito, Rosario De Luca, il quale era
presente per i Consulenti del lavoro al confronto ufficiale con il governo,
ovvero con sua moglie. Una discussione in famiglia. Berlusconi non c’è più, ma
il conflitto di interessi, che la sinistra non ha mai saputo risolvere, si
ripresenta in altre forme e modi. E con altri soggetti protagonisti, come anche
la Santanchè, anche se di molto inferiori.