L’opaco
lume del candeliere sagomava l’inquieto volto di Gesualda. Sul davanzale della
cieca finestrella, l’ombra danzante sembrava sospingerle lievemente la mano
che, svogliata, sfogliava le pagine di un volume. E le pupille, sgranandosi,
vagolavano veloci tra le parole cercando consolazione a un impellente desiderio
di felicità terrena, inarrestabile. Di
come le donne del secolo appagavano simili appetiti Gesualda sapeva ben poco. Le
sue prime nozioni del mondo si erano esaurite nelle voci, frammentarie e
affiochite, che fanciullina aveva colto attraverso le pareti di palazzo Bevilacqua.
Quando la campanella del portone risuonava e si accresceva lo scalpitio della
servitù intenta ad imbandire rinfreschi d’acque, sorbetti e cioccolate, la
piccola correva ad appoggiare l’orecchio alla parete. Rinchiusa nella sua stanza,
forse desiderosa null’altro che di ritrovare le antiche attenzioni della buona balia,
prima fra le donne terrene nel suo cuore, Gesualda apprendeva dei fasti della
nobiltà ferrarese: i balli organizzati dal legato in Castello; il palio delle
Barchette sul Po di Volano; i tornei cavallereschi ricchi d’invenzioni e di
macchine; le processioni che, come la tiepida carezza d’una stella cadente,
illuminavano le vie della città, dalla Piazza dei Teatini fino a via degli
Angeli. Quei frammenti di vita, furtivamente rubati alle conversazioni delle
dame e riscoperti tremando nell’Ariosto e nel Tasso, avevano arricchito la tavolozza
immaginifica da cui Gesualda attingeva per riempire i vuoti e i silenzi. Riponendo
i balocchi regalatile dal padre per apprestarla al chiostro, la bambina,
chiudendo gli occhi, riscriveva storie di amori, guerra e morte.
Lasciando
alle spalle l’età dell’innocenza e abbracciando il noviziato, Gesualda smarrì tutto
quel mondo di illusorie evasioni. La normativa sulla clausura prevedeva che le
giovani più istruite dimenticassero e rinnegassero le letture, i dipinti e le musiche
che avevano foggiato le loro anime. Negli ultimi anni l’autorità spirituale
sembrava accanirsi contro ogni reminiscenza laicale che potesse imperversare, «talpa»
immonda e nefasta, nel cuore delle giovani spose di Dio: l’Ordinariato
diocesano non faceva che mandar fuori editti, stilare indici di libri proibiti
– arrivando persino a inventariare, a fini precauzionali, tutti gli scritti disponibili
nelle botteghe dei librai –, reclutare nuovi e più rigoristi inquisitori. Sebbene
Gesualda potesse fare a meno del Tasso, ancora vivido nella sua mente, le era
più difficile allontanarsi dai pentagrammi. Spinta dall’amore di quell’arte e
dall’ammirazione per la grande compositrice Vittoria Aleotti – la cui fama
aveva valicato le mura estensi richiamando illustri forestieri per ascoltarne
il concerto –, non si era opposta alla decisione paterna pregando di essere
aggregata alle agostiniane di San Vito. Anche
se al tempo del suo noviziato la pratica musicale di questa istituzione si
fosse già alquanto contratta, di certo non si poteva negare che il canto fosse ancora
l’attività più virtuosamente coltivata da queste monache. Oltre all’intonazione
dei sacri uffici, con il beneplacito della badessa Margherita Celeste Trotti –
così ben erudita nella maniera di aggirare la clausura – furono approntati spettacoli
musicali dal carattere profano nei quali, per sopperire all’assenza di
interpreti maschili, si fornivano alle cantanti farsetti e calzoni. La prima ad
indossare abiti virili fu sorella Angelica, che di soave aveva il nome ma non
la tenorile voce. Per rendere più credibile quel travestimento, fasciava
stretto il seno e contornava le carnose labbra di una finta peluria di lana
grezza. Così agghindata aveva in più occasioni tenuto tra le dita nodose gli
stretti fianchi di Francesca Matilde che, inebriata da quel tocco, si era
sciolta languidamente, all’unisono di tutto il variegato gregge di operaie del
Signore, nei versi «Pur ti miro o mio tesoro».
Pare
che la notizia di quei licenziosi spettacoli giunse all’Ordinariato dalla voce
di una conversa, gelosa di Angelica. Benché l’autorità esigesse la massima
segretezza, la notizia presto fu sulla bocca di tutti. In ragione di quello
scandalo il vescovo fece frettolosamente stendere e affiggere alla porta dei diciassette
monasteri cittadini un nuovo editto nel quale si proibiva «sotto pena di scomunica
maggiore da incorrersi ipso facto alle monache medesime il comparire travestite
et in abito secolare a recitar comedie, et opere, con canto musicale, o senza
alle porte della loro clausura, provvedimento da estendersi anche a tutti, e
singoli dell’uno, e l’altro sesso, e di qualsivoglia stato, grado, e
condizione, tanto ecclesiastici, come secolari, che intervenissero a dette opere,
o comedie, o parlassero, discorressero alla porta della clausura con dette monache
così travestite, et in abito secolare come sopra». Si andavano ponendo restrizioni
anche a quei lasciapassare occasionalmente concessi a membri del secolo per
piccole fatture da farsi all’interno delle sacre dimore. Le ragioni di questa
ulteriore limitazione vanno forse ricercate nell’incidente accaduto presso le
monache di San Guglielmo. A un facchino era stato consentito di violare la
clausura per la portatura di alcuni apparati. I poveri abiti e l’impaccio ne
celavano appena la somiglianza, nel sembiante come nelle doti musicali, all’Apollo
del Dosso Dossi. Sbagliando ingresso, il giovane si era presentato alla porta degli
orti su via delle Pettegole. Non avendo alcuna risposta ai suoi ripetuti richiami
e pensando d’essere in anticipo, aveva deciso di attendere lì davanti qualche
tempo intonando una canzonetta. Una monaca che passeggiava di là dal muro, rapita
dalle allusive rime del canto, corse ad aprire l’uscio. Solo gli ufficiali del
tribunale vescovile incaricati del caso conoscono i particolari di quell’incontro.
Tuttavia, la vicenda eccitò lo spirito narrativo degli illetterati del mercato
di San Giorgio. La badessa, constatando l’assenza della sorella durante le
preghiere dell’ora Nona, si mise a cercarla per ogni dove. Preso il sentiero degli
orti, giunse all’estremità orientale della muraglia di recinzione: la monaca e
il facchino giacevano su un letto d’erba, in dolce reciproca resa. Alla peccatrice
sedotta da un canto d’amore non fu più concesso di indossare l’abito,
frettolosamente convertito in guanciale. E di certo non fu migliore la sorte di
quell’Orfeo, condannato a tre anni di remi sulle galere papali per sfiancare
quella sua voglia di cantare alle porte dei monasteri.
Gesualda
aveva ascoltato queste e simili storie sussurrate nello scriptorium dove
ricopiava la corrispondenza della superiora. La mano, catturata dal fascino di
quegli ignoti e proibiti desideri, smetteva di scorrere per poi riattaccare al
punto sbagliato. Queste distrazioni erano costate troppe carte e la badessa, preoccupata
dalla sua svagata condotta, decise di assegnarla al momentaneo rigore e alle
umili mansioni delle cucine. Quell’incarico si rivelò un prezioso apprendistato:
le amorevoli e dolci prostitute riformate, addette alla spennatura del pollame,
la resero partecipe di quelle leggi di natura che, guidando il cuore d’una
donna, ne gonfiano il ventre di vita. Le gote di Gesualda si arrossavano di
ingenuo stupore e la mente tornava a scavalcare le mura sospinta da nuovi
pensieri. Certo la sorprendeva che si potesse, seppur con tutte le cautele del
caso, intrattenersi su simili questioni. E la naturalezza e il distacco con cui
le donne raccontavano del loro vergognoso passato la riempivano di inspiegabile,
devota ammirazione. Forse perché le parevano la reincarnazione di Maria di Edessa:
sedotta da un monaco e indotta al meretricio, la santa fu poi ricondotta ad una
vita di penitenza dallo zio Abramo. O forse perché il vociare delle riformate
suonava ben diverso dal lascivo pettegolezzo che serpeggiava tra le più
virtuose professe di quel chiostro. Così Gesualda s’era fatta l’idea che il
pettegolezzo, malcostume tanto diffuso a quei tempi, si annidasse maggiormente
in quei disgraziati individui oppressi nella loro piena manifestazione da una
forza preminente che, per bilanciare quel sacrificio, dona loro una forma di
apparente libertà da sussurrare e riscoprire nei solitari pensieri notturni. Anche
Gesualda si abbandonava ora a quelle fantasie, mentre la candela si consumava
nella lettura delle Armi necessarie alla battaglia spirituale. In quelle
pagine la beata clarissa Caterina Vigri ricordava il lungo tempo di «indicibile
amaritudine» sopraggiuntole allorché «la dolce presenza di Cristo Gesù le era
stata negata». Finché la notte di Natale la Vergine Maria, invocata in
preghiera, le apparve «con il suo dilettissimo Figliolo in braccio et con
grande benegnitate glielo porse»: l’odore della purissima carne d’infante
investì Caterina, travolgendola. Lo straordinario racconto, frutto di un’estasi
mistica esaltante, produceva in Gesualda una certa repulsione. Quasi pareva che
gli occhi, posti a bastione del suo credo, non volessero soffermarsi su quelle
parole: invece di persuadere il suo animo al mistero della fede, le inducevano ostinatamente
gli odori delle cucine e, con essi, i racconti delle riformate.
L’annoiato
silenzio della piccola cella fu rotto d’improvviso da una mano che bussava alla
porta. Le tempie della giovane iniziarono di colpo a pulsare e la nervatura a
fremere tutta. «Gesualda, è giunta l’ora. Dobbiamo andare». Era quello il
segnale convenuto che aspettava ormai da qualche notte. Dall’altra parte
dell’uscio vi era suor Barbara, al secolo Margherita, figlia del conte
Francesco Fiaschi, illustre Giudice dei Savi. Le due giovani avevano celebrato
la professione solenne lo stesso giorno. Per l’occasione le loro famiglie – note
committenti e protettrici dei musici della città, tanto che i rispettivi
palazzi erano appellati «accademie» – avevano deciso, per festeggiarne l’aggregazione
al clero regolare e ingraziarsi il sindaco di quel monastero, di finanziare
l’esecuzione di una messa cantata. Ascoltando le patetiche note eseguite dall’Accademia
della Morte, le fanciulle, l’una a fianco all’altra, avevano pianto lacrime di
precoce nostalgia e sconsolata accettazione. Tuttavia, a differenza della più
arrendevole Gesualda, Barbara malcelava il risentimento per le privazioni
materiali imposte dall’istituzione. Nonostante i privilegi concessi al suo rango,
che di fatto la esentavano dalla ruvida e sgraziata compagnia delle donne di
umili origini, mal tollerava il voto di povertà e clausura. Non soltanto perché
ciò metteva in discussione i suoi natali, ma ancor più per il fatto che le
venivano negati i più naturali vezzi femminili che, a suo credere, ben poco
c’entravano con la fede: non più monili e ricchi tessuti, non più deliziosi profumi,
non più specchi nei quali accarezzare la sua figura. Delle sue insistenti
querele soltanto una fu accolta. E fu il vescovo in persona a interessarsene impugnando
la penna per comandare al vicario generale: «vi è la giovine Fiaschi
ultimamente entrata nel monastero di coteste monache di San Vito, la quale
desidera poter tenere appresso di sé nel detto monastero una cagnolina gentile
detta Mera; et perché possa ricevere queste soddisfazioni così lei, come la
persona che mi ha ricercato, Vostra Signoria le concederà la licenza di
tenerla». L’affiatamento
tra Barbara e Gesualda era stato propiziato dalla musica. Tra un salmo e
l’altro intonato in coro, le due si erano confidate e, pur riscontrando tante differenze
nel modo d’accettare la loro condizione, nello sguardo dell’altra avevano riconosciuto
l’amica. Iniziarono allora a condividere ogni cosa con affetto, come le
attenzioni per una piccola educanda che solevano cullare nel loro giocoso abbraccio
materno.
Un
giorno, Barbara aveva raccontato a Gesualda di certe lettere scambiate in gran
segreto con un gentiluomo del seguito del legato Giovanni Battista Spada. Ben
poco si sapeva di questo nobile milanese dal buon aspetto e dall’ottimo garbo
che, giunto a Ferrara nel novembre del 1654 sulla carrozza del legato, era
stato incaricato dell’organizzazione degli svaghi musicali da farsi in Castello.
Facendogli intendere un qualche audace commercio, la monaca aveva strappato
all’uomo la promessa di un invito a teatro per lei e l’amica. «E come possiamo uscire
di qui?» aveva subito domandato Gesualda con voce tremante di tenero, inquieto
entusiasmo. Con un sorriso, Barbara discolorava il volto dell’amica: «Penserò
io a ogni cosa. Tu tieniti pronta ogni sera di questo Carnevale». Gesualda
non faceva che bramare quella villeggiatura dal chiostro: fin dall’infanzia
remota aveva disegnato in puerili visioni quel groviglio di suoni, macchine e
colori di meraviglia. Sbiancava tuttavia al pensiero delle parole di un editto
che le era capitato per le mani: «col presente proibiamo a tutti gli ecclesiastici
di questa città, e Diocesi il mascherarsi, l’andare alle commedie pubbliche, e feste,
o festini di qual si voglia sorte, il fermarsi a salta in banchi, e il
trattenersi, o passeggiare in su e giù nei corsi, e nella Giovecca, e ogn’altra
sorte di dissoluzione punibile secondo la disposizione de Sacri Canoni, e
Concili, e delle Costituzioni Pontificie, sotto pena di Scudi 100 e della carcere
a nostro arbitrio. E se la consuetudine a questo nostro editto sarà scandalosa,
oltre le pene suddette, quelli che sono in Sacris, incorreranno nella sospensione
dell’esercizio de loro ordini, ipso facto, per tre mesi, riservata a Noi l’assoluzione,
e quelli che hanno li ordini minori solamente, nella privazione dell’abito». Con
quei timori Gesualda apriva la porta all’amica. Dall’oscurità della soglia,
Barbara le passava un abito: «Presto, indossa questo!» Reggendolo tra le mani,
immobile, Gesualda lo ammirava con occhi palpitanti di incanto. Non ne aveva mai
indossato uno di così ricco broccato e di simile foggia: la cascata di decori
prendeva vita in una vaporosa gonna e in uno stretto corpetto, che scopriva l’avorio
delle spalle. «Muoviti, ci attendono! Tranquilla non ti guardo. Ma ti prego,
non farci perdere tempo con la tua stupida vergogna». Dando le spalle a Barbara,
sfilate le calzature, scioglieva la lunga cintura che stringeva la tonaca ai
fianchi. Abbandonava così quel simbolo di povertà per riempire, con le sue
morbide e verginee curve, il prezioso indumento. «E il velo?» domandò
docilmente non osando incrociare il luccichio degli occhi dell’altra. «Levalo! Prendi
questa parrucca». Con imbarazzo abbandonava la bandana bianca, per ricoprire
subito i bruni, corti, ispidi capelli con biondi ricci. «Ora andiamo, al
profumo e al trucco penseremo poi». Afferrandole la mano, Barbara trascinava
con sé Gesualda.
Chiusa delicatamente la porta della cella, con passo
leggero e svelto scesero le scale. Nel loggiato del chiostro, tutto inondato di
una fitta nebbia, procedendo a tastoni presero la porta che conduceva ai due
piccoli campi coltivati dalle monache. «Dunque anche noi negli orti?», si
chiedeva Gesualda smarrita nelle storie che quel luogo rievocava. Ma non osava dar
voce a quei suoi timori che, vani, avrebbero rotto l’immobile silenzio della
sera. Ingenuamente, riconosceva in ogni evasione il frutto della provvidenza
che, ad insaputa degli oppressi, li sa traghettare attraverso cancelli di
libertà. Come era capitato alle tre monache di Mortara: salite per gioco su un
carro condotto nella loro dimora per trasportare alcuni attrezzi contadini,
avevano pungolato i buoi; e questi, trovando le porte aperte, le trainarono
fuori dalla clausura fino al cantone di Santa Barbara. Gesualda, allo stesso
modo, si affidava alla stretta dell’amica. Quest’ultima, assai arguta e pratica
nelle cose del mondo, aveva studiato accuratamente la pianta del monastero
cercando, inizialmente, una fessura nella muraglia perimetrale. Ma non ve ne
era alcuna. E se anche avesse trovato un piccolo pertugio, sarebbe stato
impossibile ingrandirlo e fuggire senza attirare il sospetto delle altre.
Allora si era rivolta nuovamente al suo gentiluomo milanese. Questi, con non
molta difficoltà, scoprì che frate Ludovico, in qualità di confessore
straordinario del monastero, disponeva di una chiave che gli consentiva di far
visita serale ad alcune sorelle. Nel timore di essere denunciato, il religioso
gli consegnò la chiave adulterina. Pochi giorni dopo, una carrozza aveva
gettato alla porta del monastero un ammasso di panni sporchi. Barbara, prestatasi
a nettare il chiostro, si precipitò a raccoglierli: mostrava così, finalmente, di
aver a cuore anche i lavori manuali necessari alla vita comunitaria. Fingendo
di lavarli, estrasse dalla torbida acqua dei cenci la chiave, poi riposta nei
risvolti della manica. E la chiave ora, girando nella serratura della piccola
porta dell’orto, apriva il mondo alle due ragazze. Lasciando le fredde zolle
appena smosse, Gesualda e Barbara, zampettavano mano nella mano sui ciottoli
della via di Formignana. Alzando gli occhi al cielo non vedevano né la luna né le
stelle. Sorrette da vigorose braccia maschili, leggere, venivano sollevate sul
calesse che le attendeva nascosto ai piedi del Baluardo di San Tommaso. La
comitiva, lontanando veloce verso il teatro, scompariva nella bruma portando
con sé tutte le aspettative e i desideri di una sera di Carnevale.