Ma
non quella dei pacifinti! Firenze.
‘Frì Pàlestain!’ Un ragazzone capelli moderatamente lunghi, barba non esagerata,
diciamo cantante rock West Coast anni Sessanta. Èun piglio deciso, il suo. Si è
fermato a leggere, volentieri intasca il volantino e, appunto, a voce bella
alta: ‘Frì Pàlestain!’, e saluta tipo ‘venceremos’. È già qualche metro più in
là, si volta e ammiccandoci (sono con Sonia, con lei è partita intanto una
fitta confabulazione) esclama il paradossale ‘I’m American!’, due volte. ‘A
good one!’, replico riagitando il braccio in segno di ammirazione. Sì,
lui è americano, e nonostante questo è per una Palestina libera. Sarebbe bello.
Accanto a un Israele amico. È
più o meno quello che sognano lui, lei e la figlia. Ebrei newyorkesi. L’ultima
tappa della passeggiata di oggi. Era cominciata in un altro modo. La figlia,
eccitata, mi contestava quella frase, che pure ieri sera in piazza Duomo mi è
successo di evocare più di una volta: ‘Dio disse: "A me appartiene la vendetta e la retribuzione” (Bibbia,
Pentateuco, 32:35)’. Chiariamo:
la ragazza newyorkese, carnagione brunina, magari levantina, non discuteva il
precetto. Contestava che si possa parlare di ‘legge del taglione’ a proposito
della reazione di Netanyahu e compagni. È davvero talmente prevalente
l’emotività che il 7 ottobre ha scatenato nell’animo di gente anche
visibilmente sincera e in buona fede, che è stato perso in loro - mi pare - il
significato elementare delle parole pronunciate dalle massime autorità di
Israele, e degli atti che ne conseguono. Ho avuto l’impressione, ancora oggi
con questo gruppo di famiglia newyorkese, che sia così forte l’indignazione,
così inaudito il dolore, così insopportabile l’umiliazione, da giustificare
senza scrupoli l’insorgenza dell’odio. Ho notato, magari mi sbaglio, che nel
loro animo mortalmente offeso non sembra esserci posto per accogliere un
ragionamento neppure su quelle poche notizie che racimoliamo dai nostri
telegiornali, non certo schierati con la causa palestinese: dove balza agli
occhi l’evidenza della sproporzione della cosiddetta ‘autodifesa’ invocata con
l’espulsione di centinaia di migliaia di donne, bambini e uomini, sani e
malati, dalle case, dagli ospedali ,dai servizi vitali, con le bombe che
piovono spianando quartieri, e carrarmati che arrivano per fare il resto. Allora
l’ho presa da un altro lato, ma solo per un attimo. Perché anche questo sembra
un tabù mentale: riannodare i fili della storia dall’inizio del secolo scorso, incredibile:
in tanti sembrano semplicemente ignorarla, la storia della terra che abitano
alla fine solo da un quarto d’ora: e così non c’è posto per i nessi
cause-effetti.
E
allora, se non vedi, amica mia, il disastro che la vendetta-di-fatto sta
provocando, provo l’ultima. E funziona. ‘Davvero pensi - le fo - che la conquista
della pace e della serenità possa essere il frutto di un semplice (e terribile)
fatto fisico, materiale, quello che al governo chiamano ‘eradicazione’ dei
terroristi? Pensi davvero che, etica a parte, funzionerebbe?’. Mi
viene in soccorso il padre, annuendo pensieroso. E
allora aggiungo, alla figlia peperina ma autentica: ‘Sai che a volte mi viene
da pensare che, chissà, fra Hamas e l’attuale sistema di potere, in Israele e
non solo, c’è magari una parentela, più stretta di quel che appare? Diciamo
almeno una sinergia di interessi oggettivi: uno fa da stampella all’altro, e
forse noi semplicemente non dovremmo abboccare all’invito a schierarci…’. Ammettono
che a Benjamin questa orribile emergenza ha tolto, almeno temporaneamente,
qualche castagna dal fuoco. Riflette, a questo punto, il babbo: ‘Due giorni
prima del 7 ottobre, c’era stato un importante momento di preghiera insieme,
uomini e donne ebree, uomini e donne arabe…’. Certo,
quella era una ’operazione’ preparata da tempo. Non da due giorni. Ma il nesso
profondo c’è tutto! L’ultima
domanda, la peperina che torna alla carica: ‘Ma secondo lei, cosa dovremmo
fare? cosa dovrebbe fare Israele?’. Da far tremare le vene e i polsi. Azzardo
un’ipotesi: ‘Questa vertenza è grande come il mondo, e ha un valore simbolico
enorme. È un banco di prova di cui il mondo dovrebbe occuparsi. Magari ci
fossero delle autentiche Nazioni Unite, non certo quelle di adesso…’. E mi
corre alla mente il modello distopico dell’OMS, con tutto il portato orwelliano
che da quelle parti stanno preparando. Ci salutiamo contenti di esserci
incontrati.
Torniamo
a Sonia. La chiamerò così, questa ragazza ma di 37 anni (precisa), che mi fa
graditissima compagnia per un po’ oggi in via della Spada, perché lei per la
Palestina ci sente, ha amici lì, sa tante cose. Troppe. E davvero non sopporta
che il mondo accetti questo massacro scientifico e tutto il resto che si è
accumulato nel tempo: ha il cuore in gola. È adirata. Mi fa schiantare a un
certo punto che, aggressivuccia anziché no, a una tipa che si è fermata a leggere
il cartello che ho addosso mi strappa di mano un volantino e glielo mette in
mano a forza! E a me commenta: ‘L’ha a imparare a leggere e basta!’, impetuosa. Al
tempo stesso mi guarda con l’aria di chi si chiede come abbia fatto, uno, a
trovare il coraggio di mettersi a manifestare da solo. ‘Io mi vergognerei…’.
Poi si ripiglia: ‘Ma certo, quando uno sente che una cosa è giusta, trova anche
la forza. Ma te, come fai?’ Le svelo il segreto: ‘Vedi, quando hai passato
tanto tempo a scuola coi ragazzi, e l’hai fatto volentieri, e tutti i giorni
era come un giorno nuovo, e tu imparavi sempre qualcosa, alla fine, se ce
l’hai fatta a imparare a starci insieme, alla fine capisci che il mondo è
fatto di ragazzi’, e le sorrido. Sonia è bella e vitale, ma ha ancora il peso
della rabbia da sciogliere. ‘L’ho capito. Te sei un pacifista. Io invece li
ammazzerei tutti, quelli di Israele!’, fa, decisa. Ahi,
ahi! Un altro occhio per occhio! Deve trovare, anche lei, la forza di non
cascare in quella trappola. Se mi leggi, Sonia o chi sei, rifatti viva!