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mercoledì 1 novembre 2023

GUERRA
di Franco Astengo



Nei tempi cupi che stiamo vivendo nei quali la mediatizzazione dei fronti di guerra sta invadendo la vita di tutti noi facendo venir meno la coscienza delle tragedie che si stanno consumando è stato annullato a Roma per “motivi di sicurezza” l’evento che era previsto al Circo Massimo il prossimo sabato 4 novembre in occasione della festa delle forze armate. Nei giorni scorsi il ministro della difesa Guido Crosetto aveva già ipotizzato questa eventualità. Le celebrazioni istituzionali come quella all’Altare della Patria e la parata a Cagliari invece si svolgeranno. La giornata dell’unità nazionale e delle forze armate fu istituita per commemorare la fine della Prima guerra mondiale, con l’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti (vicino Padova) firmato il 3 novembre 1918, che sancì la resa dell’impero austro-ungarico all’Italia, evento bellico che permise al nostro Paese l’annessione di Trento e Trieste. Mentre lorsignori celebreranno comunque quella che D’Annunzio poi appellò “vittoria mutilata” e che deve essere prima di tutto ricordata come porta aperta sulla tragedia del fascismo, noi rammentiamo qui la memoria di quante e quanti si opposero a un massacro durato quattro anni. L’Italia entrò in guerra attraverso un vero e proprio colpo di stato come paese aggressore un anno dopo lo scoppio del conflitto europeo.


 
L’Italia sofferse 650.000 morti e un milione di feriti e nel corso dei 3 anni e mezzo di conflitto. In quell’occasione si prepararono le condizioni per l’avvento del fascismo. Questa, ridotta in pillole, l’essenza storica dell’andamento e dell’esito della Prima guerra mondiale per cui si può ritenere che non ci sia proprio nulla di trionfalistico da celebrare e che non ci sia nessuna grancassa nazionalista da suonare. Il nostro primo pensiero però va rivolto ai soldati al fronte vittime della decimazione imposta da un’assurda disciplina voluta in prima persona dal generale Cadorna e dagli alti comandi. Un’apposita commissione parlamentare di inchiesta su Caporetto istituita all’indomani della fine della guerra diede le cifre ufficiali delle condanne a morte: 1.006 delle quali 729 eseguite. Queste cifre non comprendono le esecuzioni sommarie e l’applicazione della pena capitale in trincea a discrezione degli ufficiali responsabili in caso di emergenza, una stima di questi casi, che comprendono quelli di decimazione si attesta a 300 soldati fucilati. Da ricordare ancora come i soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri e di queste esecuzioni non si ha menzione ufficiale. Va rammentato ancora che per la prima volta nella storia, immense collettività furono coinvolte in una guerra totale, dove l’intera popolazione visse un’esperienza comune di sacrificio e di dolore per i familiari al fronte e per le nuove condizioni di esistenza imposte dalle esigenze belliche. Ne furono sconvolte le comunità urbane come quelle rurali, la vita familiare e la vita individuale, i rapporti fra uomo e donna, le relazioni sociali, le abitudini civili.



In tutti i paesi in guerra la popolazione civile fu sottoposta a un’inaudita esperienza di disciplina collettiva: il potere statale fece sentire la sua forza in una dimensione addirittura di onnipotenza, investito della decisione di vita e di morte per milioni di cittadini come mai era avvenuto in passato. Le manifestazioni di dissenso e di opposizione alla guerra furono perseguite come atti di disfattismo. Il movimento operaio si scisse, probabilmente in una dimensione irreparabile. Quanto abbia pesato l’adesione dei due grandi partiti, quello francese e quello tedesco nel terribile agosto 1914 sulla rottura storica del movimento operaio deve essere ancora oggi tema di riflessione.
Probabilmente la nostra sconfitta, come movimento operaio, non nacque dal fatto che in Russia nel 1917 si sarebbe fatta una “Rivoluzione contro il Capitale” (quello di Marx beninteso, come scrisse subito Antonio Gramsci che poi la sostenne così come aveva riflettuto, ed anche oscillato, sul concetto di “neutralità attiva e operante” al momento dello scoppio della guerra) ma proprio dalla scelta di francesi e soprattutto tedeschi. La grande SPD cedette al nazionalismo, un punto da considerare ancora, certamente non obsoleto rispetto alla nostra riflessione di oggi. Il Partito Socialista Italiano fu l’unico dei grandi partiti occidentali a non allinearsi alla logica nazionalistica e questo va pure ancora ricordato. Il principio internazionalista ormai però era stato superato in negativo e non sarebbe stato recuperato neppure attraverso l’esito della Rivoluzione d’Ottobre. A partire della primavera del 1915 gli oppositori della guerra in Europa, pur appartenendo a diverse correnti minoritarie iniziarono a cercare nuovamente un collegamento internazionale.



A questo desiderio, dopo un intenso e anche oscuro lavoro preparatorio svolto ad esempio fra il partito italiano e quello svizzero di cui non è possibile dar conto nel corso di questo lavoro, risponderanno le conferenze di Zimmerwald (5-8 Settembre 1915) e di Kienthal (24-30 Aprile 1916). L’idea di una conferenza internazionale di tutti i gruppi, di tutte le organizzazioni operaie scelte non in funzione della loro rappresentatività ma in ragione della loro condanna dell’union sacrée e della loro fedeltà ai “vecchi princìpi” e alle vecchie risoluzioni dell’Internazionale operaia, matura lentamente tra il fallimento dei neutralisti e il relativo successo della conferenza femminile e di quella giovanile. Il Manifesto votato all’unanimità a Zimmerwald non chiamava alla rivoluzione, ma puntava “a ripristinare la pace tra i popoli sulla base della pace senza annessioni e del diritto dei popoli all’autodeterminazione”, inoltre giudicava la guerra come “un prodotto dell’imperialismo che mette a nudo il carattere reale del capitalismo moderno” (si sente in questo passaggio la mano dei francesi ma soprattutto di Trotskij). La votazione di Zimmerwald avvenne, come già ricordato, all’unanimità ma le interpretazioni del documento furono diverse e sei delegati l’accettarono come un “appello alla lotta” stilando un’apposita dichiarazione di condanna dell’opportunismo e specificando come vi fosse assente un’indicazione dei mezzi idonei a combattere la guerra.



I sei delegati erano Lenin, Zinoviev, Radek (delegato di Brema), Hoglund e Nerman (rappresentanti dell’estrema sinistra scandinava) e il delegato lettone Winter. Era nata la “sinistra di Zimmerwald” che, alla successiva conferenza di Kienthal allargò i propri consensi sino a 19 delegati su 44 con l’adesione dei menscevichi, della maggioranza degli italiani (tra i quali Serrati e Angelica Balabanoff) e di una parte dei tedeschi (fra i quali due delegati spartachisti).
Nel documento finale la classe operaia viene chiamata all’azione di massa per la pace e per le proprie rivendicazioni, fino al “trionfo finale del proletariato”.
L’esito di Kienthal fu chiaro: pur nelle difficoltà la prospettiva della rivoluzione era aperta, mentre divenne possibile una rottura organizzativa con la Seconda Internazionale. Zinoviev ammise, senza farsi illusioni, che si trattava di un “nuovo passo avanti verso la Terza Internazionale”. Come sappiamo si trattò di una Terza Internazionale legata alle logiche di un dominante “Partito guida”, realizzando così una particolare forma di internazionalismo.


 
Nel momento dello svolgimento della conferenza di Kienthal ci si trovava alla vigilia della rivoluzione russa e della vittoria dei bolscevichi: un’altra piega della storia, improvvisa e violenta che determinò una cesura netta anche rispetto alla fase della quale si è cercato di ricostruire, sia pure sommariamente, i difficili passaggi. Durante la guerra continuarono le agitazioni popolari avverso le sempre più precarie condizioni di vita che la condizione bellica stava imponendo. In particolare nel 1917, in Italia, si svolsero scioperi intensi, lunghi e partecipati. La classe operaia tornò a lottare nella sua totalità, scoppiarono le rivolte a Torino, Livorno, Terni, Napoli, in Lombardia. Il più importante fra questi atti di rivolta si verificò nell’agosto 1917 a Torino. Fu quella passata alla storia come “La rivolta del pane”.



Oggi più che mai è importante la nostra autonomia di pensiero e la nostra capacità di visione dei fatti della storia, al di fuori da ogni indulgenza e senza retorica. Quanto abbia pesato l’adesione dei due grandi partiti, quello francese e quello tedesco nel terribile agosto 1914 sulla rottura storica del movimento operaio deve essere ancora oggi tema di riflessione guardando anche e soprattutto all’attualità.