GUERRA
di Franco
Astengo
Nei tempi
cupi che stiamo vivendo nei quali la mediatizzazione dei fronti di guerra sta
invadendo la vita di tutti noi facendo venir meno la coscienza delle tragedie
che si stanno consumando è stato annullato a Roma per “motivi di sicurezza” l’evento
che era previsto al Circo Massimo il prossimo sabato 4 novembre in occasione
della festa delle forze armate. Nei giorni scorsi il ministro della difesa
Guido Crosetto aveva già ipotizzato questa eventualità. Le celebrazioni
istituzionali come quella all’Altare della Patria e la parata a Cagliari invece
si svolgeranno. La giornata dell’unità nazionale e delle forze armate fu
istituita per commemorare la fine della Prima guerra mondiale, con l’entrata in
vigore dell’armistizio di Villa Giusti (vicino Padova) firmato il 3 novembre
1918, che sancì la resa dell’impero austro-ungarico all’Italia, evento bellico
che permise al nostro Paese l’annessione di Trento e Trieste. Mentre
lorsignori celebreranno comunque quella che D’Annunzio poi appellò “vittoria
mutilata” e che deve essere prima di tutto ricordata come porta aperta sulla
tragedia del fascismo, noi rammentiamo qui la memoria di quante e quanti si
opposero a un massacro durato quattro anni. L’Italia entrò in
guerra attraverso un vero e proprio colpo di stato come paese aggressore un
anno dopo lo scoppio del conflitto europeo.
L’Italia sofferse 650.000 morti
e un milione di feriti e nel corso dei 3 anni e mezzo di conflitto. In
quell’occasione si prepararono le condizioni per l’avvento del fascismo.
Questa, ridotta in pillole, l’essenza storica dell’andamento
e dell’esito della Prima guerra mondiale per cui si può ritenere che non ci sia
proprio nulla di trionfalistico da celebrare e che non ci sia nessuna grancassa
nazionalista da suonare. Il nostro primo pensiero
però va rivolto ai soldati al fronte vittime della decimazione imposta da
un’assurda disciplina voluta in prima persona dal generale Cadorna e dagli alti
comandi. Un’apposita commissione parlamentare di inchiesta su Caporetto istituita all’indomani della
fine della guerra diede le cifre ufficiali delle condanne a morte: 1.006 delle quali 729 eseguite. Queste cifre non
comprendono le esecuzioni sommarie e l’applicazione della
pena capitale in trincea a discrezione degli ufficiali responsabili in caso di
emergenza, una stima di questi casi, che comprendono quelli di decimazione si
attesta a 300 soldati fucilati. Da ricordare ancora come i soldati
che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto potevano essere
colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri e di queste esecuzioni non si ha
menzione ufficiale. Va rammentato ancora che
per la prima volta nella storia, immense collettività furono coinvolte in una
guerra totale, dove l’intera popolazione visse un’esperienza comune di
sacrificio e di dolore per i familiari al fronte e per le nuove condizioni di
esistenza imposte dalle esigenze belliche. Ne
furono sconvolte le comunità urbane come quelle rurali, la vita familiare e la
vita individuale, i rapporti fra uomo e donna, le relazioni sociali, le
abitudini civili.
In tutti i paesi in guerra la
popolazione civile fu sottoposta a un’inaudita esperienza di disciplina
collettiva: il potere statale fece sentire la sua forza in una dimensione
addirittura di onnipotenza, investito della decisione di vita e di morte per
milioni di cittadini come mai era avvenuto in passato. Le
manifestazioni di dissenso e di opposizione alla guerra furono perseguite come
atti di disfattismo. Il movimento operaio si
scisse, probabilmente in una dimensione irreparabile. Quanto abbia pesato l’adesione dei due grandi partiti,
quello francese e quello tedesco nel terribile agosto 1914 sulla rottura
storica del movimento operaio deve essere ancora oggi tema di riflessione.
Probabilmente la nostra
sconfitta, come movimento operaio, non nacque dal fatto che in Russia nel 1917
si sarebbe fatta una “Rivoluzione contro il Capitale” (quello di Marx
beninteso, come scrisse subito Antonio Gramsci che poi la sostenne così come
aveva riflettuto, ed anche oscillato, sul concetto di “neutralità attiva e
operante” al momento dello scoppio della guerra) ma proprio dalla scelta di
francesi e soprattutto tedeschi. La grande SPD cedette
al nazionalismo, un punto da considerare ancora, certamente non obsoleto
rispetto alla nostra riflessione di oggi. Il
Partito Socialista Italiano fu l’unico dei grandi partiti occidentali a non
allinearsi alla logica nazionalistica e questo va pure ancora ricordato.
Il principio internazionalista ormai però era stato
superato in negativo e non sarebbe stato recuperato neppure attraverso l’esito
della Rivoluzione d’Ottobre. A partire della
primavera del 1915 gli oppositori della guerra in Europa, pur appartenendo a
diverse correnti minoritarie iniziarono a cercare nuovamente un collegamento
internazionale.
A questo desiderio, dopo un intenso e anche oscuro lavoro
preparatorio svolto ad esempio fra il partito italiano e quello svizzero di cui
non è possibile dar conto nel corso di questo lavoro, risponderanno le conferenze
di Zimmerwald (5-8 Settembre 1915) e di Kienthal (24-30 Aprile 1916). L’idea
di una conferenza internazionale di tutti i gruppi, di tutte le organizzazioni
operaie scelte non in funzione della loro rappresentatività ma in ragione della
loro condanna dell’union sacrée e della loro fedeltà ai “vecchi princìpi” e
alle vecchie risoluzioni dell’Internazionale operaia, matura lentamente tra il
fallimento dei neutralisti e il relativo successo della conferenza femminile e
di quella giovanile. Il Manifesto votato all’unanimità a Zimmerwald non chiamava
alla rivoluzione, ma puntava “a ripristinare la pace tra i popoli sulla base
della pace senza annessioni e del diritto dei popoli all’autodeterminazione”,
inoltre giudicava la guerra come “un prodotto dell’imperialismo che mette a
nudo il carattere reale del capitalismo moderno” (si sente in questo passaggio
la mano dei francesi ma soprattutto di Trotskij). La votazione di Zimmerwald avvenne, come già ricordato, all’unanimità
ma le interpretazioni del documento furono diverse e sei delegati l’accettarono
come un “appello alla lotta” stilando un’apposita dichiarazione di condanna
dell’opportunismo e specificando come vi fosse assente un’indicazione dei mezzi
idonei a combattere la guerra.
I sei delegati erano Lenin, Zinoviev, Radek (delegato di Brema),
Hoglund e Nerman (rappresentanti dell’estrema sinistra scandinava) e il
delegato lettone Winter.
Era nata la “sinistra di Zimmerwald” che, alla
successiva conferenza di Kienthal allargò i propri consensi sino a 19 delegati
su 44 con l’adesione dei menscevichi, della maggioranza degli italiani (tra i
quali Serrati e Angelica Balabanoff) e di una parte dei tedeschi (fra i quali
due delegati spartachisti).
Nel documento finale la classe operaia viene chiamata all’azione
di massa per la pace e per le proprie rivendicazioni, fino al “trionfo finale
del proletariato”.
L’esito di Kienthal fu chiaro: pur nelle difficoltà la prospettiva
della rivoluzione era aperta, mentre divenne possibile una rottura organizzativa
con la Seconda Internazionale. Zinoviev ammise, senza farsi
illusioni, che si trattava di un “nuovo passo avanti verso la Terza
Internazionale”. Come sappiamo si trattò di
una Terza Internazionale legata alle logiche di un dominante “Partito guida”,
realizzando così una particolare forma di internazionalismo.
Nel momento dello svolgimento della conferenza di Kienthal ci si
trovava alla vigilia della rivoluzione russa e della vittoria dei bolscevichi:
un’altra piega della storia, improvvisa e violenta che determinò una cesura
netta anche rispetto alla fase della quale si è cercato di ricostruire, sia
pure sommariamente, i difficili passaggi. Durante la guerra
continuarono le agitazioni popolari avverso le sempre più precarie condizioni
di vita che la condizione bellica stava imponendo. In particolare nel 1917, in Italia, si svolsero scioperi
intensi, lunghi e partecipati. La classe operaia tornò a lottare nella sua
totalità, scoppiarono le rivolte a Torino, Livorno, Terni, Napoli, in
Lombardia. Il più importante fra questi atti
di rivolta si verificò nell’agosto 1917 a Torino. Fu quella passata alla storia come “La rivolta del pane”.
Oggi più che mai è importante
la nostra autonomia di pensiero e la nostra capacità di visione dei fatti della
storia, al di fuori da ogni indulgenza e senza retorica. Quanto abbia pesato
l’adesione dei due grandi partiti, quello francese e quello tedesco nel
terribile agosto 1914 sulla rottura storica del movimento operaio deve essere
ancora oggi tema di riflessione guardando anche e soprattutto all’attualità.