In
margine al Convegno di Legnano (Castello Visconteo, 21.10.2023) Fra
le tante aporie che caratterizzano il “Problema poesia” sono due quelle che mi
sembrano centrali. 1.
Milioni di italiani scrivono in versi e pubblicano (oltre il 50% dei 75.000 titoli),
ma un libro di poesia vende da zero a pochissime centinaia di copie (senza
entrare nei meccanismi per cui un libro di poesia vende o comunque circola con
più o meno successo). È chiaro che la poesia funge, oggi più che mai, da “tecnologia
del sé”, da valvola di sfogo per un evidente bisogno di espressione al di là
degli scopi consciamente letterari, che come sempre coinvolgono una minoranza. Internet
e i social hanno fornito la base tecnologica alla componente edonistica di
questa écriture, con una parvenza di democratizzazione che può forse avere
ripercussioni positive sulla fruizione della poesia, ma non certo sull’aspetto
qualitativo né sul suo posizionamento epistemologico. L’attrattiva, forse, è
almeno in parte dovuta alla memoria e all’effetto scia del prestigio che la
poesia ha avuto nel passato. 2.
Di fatto, nonostante l’apparente sovraesposizione mediatica, i poeti e la
poesia sono culturalmente invisibili: si vanta ovunque l’importanza della
poesia, la sua centralità, la sua grande tradizione, ma la poesia è relegata ai
margini del mercato e soprattutto del pensiero contemporaneo.
Chiarisco:
non c’è mai stato un luogo o un tempo in cui la poesia fosse popolare, letta e
apprezzata da tutti: la poesia è sempre stata marginale rispetto ai grandi
numeri e alle forme d’arte spettacolarizzabili, però dalla sua posizione
periferica aveva un grande impatto sul pensiero: pensiamo alla fusione di
poesia, filosofia e scienza dei presocratici, alla funzione di intrattenimento
e celebrazione ufficiale che aveva per le aristocrazie (da quella romana a
quella medievale) o al peso linguistico e culturale della Commedia... E
ricordiamo che fino a cento anni fa la conoscenza e l’apprezzamento della
poesia, anche contemporanea, erano patrimonio delle classi colte. Oggi, dal suo
cantuccio che sembra uno sgabuzzino delle scope, la poesia continua a sintetizzare
e anticipare in modo olistico le tendenze del pensiero più avanzato e a cercare
di dar voce agli interrogativi che si agitano “là fuori”, nel mondo reale.La poesia, intuitiva e umanistica nel sorgere anche
se razionale e rigorosa nella costruzione, è quanto di più distante dal
predominio della tecnologia che oggi uccide non solo la creatività e la scuola,
ma soprattutto il pianeta. La poesia da
sempre predica quello cheoggi siconsidera il futuro,
cioè un umanesimo colto, informato ed etico: una “ecologia della mente” nel senso
predicato da Bateson; ma anche una ecologia del linguaggio, perché la poesia
esige come condizione di partenza e permette di rappresentare un pensiero che
non sia quello dell’“uomo semplificato” di Jean-Michel Besnier, vittima
inconsapevole anche se appagata della tecnocrazia. Per questo, il poeta sfrutta
il codice al massimo delle sue potenzialità e, come dice Wittgenstein, spinge
oltre i limiti del linguaggio e del pensiero dicibile, per cui deve fungere da esempio
(tutto sommato etichettabile come “estetico”) di come un pensiero complesso
possa essere avvicinato e in parte tramite la creatività umana reso
linguisticamente: l’ipotesi Sapir-Whorff suggerisce come la lingua influenzi il
pensiero, e quindi senza parole adeguate il nostro pensiero si indebolisca. Altrimenti,
si dica chiaramente che non interessano i danni che un linguaggio deteriorato
apporta alla società... (Vorrei
precisare, a scanso di equivoci, che la definizione di poesia, con l’enfasi che
io pongo sul “testo”, può travalicare le scelte espressive o di poetica, purché
siano preservati quegli elementi qualitativi che la rendono, appunto, la
“dissipazione improduttiva” di cui parla Bataille.) La
poesia è in sostanza uno strumento per “umanizzare la modernità”, rubando il
titolo al libro di Mauro Ceruti e Francesco Belusci (Raffaello Cortina 2023):
una modernità che non è l’utopia tecnologica benigna di Star Trek ma la “dittatura
del calcolo” (cito Paolo Zellini, Adelphi 2018) e degli algoritmi.
Il
poeta, però, che dovrebbe al di fuori di ogni retorica non tanto sovrintendere
quando preservare questa funzione, non ha alcun riconoscimento: al massimo si
cita qualche verso imparato a scuola (anche se scienziati e filosofi, che non
sono certo avidi lettori di poesia, sanno calare la citazione precisa, il
collegamento ad hoc). Al massimo - ecce homo - si propone il poeta come caso
umano o si spettacolarizza l’evento poetico scadendo nel trash.Ma chi ammette mai i poeti nel
dibattito culturale, su temi su cui comunque scrivono - e spesso cose da
considerare? Le questioni centrali di oggi non richiedono solo algoritmi,
ma implicherebbero invece empatia, creatività e intuizione - proprio il quid
della poesia! Del resto, è difficile parlare di “dibattito culturale” quando a
mancare sono le sedi appropriate, e soprattutto la loro capacità di avere un
impatto positivo sulla realtà “politica” che viviamo: a meno di non considerare
luoghi ideali di dibattito i salotti televisivi, rivolti a un “pubblico” di spettatori- consumatori più che di cittadini. Preciso anche questo: la poesia
non è una inafferrabile entità sentimentale e metaforica (la poesia di un
tramonto, di un quadro...) ma una attività umana che ha a che fare con la
semantica, il significato: vuole articolazione intellettuale e la coerenza razionale, cioè etica, di ciò che
Hjelmslev definisce “materia del contenuto”. Certo, un poeta è un uomo che
pensa, ma sappiamo anche che la poesia è “sostanza dell’espressione”: è ritmo,
suono. Da un lato la forma è libera, persino anarchica, non definibile né
tantomeno codificabile, ma dall’altro è stringente: dice Pound che nessun verso
è libero per chi vuol fare un buon lavoro, ed è vero: “tocca solo una corda, e
senti che stonatura”, avverte Shakespeare nel Troilo e Cressida. Come minimo, ogni
variazione apporta un cambiamento: alcuni elementi emergono enfatizzati da un a
capo diverso, da un suono che si armonizza o cozza con un altro, da un ritmo
che si fa più martellante o suadente, o per via della qualità dei suoni.
Ma
proprio questa peculiarità, che la rende universale al di là dei limiti (in
parte superabili) della traduzione, non è anche ciò che oggi la rende
apparentemente obsoleta, un hobby innocuo? Nell’era del ready-made digitale per
tutti (punta dell’iceberg di una tecnologia invece per pochissimi!) l’attenzione
spasmodica che il poeta deve dedicare a ogni dettaglio è potlac, dépense: la
parte maledetta di Bataille che si contrappone all’economia della conservazione
- ma che proprio perquesto crea ciò che dura, che qualcuno (sempre meno) leggerà in
futuro, perché la poesia “vince di mille secoli il silenzio.” E
il silenzio sta arrivando: ecco perché dobbiamo preservare questa attenzione, questa
precisione, di contro al rumore di fondo del trash. E, tornando ai numeri di
partenza, contro all’idea che tutti siano in grado di fare poesia, come non
tutti sono in grado di correre la maratona o suonare bene il piano. Perché, se
è vero che tutti possono scrivere ed esprimere un pensiero in versi, andando a
capo con qualche competenza, ciò di cui si sta parlando (e di cui c’è una
necessità ben maggiore rispetto al legittimo desiderio di espressione) è
proprio la poesia in senso letterario, quell’attività difficilmente definibile che
però è ottimamente rappresentata, da un certo numero di testi su cui c’è tutto
sommato una unanimità convincente. Almeno fino a ieri...
Io,
francamente, credo che sia difficile ribaltare la tendenza. Le possibilità non
si giocano sulla qualità di ciò che viene scritto, né su utopiche aspettative
di un riconoscimento pubblico nel breve periodo. Il poeta continuerà a dire la
verità ma non sappiamo se sarà ascoltato. La dirà quindi solo per sé, per pochi
isolati? E avrà senso continuare a urlare nel deserto? Io non so se la poesia
sia finita, come scrive Carifi. Però, per giocarci bene le carte restanti, dobbiamo
fare poesia per chi verrà, interpretando il nostro tempo senza minimalismi né
filosofia in versi; dobbiamo evitare le fiere dei balocchi e delle vanità, le
patacche affibbiate come inutile riconoscimento, i dati di vendita farlocchi,
le classifiche e le graduatorie disoneste fatte da chi, nella pratica, combatte ogni giorno contro la poesia e
l’intelligenza umana. Dobbiamo capire che i destini della poesia non
risiedono lì, nelle pacche sulle spalle, ma nel rafforzare una comunità di
poeti onesti. Più per il futuro che per il presente. Come diceva Angelo Maria Ripellino,
nonostante.