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mercoledì 8 novembre 2023

POETI? SÌ GRAZIE
di Mauro Ferrari


Mauro Ferrari
 
In margine al Convegno di Legnano (Castello Visconteo, 21.10.2023)
 
Fra le tante aporie che caratterizzano il “Problema poesia” sono due quelle che mi sembrano centrali.
1. Milioni di italiani scrivono in versi e pubblicano (oltre il 50% dei 75.000 titoli), ma un libro di poesia vende da zero a pochissime centinaia di copie (senza entrare nei meccanismi per cui un libro di poesia vende o comunque circola con più o meno successo). È chiaro che la poesia funge, oggi più che mai, da “tecnologia del sé”, da valvola di sfogo per un evidente bisogno di espressione al di là degli scopi consciamente letterari, che come sempre coinvolgono una minoranza. Internet e i social hanno fornito la base tecnologica alla componente edonistica di questa écriture, con una parvenza di democratizzazione che può forse avere ripercussioni positive sulla fruizione della poesia, ma non certo sull’aspetto qualitativo né sul suo posizionamento epistemologico. L’attrattiva, forse, è almeno in parte dovuta alla memoria e all’effetto scia del prestigio che la poesia ha avuto nel passato.
2. Di fatto, nonostante l’apparente sovraesposizione mediatica, i poeti e la poesia sono culturalmente invisibili: si vanta ovunque l’importanza della poesia, la sua centralità, la sua grande tradizione, ma la poesia è relegata ai margini del mercato e soprattutto del pensiero contemporaneo.


 
Chiarisco: non c’è mai stato un luogo o un tempo in cui la poesia fosse popolare, letta e apprezzata da tutti: la poesia è sempre stata marginale rispetto ai grandi numeri e alle forme d’arte spettacolarizzabili, però dalla sua posizione periferica aveva un grande impatto sul pensiero: pensiamo alla fusione di poesia, filosofia e scienza dei presocratici, alla funzione di intrattenimento e celebrazione ufficiale che aveva per le aristocrazie (da quella romana a quella medievale) o al peso linguistico e culturale della Commedia... E ricordiamo che fino a cento anni fa la conoscenza e l’apprezzamento della poesia, anche contemporanea, erano patrimonio delle classi colte. Oggi, dal suo cantuccio che sembra uno sgabuzzino delle scope, la poesia continua a sintetizzare e anticipare in modo olistico le tendenze del pensiero più avanzato e a cercare di dar voce agli interrogativi che si agitano “là fuori”, nel mondo reale. La poesia, intuitiva e umanistica nel sorgere anche se razionale e rigorosa nella costruzione, è quanto di più distante dal predominio della tecnologia che oggi uccide non solo la creatività e la scuola, ma soprattutto il pianeta. La poesia da sempre predica quello che oggi si considera il futuro, cioè un umanesimo colto, informato ed etico: una “ecologia della mente” nel senso predicato da Bateson; ma anche una ecologia del linguaggio, perché la poesia esige come condizione di partenza e permette di rappresentare un pensiero che non sia quello dell’“uomo semplificato” di Jean-Michel Besnier, vittima inconsapevole anche se appagata della tecnocrazia. Per questo, il poeta sfrutta il codice al massimo delle sue potenzialità e, come dice Wittgenstein, spinge oltre i limiti del linguaggio e del pensiero dicibile, per cui deve fungere da esempio (tutto sommato etichettabile come “estetico”) di come un pensiero complesso possa essere avvicinato e in parte tramite la creatività umana reso linguisticamente: l’ipotesi Sapir-Whorff suggerisce come la lingua influenzi il pensiero, e quindi senza parole adeguate il nostro pensiero si indebolisca. Altrimenti, si dica chiaramente che non interessano i danni che un linguaggio deteriorato apporta alla società...
(Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che la definizione di poesia, con l’enfasi che io pongo sul “testo”, può travalicare le scelte espressive o di poetica, purché siano preservati quegli elementi qualitativi che la rendono, appunto, la “dissipazione improduttiva” di cui parla Bataille.)
La poesia è in sostanza uno strumento per “umanizzare la modernità”, rubando il titolo al libro di Mauro Ceruti e Francesco Belusci (Raffaello Cortina 2023): una modernità che non è l’utopia tecnologica benigna di Star Trek ma la “dittatura del calcolo” (cito Paolo Zellini, Adelphi 2018) e degli algoritmi.

 
Il poeta, però, che dovrebbe al di fuori di ogni retorica non tanto sovrintendere quando preservare questa funzione, non ha alcun riconoscimento: al massimo si cita qualche verso imparato a scuola (anche se scienziati e filosofi, che non sono certo avidi lettori di poesia, sanno calare la citazione precisa, il collegamento ad hoc). Al massimo - ecce homo - si propone il poeta come caso umano o si spettacolarizza l’evento poetico scadendo nel trash. Ma chi ammette mai i poeti nel dibattito culturale, su temi su cui comunque scrivono - e spesso cose da considerare? Le questioni centrali di oggi non richiedono solo algoritmi, ma implicherebbero invece empatia, creatività e intuizione - proprio il quid della poesia! Del resto, è difficile parlare di “dibattito culturale” quando a mancare sono le sedi appropriate, e soprattutto la loro capacità di avere un impatto positivo sulla realtà “politica” che viviamo: a meno di non considerare luoghi ideali di dibattito i salotti televisivi, rivolti a un “pubblico” di spettatori- consumatori più che di cittadini. Preciso anche questo: la poesia non è una inafferrabile entità sentimentale e metaforica (la poesia di un tramonto, di un quadro...) ma una attività umana che ha a che fare con la semantica, il significato: vuole articolazione intellettuale e la coerenza razionale, cioè etica, di ciò che Hjelmslev definisce “materia del contenuto”. Certo, un poeta è un uomo che pensa, ma sappiamo anche che la poesia è “sostanza dell’espressione”: è ritmo, suono. Da un lato la forma è libera, persino anarchica, non definibile né tantomeno codificabile, ma dall’altro è stringente: dice Pound che nessun verso è libero per chi vuol fare un buon lavoro, ed è vero: “tocca solo una corda, e senti che stonatura”, avverte Shakespeare nel Troilo e Cressida. Come minimo, ogni variazione apporta un cambiamento: alcuni elementi emergono enfatizzati da un a capo diverso, da un suono che si armonizza o cozza con un altro, da un ritmo che si fa più martellante o suadente, o per via della qualità dei suoni.
 


Ma proprio questa peculiarità, che la rende universale al di là dei limiti (in parte superabili) della traduzione, non è anche ciò che oggi la rende apparentemente obsoleta, un hobby innocuo? Nell’era del ready-made digitale per tutti (punta dell’iceberg di una tecnologia invece per pochissimi!) l’attenzione spasmodica che il poeta deve dedicare a ogni dettaglio è potlac, dépense: la parte maledetta di Bataille che si contrappone all’economia della conservazione - ma che proprio per questo crea ciò che dura, che qualcuno (sempre meno) leggerà in futuro, perché la poesia “vince di mille secoli il silenzio.”
E il silenzio sta arrivando: ecco perché dobbiamo preservare questa attenzione, questa precisione, di contro al rumore di fondo del trash. E, tornando ai numeri di partenza, contro all’idea che tutti siano in grado di fare poesia, come non tutti sono in grado di correre la maratona o suonare bene il piano. Perché, se è vero che tutti possono scrivere ed esprimere un pensiero in versi, andando a capo con qualche competenza, ciò di cui si sta parlando (e di cui c’è una necessità ben maggiore rispetto al legittimo desiderio di espressione) è proprio la poesia in senso letterario, quell’attività difficilmente definibile che però è ottimamente rappresentata, da un certo numero di testi su cui c’è tutto sommato una unanimità convincente. Almeno fino a ieri...



Io, francamente, credo che sia difficile ribaltare la tendenza. Le possibilità non si giocano sulla qualità di ciò che viene scritto, né su utopiche aspettative di un riconoscimento pubblico nel breve periodo. Il poeta continuerà a dire la verità ma non sappiamo se sarà ascoltato. La dirà quindi solo per sé, per pochi isolati? E avrà senso continuare a urlare nel deserto? Io non so se la poesia sia finita, come scrive Carifi. Però, per giocarci bene le carte restanti, dobbiamo fare poesia per chi verrà, interpretando il nostro tempo senza minimalismi né filosofia in versi; dobbiamo evitare le fiere dei balocchi e delle vanità, le patacche affibbiate come inutile riconoscimento, i dati di vendita farlocchi, le classifiche e le graduatorie disoneste fatte da chi, nella pratica, combatte ogni giorno contro la poesia e l’intelligenza umana. Dobbiamo capire che i destini della poesia non risiedono lì, nelle pacche sulle spalle, ma nel rafforzare una comunità di poeti onesti. Più per il futuro che per il presente. Come diceva Angelo Maria Ripellino, nonostante.