L'accurato
lavoro di Simona Colarizi che ha assunto forma concreta nel volume: La
resistenza lunga: storia dell'antifascismo 1919-1945 è risultato purtroppo
carente in un passaggio che, a giudizio dello scrivente, ha rappresentato un
momento di grande interesse nella dimostrazione di una diffusa presenza
antifascista, in ispecie nella classe operaia delle grandi concentrazioni
industriali: il riferimento è all'esito del plebiscito voluto dal regime in
occasione delle elezioni per la camera dei deputati del 1929. È il caso di ricordare:vinte
le elezioni del 1924 grazie alla legge maggioritaria “Acerbo” e alle violenze
squadriste, assunte le vesti di una vera e propria dittatura dopo il delitto
Matteotti, costituito il Tribunale Speciale, il fascismo modificò in senso
plebiscitario il sistema elettorale chiamando gli italiani alle urne il 24
marzo 1929.Il progetto della nuova legge
elettorale, preparato da Alfredo Rocco, rimarcò a chiare lettere la negazione,
da parte della dottrina fascista, del dogma della “sovranità popolare”,
affermando al suo posto quella della “sovranità dello Stato” e
dell’identificazione diretta dello Stato in un solo Partito, in conseguenza di
sua natura totalitario.Secondo questo
principio i deputati diventarono meri organi dello stato emanazione di un
partito e non rappresentanti del corpo elettorale.Si pose quindi fine a quelli che Mussolini definì in
Parlamento come “ludi cartacei” e si ratificò un progetto che pose la scelta
dei futuri deputati nelle mani di due organi: la prima selezione a opera delle
organizzazioni sindacali intese come scheletro dello stato fascista corporativo
e da parte del Gran Consiglio del Fascismo, cui fu demandato il compito di
compilare la lista dei 400 nomi da sottoporre al corpo elettorale affinché esso
esprimesse il proprio consenso. La legge era basata sul suffragio
universale maschile, già previsto sin dal 1912. Il diritto di voto
per i soli cittadini maschi era però subordinato al rientrare in una delle
seguenti categorie: A: coloro che pagavano un contributo sindacale o erano soci di
una società o ente che pagasse tale contributo, oppure da almeno un anno possedessero
azioni nominative di società in accomandita per azioni o di società anonime B: coloro che pagavano almeno 100 lire d’imposte dirette allo
Stato, alle province o ai comuni C: coloro che percepivano uno stipendio, un salario o una
pensione a carico dello Stato D: membri del clero cattolico o di altro culto ammesso dallo
Stato
Nel complesso risultarono
iscritti nelle liste elettorali 9.638.859 cittadini rispetto ai 12.069.336 del
1924. Il 24 marzo 1929 furono così
aperti i seggi per l’elezione della nuova Camera dei Deputati. La partecipazione al voto
risultò altissima con l’89,86%, ben superiore a quella del 63,1 del 1924.In
molte parti del Paese i fascisti incolonnarono gli elettori e li scortarono
militarmente al seggio facendoli votare collettivamente con la deposizione
della scheda del “Sì” nelle urne.Infatti le
due schede, del “Sì” e del “No” dovevano essere ritirate preventivamente
all’ingresso del seggio consentendo così l’identificazione del voto.In queste condizioni il “Sì” ottenne 8.517.838 voti pari al
98,34% dei voti validi.Ci furono 8.209 voti
nulli pari allo 0,09%.I “No” furono 135.773
pari all’1,57%. L’Italia era costretta in un
regime dittatoriale ormai da quattro anni, i componenti dei gruppi dirigenti
antifascisti erano stati assassinati, messi in galera, costretti all’esilio (in
quel momento in Francia si trovavano circa 25.000 rifugiati antifascisti): ciò
nonostante 135.773 elettori, da considerare veri e propri “eroi della
democrazia”, trovarono il coraggio di rendere palese (visto il sistema di voto)
il loro rifiuto non tanto del listone ma del regime, con grande rischio
personale.Si trattò di un gesto di estrema coerenza morale e
politica, agito in condizioni di difficoltà estrema.Un gesto del quale ci si è ormai dimenticati e che, invece,
è ancora proprio il caso di esaltare. La composizione di quel “No”
dal punto di vista geografico e politico ci svela molte cose sull’origine di
quel rifiuto.Oltre a una consistente opposizione di natura etnica,
i tedeschi in Alto Adige e gli sloveni in Istria e in Venezia Giulia, la gran
parte dei voti contrari si concentrò nel “triangolo industriale”, tra Lombardia,
Piemonte e Liguria.Le regioni delle grandi
fabbriche meccaniche, metallurgiche, elettromeccaniche e chimiche fornirono
infatti 69.226 voti al fronte del “No”, pari al 50.98% del totale. Oltre il 2% dei voti contrari
si ebbero soltanto nelle regioni del Nord, mentre al Centro si superò l’1%
soltanto in Toscana e in Umbria.Al Sud e nelle Isole
(dove il fenomeno dell’incolonnamento degli elettori risultò generalizzato) si
registrano complessivamente: 5.416 “No” pari al 4% del totale. In tutta la
Basilicata si registrarono 10 voti contrari e in Calabria 74.Dal punto di vista della consistenza del No, considerata la
collocazione geografica, lo schema di riferimento fu comunque quello già
osservato con le elezioni del 1924.In
quell’occasione le liste di opposizione alla lista fascista, suddivise in 11 formazioni
politiche, ottennero complessivamente il 35,1% dei voti ed egualmente nel
triangolo industriale Genova - Milano - Torino il fascismo ebbe il minimo dei
consensi.
Di grande interesse, da questo
punto di vista, la dislocazione dei voti del Partito Comunista e dei due
Partiti Socialisti: il Partito Comunista d’Italia ottenne, infatti, nel 1924 il
3,7% (una flessione minima rispetto al 1921 dove aveva ottenuto il 4,6%): i due
partiti socialisti avevano ottenuto rispettivamente il 5.0 e il 5,9 (nel 1921
il 24,5% cedendo quindi oltre il 13%). Rispetto al voto del plebiscito
del 1929 diventa quindi di grande interesse notare che le sole regioni dove i
partiti socialisti avevano superato il 10% e i comunisti il 6% fossero proprio
la Lombardia, il Piemonte e la Liguria. Si può quindi affermare come il
“No” al listone nel 1929 fosse di origine diretta dal voto dei partiti della
sinistra, socialisti e comunisti, e dalla loro capacità di mantenere
l’organizzazione dell’opposizione nelle grandi fabbriche e così sarebbe stato
per tutto il ventennio.Per concludere ecco il dettaglio del voto per il “No”
regione per regione in cifra assoluta e in percentuale: Piemonte 20.881 2,58% Liguria 11.217 3,82% Lombardia 37.128 3,06% Trentino Alto Adige 7.902 6,55% Veneto 20.587 2,58% Friuli Venezia Giulia (con
Zara) 4.080 2,14% Emilia Romagna 14.843 2,01% Toscana 7.251 1,04% Marche 1.665 0,67% Umbria 1.783 1,23% Lazio 3.020 0,72% Abruzzo e Molise 616 0,19% Campania 2.417 0,34% Puglie 165 0,04% Basilicata 10 0,01% Calabria 74 0,02 Sicilia 861 0,10% Sardegna 1.273 0,71%