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domenica 21 gennaio 2024

LA MONTAGNA INCANTATA
di Giorgio Riolo


Thomas Mann
 
I problemi e i temi tra Novecento e secolo XXI. La montagna incantata di Thomas Mann nel centenario della sua pubblicazione.
 
Il romanzo, noto anche come La montagna magica, non è solo un romanzo realistico del Novecento. È, alla maniera di Thomas Mann, anche un romanzo di idee, un romanzo dialettico, un romanzo filosofico. Nella trama e nella narrazione di ambienti, di contesti, di tipi umani, di svolgimenti nella vita quotidiana del microcosmo del Berghof, del sanatorio a Davos, si veicolano soprattutto, per mezzo degli scontri dialettici tra Lodovico Settembrini e Leo Naphta, i problemi, le ideologie, i dilemmi del macrocosmo di tutto il Novecento. Tutto ciò, giocoforza, pertanto, costituisce una parte del corredo di pensiero e di retroterra culturale che ereditiamo di peso nel nostro secolo XXI. È l’opera nella quale tutte le grandi questioni filosofiche, culturali, religiose, psicologiche, antropologiche del Novecento vengono affrontate, vengono rese nella forma del romanzo realistico come genere letterario. Nella feconda interazione con la vita, con i tipi umani, con le vicende umane, con gli accadimenti storici e sociali. Da qui la grandezza di questo romanzo, un monumento della letteratura universale. I temi ricorrenti in Mann, dai Buddenbrook, da Tonio Kröger in avanti, dei rapporti, spesso dicotomici, arte-vita, natura-spirito, spirito borghese alla Buddenbrook (“la severa, struggente borghesità dell'anima”, di cui parla Claudio Magris) e spirito volgare capitalistico alla Hagenström, progresso-reazione, vita-morte, corpo-spirito, lo percorrono magistralmente in filigrana. Romanzo di idee e del Leitmotiv. Del motivo conduttore, entro le alterne e ricche vicende umane, delle idee che i vari personaggi veicolano e impersonano. E la modalità del Leitmotiv ricorre spesso nell’opera narrativa dello scrittore.
 


Nel 1912 Katia, la moglie di Mann, venne ricoverata presso il sanatorio di Davos, località montana sopra Zurigo, per una lieve affezione polmonare. Lo scrittore andò a farle visita per alcuni giorni. Da quella esperienza gli venne l'idea di scrivere un racconto. Dopo la faticosa gestazione del romanzo breve La morte a Venezia, una pausa per rilassare i nervi. In realtà questo proposito si realizzerà compiutamente solo 12 anni dopo. Nel frattempo il racconto è divenuto un romanzo vero e proprio. La montagna incantata verrà pubblicato nel 1924. È la fase della vita di Thomas Mann dopo la tragica esperienza della guerra mondiale e soprattutto dopo la sua decisiva svolta, nel 1922, con l'adesione agli ideali democratici e progressisti della Repubblica di Weimar. In precedenza, prima della svolta, Mann condivideva una visione da “anticapitalismo romantico” di molti intellettuali tedeschi.
Lo stesso autore avverte di assumere l’ampio saggio Considerazioni di un impolitico del 1918 quale momento di passaggio verso la materia del romanzo. Pochi anni prima di morire, nel 1952, scriveva “Non me la sono mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni: esse sono un’opera di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di me stesso a cui devo essere grato già perché solo quella tribolazione ha reso possibile La montagna incantata”. In nome della Kultur (la cultura umanistica, filosofica, religiosa, pretesa più elevata) tedesca, della pretesa “missione civilizzatrice e spirituale” della Germania, si avversava la cosiddetta Zivilization (la civilizzazione capitalistica, le convenzioni borghesi, il consumo ecc.) delle potenze capitalistiche occidentali, attente solo al mero e banale sviluppo materiale e consumistico, capitalistico appunto. Va da sé che una parte di questi intellettuali elaboreranno la sconfitta nella guerra e la fine dell’impero tedesco nel 1918 con un’aperta svolta reazionaria, di destra politica, sociale e culturale. La culla intellettuale del nazismo successivo. Altri intellettuali, come Thomas Mann, vanno in tutt’altra direzione, fino, per alcuni, ad abbracciare le sorti del socialismo e del comunismo. La materia, che nei piani originari dello scrittore doveva essere racchiusa in un racconto, anche lungo, concresce, si sviluppa fino ad assumere le dimensioni considerevoli del romanzo e della complessità che lo caratterizza. Nella illuminante lezione sul suo romanzo che l’autore tenne all’Università di Princeton, negli Stati Uniti dove egli si era trasferito per sfuggire al nazismo, nel maggio 1939 dirà, tra il serio e il faceto, “Di fatto, La montagna incantata è un libro molto tedesco”.
 

Rivolto sempre agli studenti di Princeton “Un protagonista semplice, il comico conflitto tra avventure macabre e rispettabilità borghese: ecco ciò che mi proponevo”. Hans Castorp è un giovane ingegnere di Amburgo. È il “borghese medio tedesco”, il “sempliciotto”. Il suo destino sarebbe risultato il comune destino di un borghese tedesco se non fosse avvenuta la “deviazione epicurea”, il clinamen, la casualità. Hans in un giorno del 1907 si reca a trovare per tre settimane il cugino Joachim Ziemssen, ricoverato al sanatorio di Davos. La sua permanenza al sanatorio durerà invece ben 7 anni.
Nel microcosmo del sanatorio il macrocosmo del mondo vi è concentrato, purificato, nel tempo e nello spazio, e l’esperienza del giovane borghese si configurerà come esperienza formativa decisiva della propria vita. Il romanzo pertanto è anche un Bildungroman, un romanzo di formazione. Non è solo la montagna ad attrarre. La vita nel sanatorio lo attrae. È un mondo a sé (il “quassù”), nel quale le varie tendenze umane possono essere dispiegate nella loro purezza. Risulta essere l’atmosfera nella quale vige la concentrazione sul “corpo” e nella quale incombe il presentimento della “morte”. Vige una concezione, e un’esperienza, del “tempo” peculiare. Il tempo del sanatorio, della montagna, è altra cosa rispetto al tempo della pianura.
Luogo della malattia per eccellenza, in realtà il sanatorio, proprio per la prossimità e la possibilità della morte, è il luogo dove le passioni vengono incitate e spronate. Una sorta di vacanza dei freni inibitori viene incentivata. Hans è coinvolto in questa generale atmosfera. Nel romanzo di formazione vi sta anche il suo innamoramento per la bella russa Clavdia Chauchat, mai reso esplicito, ma esoticamente evocatore di lontane libidini, di lontani richiami slavi. Questi ultimi molto significativi per il tedesco Hans, per la Germania in generale. E l’olandese Peeperkorn, che fa la sua comparsa al Berghof a un certo punto con Claudia, la sua sfrenatezza e la sua vitalità evocano al tranquillo borghese tedesco Hans un’altra importante dimensione, quella vitalistica, a lui prima sconosciuta. L’atmosfera del sanatorio è in sostanza lo stato d’eccezione della “montagna” a cui è contrapposta la normale, reale, piana, tranquilla vita della “pianura”. E lì Hans ha modo di assistere allo scontro di due anime, di due mondi intellettuali e morali, nelle persone di Lodovico Settembrini e di Leo Naphta.
 

La polarizzazione Settembrini-Naphta consente a Thomas Mann di fare i conti filosofici e ideologici in senso lato con ciò che dall’Ottocento passa al Novecento e con il lascito sinistro della prima guerra mondiale.
Lodovico Settembrini rappresenta il tipo umano, il lato antropologico e culturale del positivo, ottimistico, anche ingenuo, rappresentante dell'anima democratica, progressista, umanistica, del cultore delle lettere e delle scienze. Non a caso di origini italiane. Leo Naphta è il tipo umano molto netto, il lato antropologico e culturale dell’intelligentissimo rappresentante dell'anima gerarchica, totalitaria, del pessimismo antropologico, dell'organicismo della Chiesa e del Proletariato. Naphta è gesuita ed è di origini ebraiche. Nato in quel luogo così tormentato nell’Est europeo, il confine galiziano-voliniano, alla mercé dell’instabile dinamica territoriale tra impero zarista, Polonia e impero austroungarico. È soprattutto quell’area alla mercé dei terribili pogrom contro le comunità ebraiche. Egli è figlio di un macellaio e ha assistito a uno di questi pogrom. Il sangue e la morte agiscono sulla sua anima. Naphta è gesuita. Ricordiamo che l’ordine dei gesuiti aveva come motto “perinde ac cadaver”, servire l’ordine, la Chiesa, il cattolicesimo, financo da morti, da cadaveri appunto. Nella visione organicistica del comunismo vi era, implicito o esplicito, l’assunto che il singolo, l’individuo, la cellula non esiste. Esiste solo il collettivo, il “corpo” sociale della classe, l’esercito del proletariato contro lo “spirito manchesteriano” del capitalismo, del “mio” e del “tuo”. Il Noi come comunità invisibile. Come è nella Chiesa dei credenti appunto. Il romanzo è importante anche come un riferimento preciso per una dialettica di allora e di oggi. L’identità e l’appartenenza costituiscono tratti distintivi molto umani di chi si sente parte di una comunità più vasta, oltre la propria individualità. La dialettica individuo-società-comunità è la permanente dialettica, sempre di allora e di oggi. È la dimensione antropologica e culturale di chi, pur avendo identità e appartenenza, in un partito, in una classe, in una nazione, non si lascia trascinare fino alla visione organicistica esclusiva della Chiesa e dell’Esercito. Non si lascia trascinare fino alla visione mistica della Nazione, dello sciovinismo puro e semplice.
La tensione dialettica, il confronto intellettuale tra Settembrini e Naphta ha un tragico epilogo. Il duello reale, non più a parole, con la sfida alla pistola, tra i due vede il sereno, pacifico, latino Settembrini sparare in aria, mentre il tormentato ed estremo Naphta si spara, si uccide.
 

Gli scontri dialettici, le argomentazioni dei due contendenti, la polarizzazione Settembrini-Naphta, introducono il giovane Hans nel mondo complesso e ricco della cultura e della filosofia che l'Ottocento consegna al Novecento. Hans aderisce alle posizioni di Settembrini, ma poi gli riesce difficile controbattere le argomentazioni di Naphta. È la “passività”, gravida di conseguenze e di implicazioni vaste (vedi il tragico sviluppo nel nazismo), del “borghese medio tedesco”. In un passaggio molto importante del romanzo, intitolato Neve, in un’escursione solitaria in montagna, Hans è sorpreso da una tormenta di neve e, riparatosi, si addormenta. Nel sogno gli appare un mondo, il “Mediterraneo”, una umanità classica pacifica e serena, come prefigurazione di un’umanità riconciliata, nel “rispetto del mistero umano”, come dice l’autore nella lezione di Princeton. Lo Humanum, nella visione, in altro contesto e con altra argomentazione filosofica, soprattutto nell’opera fondamentale Il principio speranza, del filosofo marxista Ernst Bloch.
Per Hans il mondo che gli si rivela nel sogno potrebbe costituire il raggiungimento finale della sua maturazione, ma presto tutto ciò svanirà e dileguerà nella sua consueta quotidianità. La “sospensione della vita” del sanatorio verrà bruscamente interrotta da un evento esterno capitale. Hans ritorna al “piano”, abbandona il sanatorio, solo perché richiamato alla terribile esperienza dell'evento capitale per l’umanità della prima guerra mondiale. Settembrini, nell’abbracciare Hans per il congedo reciproco, dice “sperai di vederti maturare in altro modo, ma gli dei hanno voluto così”.



Possiamo arguire quale sarà la fine di Hans. Quella formazione intellettuale e morale che il giovane Hans ha acquistata nella vita concentrata del sanatorio, del Berghof (“l’incremento alchimistico”, come afferma Mann a Princeton), risulterà vana nel fango e nella trincea, nella carneficina. Al pari di milioni di giovani vite europee spezzate, borghesi e proletarie, di contadini e di operai, il tutto si conclude nella carneficina della guerra mondiale, punto di confluenza e punto di scaturigine, al contempo, di tutti i mali del Novecento, da una parte, ma anche di una possibile salvezza per l’umanità nella rivoluzione, dall’altra. Nella visione del filosofo György Lukács, l’esigenza di contaminazione, di commistione (la famosa “eredità”), della grande cultura borghese con la cultura e la politica del socialismo ha in Thomas Mann un punto di riferimento obbligato. La cultura umanistica radicale che egli matura nella sua vita e nella sua elaborazione culturale incrocia il socialismo come possibile futuro di riconciliazione dell’umanità.