Caro Angelo, Ti ringrazio per il
profondo articolo di Patrizia Cecconi. Non conosco la Cecconi ma il Suo scritto
rigoroso ed allo stesso tempo appassionato è da meditare a fondo. A me ha dato
molti stimoli di riflessione ed ha evocato anche ricordi personali che, senza
nessuna pretesa, vorrei condividere con Te che so tanto impegnato su questi
temi. In primo luogo, ho
pensato su quale sia oggi il nostro livello di civiltà. Io appartengo a
generazioni che, avendo visto da vicino e ricordando bene le immani barbarie e
le dolorosissime e crudeli vicende della Seconda guerra mondiale, ha non solo
creduto veramente che l’umanità, attraverso queste tragedie che vanno dai
crimini nazi-fascisti alle bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki,
fosse entrata in una fase storica nella quale si potesse veramente parlare di
superamento concettuale e morale della guerra come strumento di soluzione di
controversie tra popoli, qualunque fosse la natura di queste controversie.
Grandi maestri di pensiero e di morale come Bonhoeffer, Guardini, Gandhi,
Sturzo, Capitini, il maestro italiano della non violenza, ci confortavano e
guidavano in questa che era più di una speranza. Era una convinzione che
riteneva tale obiettivo, pur attraverso lunghi e tormentati processi,
seriamente possibile. Sul piano delle realizzazioni l’avanzamento, nonostante
tante difficoltà, del processo di unificazione europea, alcuni parziali
successi dell’ONU, gli accordi di disarmo nucleare, il superamento di crisi
drammatiche come quella dei missili russi a Cuba, l’apparente pacificazione tra
America e Russia, alimentavano sia la nostra convinzione che la nostra
speranza. Saranno solo le guerre balcaniche e soprattutto quella Serbia-Kossovo a riportare, con brutalità, la guerra in Europa riempiendola anche di
spunti schiettamente nazisti. Fu un brusco e doloroso risveglio non solo dal
grande sogno dell’eliminazione della guerra come strumento di risoluzione delle
controversie, ma anche da obiettivi minori rappresentati da quell’insieme di
norme e principi di umana civiltà che vanno osservati anche in guerra (e non
per niente si parla di crimini di guerra).
Bonhoeffer
Ma non solo la guerra era
ritornata in Europa; essa era ritornata con il suo volto e le sue pratiche più
crudeli e primitive e ciò sollevava, in molti, un diffuso e ottuso compiacimento.
Da allora la situazione è peggiorata e sta peggiorando giorno dopo giorno sia
nelle pratiche belliche che nel compiacimento di molti, di troppi. Da qualche
tempo sto rileggendo l’Iliade e la cosa che più mi colpisce di questa grande
guerra dell’antichità, tanto grande che ancora ne parliamo, è che, pur svolgendosi
tra popoli guerrieri, la guerra non è amata ed è in tutti diffusa la
convinzione che la guerra può, alla fine, portare solo dolori e sofferenze.
Basta pensare ai tentativi di ricercare soluzioni alternative alla guerra, come
i tentativi di affidare l’esito delle stesse ai duelli individuali – Pericle-Menelao, Ettore-Aiace o all’offerta troiana di risarcire i Greci per il danno
subito ad opera di Paride. E penso alla grande umanità e correttezza che è diffusa
nel poema, penso al sempre presente rispetto per i morti, alle tregue per
consentire la sepoltura dei caduti. Basta pensare ai canti VI e VII con il
delicatissimo saluto di Ettore alla moglie ed al figlio e al correttissimo e
leale duello tra Ettore ed Aiace e allo scambio di doni al termine del duello.
Solo Achille è un vero guerrafondaio, dominato da uno smisurato ego di stampo
hitleriano e una ferocia illimitata come quella dell’esercito israeliano a
Gaza. Ma, di fronte all’umile Priamo, che richiede, con sofferenza ma con
dignità, la restituzione del tormentato corpo dal figlio Ettore per dare allo
stesso una degna sepoltura, persino il nazista Achille si commuove, “proruppe
in pianto”, sorresse il vecchio padre Priamo e concede tutto quello che Priamo
chiede e “questi fûro gli estremi
onor renduti al domator di cavalli Ettorre”. E quando nell’Odissea Ulisse scende all’Ade e incontra Achille
questi rinnegherà il suo passato di guerriero e duce: “vorrei da bracciante servire un
altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba, piuttosto che dominare
tra tutti i morti defunti”.
Capitini
Dunque
se il metro di misura fosse solo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023
e le stragi continue che, nella striscia di Gaza, compiono i responsabili
israeliani, è difficile sfuggire alla conclusione che, sul piano di livello di
civiltà, entrambi i contendenti di Gaza si collocano a un livello primitivo, primordiale,
arcaico, superbarbaro. Rispetto alla loro la civiltà achea e quella troiana si
pongono ad un livello molto più avanzato sul piano morale. Ma, per fortuna,
loro non sono l’unica misura della nostra civiltà. E il pensiero corre ai casi
in cui, nel nostro tempo, abbiamo visto controversie che sembravano
irrisolvibili trovare una responsabile e ragionevole soluzione attraverso altre
vie, attraverso la non violenza, attraverso la ragione.
Penso
alla Prima guerra mondiale vista dalle mie montagne nelle Alpi Centrali tra il
gruppo dell’Ortles, lo Stelvio, l’Adamello. Qui si combatté una guerra tra le
alte cime, ma una guerra particolare tra popolazioni che si rispettavano, che
facevano gli stessi mestieri (contadini, pastori, allevatori, boscaioli), che
percorrevano gli stessi sentieri, che non parlavano la stessa lingua ma si
intendevano lo stesso, magari in dialetto. Il primo episodio bellico nella
Valle del Ghiaccio dei Forni racconta di una pattuglia italiana appena inviata
in perlustrazione, guidata dal giovane tenente Compagnoni. Mentre si stavano
avvicinando verso il Ghiacciaio dei Forni, sbucò dall’alto una pattuglia
austriaca. La pattuglia italiana pose mano ai fucili, ma il tenente Compagnoni li
fermò e guardò attentamente con il binocolo. Poi lo videro infilare il suo
cappello d’alpino sul fucile roteandolo in segno di saluto come si usa tra
alpinisti. Dalla pattuglia austriaca si rispose nello stesso modo. Il tenente Compagnoni
aveva riconosciuto in chi comandava la pattuglia austriaca un suo compagno di
ascensioni. Questo episodio è certamente emblematico di questa guerra. La
guerra ci fu, anche dura, ci furono combattimenti aspri e qualche battaglia, ci
furono morti ed eroi come in ogni guerra. Ma, leggendo come io ho fatto, tutti
i libri di questa guerra tra le alte cime, sia di fonte italiana che di fonte
austriaca, si percepisce un senso di lealtà, di rispetto reciproco, di rispetto
umano, di insensatezza della guerra tra popolazioni abituate da sempre a
vivere, lavorare, commerciare, fare ascensioni, insieme, da commuovere.
Gandhi
Avevano
detto ai nostri che la guerra era per redimere (da cosa?) queste terre
austriache, anzi tirolesi. Ma i nostri, pur leali e fedeli combattenti,
sapevano che eravamo noi, allora, gli invasori e che gli alpini tirolesi
difendevano la loro terra. E’ questo spirito leale ed anti guerriero che
favorì, al termine della guerra, il graduale ricomporsi di una vita comune e pacifica,
tra vicini. E quando al termine della Seconda guerra mondiale dei superstiti
fanatici dell’identità del Sud Tirolo cercarono di estremizzare questa loro
posizione anche con azioni terroristiche che, per un tratto, sembrarono
assumere dimensioni pericolose, fu l’elevata maturazione civile della popolazione
che permise ad alcuni uomini di Stato grandi e veri, sia italiani che austriaci
di ricuperare e risolvere le controversie in modo pacifico. Sicché oggi
festeggiamo insieme e con gioia il giovane splendido eroe europeo Sinner che in
televisione abbiamo visto con sullo sfondo un edificio sulla cui facciata c’è
scritto: “Rathaus – Municipio” - Che bello!
Ma
mi riaffiora alla memoria un altro episodio che avevo dimenticato e che è forse
ancora più significativo per la guerra di Gaza. Eravamo negli anni più caldi
delle tensioni dell’apartheid in Sudafrica. Il Sudafrica era sempre più isolato
e accompagnato da ostilità, da quasi tutto il resto del mondo, gli scontri
civili e razziali si susseguivano sempre più frequenti e violenti, Mandela era
ancora in carcere da parecchio tempo ed era poco conosciuto anche tra noi, la
maggior parte delle persone dava ormai il Sudafrica come avviato ad una guerra
civile dolorosissima e senza speranza. Fu in quel periodo che da amici fui
invitato ad un incontro con una delegazione di dirigenti sudafricani. Non
ricordo né la fonte di questo invito, né chi mi invitò. Fui sorpreso perché non
avevo mai avuto il minimo rapporto con il Sudafrica. Successivamente, dopo
l’incontro, sulla base del discorso che la delegazione sudafricana fece, pensai
che l’invito fosse, forse, dovuto al fatto che ero attivo nel gruppo di
sviluppo del pensiero federalista che era nato nell’ambito dell’Università di
Pavia al seguito del professore Mario Albertini. In questo gruppo noi eravamo impegnati
come federalisti europei ma avevamo, negli anni, fondato un piccolo ma significativo
centro di studio del pensiero federalista.
Cattaneo
Avevamo studiato la storia della
Svizzera, i Federalisti americani, altri studiosi e sostenitori del pensiero
federalista come, da noi, Cattaneo, Einaudi, Mario Albertini.Eravamo sempre più convinti che solo con un
approccio federalista si potevano tenere insieme popoli di storia e lingua
diversa ma con una base comune, che volevano conservare la propria identità ma
erano nella necessità di vivere insieme con istituzioni statali comuni. Il
nostro modello ideale era la Svizzera. L’incontro fu tra una piccola
delegazione di dirigenti politici sudafricani e una decina di ospiti. Il
discorso che ci fecero fu chiarissimo e rivelatore. Dissero: tra Sudafrica e
Milano ci sono numerosi e forti legami, Milano è per noi un punto di
riferimento. Per questo vogliamo illustrare direttamente a gruppi ristretti di
milanesi la situazione del Sudafrica e le sue prospettive. Faremo altri
incontri di questo tipo. Il Sudafrica, come è oggi, è avviato alla rovina e
alla più rovinosa guerra civile. Molti dirigenti sudafricani pensano che questa
deriva sia inevitabile e che non esistano altre prospettive. Noi pensiamo,
invece, che ci sia un’altra via. Vogliamo
la pacificazione del nostro popolo, sia dei bianchi che dei neri. Per questo
vogliamo archiviare l’apartheid, vogliamo liberare Mandela, vogliamo dar vita
ad un nuovo stato secondo le caratteristiche di un vero stato federale, dove
ogni gruppo etnico possa avere il suo spazio, la sua identità, la sua lingua
pur in un ordinamento istituzionale comune e federalista. Chiediamo la vostra
attenzione e, se possibile, simpatia. Siamo minoranza, ma pensiamo di crescere
rapidamente. Negli
anni successivi vedrò, passo dopo passo, realizzarsi nella realtà il film che
quei rappresentanti di quella coraggiosa e lucida minoranza sudafricana aveva,
quel giorno, raccontato a noi, per lo più increduli.
Don Milani
Sembra
una favola ed è, invece, del tutto vera. E non è la prima volta che il
principio federalista fa stare insieme dei diversi. Pensiamo alla Svizzera, ma,
in tempi anche recenti, al Belgio che stava precipitando nella separazione e
nel caos, pensiamo alla Repubblica Federale Tedesca, pensiamo al federalismo
australiano. E che cosa impedisce a Israele e Palestina, che entrambi hanno
diritto di esistere, di avere un proprio stato e di collaborare in pace,
nell’ambito di uno schema federale comune, come fecero dopo la guerra i nostri
alpini e gli alpini sudtirolesi?
Ma
qualcuno già dice: tu fai le cose semplici, ma in nessuno dei casi da te fatti,
c’è di mezzo la religione come tra ebrei e palestinesi. Ma allora è inevitabile
la domanda: ma a questo serve la religione? Ad impedire ai popoli di vivere in
pace ognuno con la sua fede e le sue credenze? E cosa pensano questi popoli,
entrambi, quando leggono le seguenti parole del primo canto dell’Iliade: “Ma
se questa non fosse, a cui comandi, spregiata gente e vil, tu non saresti del
popolo tuo divorator tiranno”.