Prima
parte: l’incontro. «Qual è il
fascino dell'Oriente che inizia a Sarajevo e al quale gli occidentali non sanno
resistere? Qui non ci sono azioni pianificate che deriverebbero dal pensiero razionale,
è tutta una questione di improvvisazione, frutto di idee ad hoc e necessità
temporanee. Qui non puoi trovare un asse chiaro e una simmetria assoluta. Qui
non si trovano nemmeno sistemi costruttivi costruiti a dovere. Qui tutto mostra
la necessità di compiacere gli umani. La composizione, in Occidente, pensata e
costruita secondo logica e progetto, qui diventa un agglomerato di parti, ogni
volta frutto di esigenze diverse e ogni volta improvvisate in modo diverso; ma
sempre in relazione ai sensi.» Jurai Neidhardt Vivo da 40 anni nello stesso
quartiere, a Sarajevo, a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una
moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario
cattolico. Prima della guerra, quest’armonia, nata dalla differenza, si
ritrovava nella vita d’ogni giorno. Sarajevo m’ha aperto gli occhi. Ero stupito
nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la
tolleranza e la generosità. Jovan Divjak Un
preambolo devo in tutta onestà asserire prima di raccontare ciò che ho potuto
osservare in Sarajevo la prima volta nel 2005; ché il fatto che la Jugoslavia
fosse stata comunista, non allineata, guidata da un partigiano che l’ha
governata, in Europa, nell’intellighenzia di oggi e di allora procura ancora
molti e disparati pruriti. In primis nella Chiesa cattolica, che nel
processo di dissolvimento della Jugoslavia e delle guerre etniche conseguenti
ha giocato - è la sua natura politica - un ruolo più che elusivo. Tali
prurigini, più o meno intime, ho riscontrato un po’ dappertutto negli articoli
letti da varie fonti dove stranamente questo dato viene omesso. Lungi
dal fare un’apologia del modello titino di multiculturalità, l’appellativo di
città multietnica per antonomasia lo si deve ad una struttura politica e
culturale che l’aveva promossa. Sino al 1992, anno d’inizio della guerra, Sarajevo era composta dal 49 per cento di musulmani, il
30 per cento di serbi e il 7 per cento di croati; un terzo dei matrimoni era
costituito da coppie miste. C’era anche una comunità ebraica, l’11 per cento si
dichiarava “jugoslavo”, c’era una minoranza Rom (numeri che per il loro
portato davvero multiculturale farebbero orrore in quasi tutte le città
progressiste europee!). A prescindere da cosa si pensi, comunque Tito ha
provato a implementare un modello di convivenza multiculturale con i suoi
enormi limiti ovviamente; sapendo benissimo che all'interno della sua
Jugoslavia convivevano storicamente etnie con sentimenti religiosi estremamente
differenti e sempre sull’orlo della scintilla. I Balcani, soprattutto le
regioni a prevalenza mussulmana, nei confronti della cristianissima Europa,
sono stati e sono problema (da sfruttare per coprire interessi determinati
storicamente, la vicenda esemplificativa dei martiri di Otranto del 1480)
invece che ponte di riflessione e dubbio. Quando poi il loro capo è stato
addirittura un comunistaccio... A
tal proposito, in un’intervista di qualche anno fa, Kermal Pervanic, fondatore
dell’organizzazione benefica “Most mira”, ricorda, come monito di cui né allora
né oggi si capisce la verità, che il professore di storia durante una lezione a
metà degli anni Ottanta (attenzione alle date!) chiese agli studenti di
identificarsi con la propria nazionalità, dichiarandosi o bosniaco o serbo o
croato. La maggior parte di bambini chinò la testa per l’imbarazzo (percepivano
quale fosse il fine di quella domanda) in quanto ognuno si sentiva jugoslavo.
Continua Pervanic che le cose rapidamente cambiarono (in peggio) perché questa
“domanda” fu poi ripresa dagli intellettuali e dagli accademici che
cominciarono a propagandare l’idea che il popolo jugoslavo non fosse fatto per
vivere a fianco. Per
inciso, ciò spiega cosa sia, come funzioni e quale sia il fine della funzione
sociale dell’insegnante in un sistema educativo organizzato in un dato modo
quale luogo privilegiato della riproduzione del dominio, e dello sterminio, che
lo stato, detentore della verità ufficiale, diffonde con il linguaggio della
retorica politica (non sono queste affermazioni anarcoidi o anacronistiche di
una sociologia francese démodé!). Altrettanto non lo è il saggio critico
di Gramsci circa il problema della funzione sociale degli intellettuali nell’organizzazione
della cultura. Eppure oggi la potente macchina critica della sinistra si dirige
unicamente verso la Ferragni poiché trova in lei l’imbelle sfogo moralista.
La
prima volta che incontrai Sarajevo (uso questo verbo perché allegoricamente
attiene al sentimento di timore e di fascino che si provano quando si è al
primo appuntamento amoroso e non si sa cosa accadrà) fu nel 2005 a seguito di
un caro (oggi defunto) amico, Pierluigi Ontanetti che ancora dopo dieci anni
dalla fine dell'assedio della città (che durò tre anni) si recava da alcune
famiglie che conobbe durante il tempo della guerra per portare loro qualche
sostegno economico. Perché Gigi (così per gli amici) insieme ai “Beati
Costruttori di pace” e al compianto Moreno Locatelli che, sul ponte Vrbanja
sulla Miljacka lasciò scritto col proprio sangue la sua visione del mondo e la
sua indomita ribellione contro ogni forma di ingiustizia, decise che
nell'assedio non poteva né voleva lasciare sole quelle persone. Gigi faceva
fuoriuscire dalla città le lettere di quanti erano in essa intrappolati per
recapitarle alle rispettive famiglie rifugiate in Italia. Il
primo incontro l’ho trascorso in casa della famiglia Trezner; il loro nipotino
(Damir che adesso è un adulto e credo viva ancora a Milano) fuggì da Sarajevo
in braccia ai genitori prima che l'aeroporto chiudesse con i risparmi della
famiglia nel pannolino. Insieme ai suoi nonni, che rimasero nella città lungo
tutto l’assedio, ho ascoltato le conseguenze psicologiche di un bombardamento
incessante sui civili; infatti mi spiegarono che dovettero vivere in cantina
perché il giardino, come la casa, erano altamente pericolosi. Nel primo perché
ci cadevano i colpi di mortaio, nella seconda in quanto le case antiche di
Sarajevo erano fatte non di cemento e così in caso di bomba le schegge potevano
trapassare all’interno, uccidendo chi vi abitasse. I due coniugi vissero tre
anni nello scantinato, senza acqua, luce e con scarsità di cibo. Ricordo una
foto dove il nonno Trezner era ritratto intento a ricavare dalle barbe di un
albero qualche scheggia di legno per riscaldarsi, col pericolo che un cecchino
lo centrasse. Ricordo che ancora i grattacieli portavano distintamente i segni
dei bombardamenti; che le strade dove furono ammazzati centinaia di bambini
bosgnacchi erano contrassegnate da piccoli crateri creati dal colpo mortale dei
cecchini. Quando
incontrai Sarajevo vidi che le trincee erano ogni casa; nessuna latebra
esisteva. L’oppressione esercitata dall’oppressore poté allora manifestarsi con
tale crudeltà contro la maggioranza della popolazione perché l’oppressore era
chiunque. Quando si ricorda la strenua difesa dell’allora presidente bosgnacco Izetbegović e delle sue forze armate si dimentica che
mentre gridava al mondo lo scandalo dell’embargo occidentale delle armi ai
bosgnacchi rafforzava il suo potere militare nella città, con l’appoggio a
bande criminali che impunemente razziavano, stupravano e uccidevano la propria
gente. Nessun tribunale lo ha condannato.
Si può immaginare quale speranza potesse avere un popolo in
questo stato di totale offesa e nocumento? Quando di nessuno ti puoi fidare? Un
giorno insieme all’amico Gigi andammo a trovare una famiglia di giostrai che
viveva in una casa in collina; avevano perso tutto e vivevano in grande
indigenza. Portò loro una piccola somma di denaro che alcuni gruppi scout
avevano raccolto in Italia; mi offrirono qualcosa da mangiare, rimasi stupito (allora
ero giovanissimo) che siccome non ne avessero comunque lo offrissero. Ero così
imbarazzato, avvolto da un sentimento, lo ricordo bene, di repulsione per tutto
quanto stavo vedendo che rifiutai quel povero cibo; provai una vergogna che
credo di non avere mai più sperimentato in vita. Un
pomeriggio conobbi una ragazza di una delle famiglie che durante l’assedio
poterono rimanere in contatto, tramite epistole, con i propri cari in Italia
grazie all’azione che “I Beati costruttori di pace” misero in piedi. E ricordo
che quella giovane mi inchiodò con questa domanda: perché venite qua a
chiederci della guerra invece di stare con noi così come siamo? Mi assestò,
involontariamente, un secondo colpo dopo quello dal cibo da me rifiutato della
famiglia di giostrai. Non seppi risponderle se non barcamenandomi in un
borghesissimo quantomai triviale “voglio capire”. Ero prigioniero dei muri
dorati della mia missione “umanitaria” che non vedevo il bisogno di quanti mi
stavano davanti e cercavano di comunicarmi altro. Una
sera insieme a Damir andammo in una birreria storica poco oltre la Miljacka.
Tutt’oggi questo edificio conserva la sua maestosità grazie alla bellezza di
spazi interni lignei con alle spalle il birrificio: la Bosnia è una regione
ricca di acqua. Mi fu spiegato che durante l'assedio, i saraievesi continuarono
a sfidare la morte, riempiendo il locale, non per glorificarsi ma proprio per
restare vivi. In generale, la città resistette in quanto continuò a vivere,
brulicando letteralmente di vita, rifiutando di essere ridotta al silenzio.
Ecco perché i cecchini poterono far strage perché la gente usciva, andava al
mercato, voleva incontrarsi. Già il mercato di Sarajevo, dove accadde uno dei
tanti massacri e intorno al quale era di pattuglia un blindato dell’Onu... una
foto che mi mostrò Gigi rivela che dopo lo scoppio delle bombe nel mercato le
forze Onu egiziane lì di stanza scapparono. Ma ben più grave è ciò che scrisse
il Guardian a riprova di cosa erano (e sono) i soldati Onu. “A Sarajevo - affermò il giornale inglese - i soldati Onu
banchettano sui resti di una città morente”riferendosi al lucro della vendita di merci al mercato nero.
L’ultimo
giorno di permanenza decidemmo di andare a Srebrenica. Non avevo letto nulla
dell'etnocidio del 1995 che il popolo mussulmano subì a causa dell’esercito
serbo e della complice negligenza (ma forse è stare sotto le righe) del
contingente olandese dell’Onu che era lì per proteggerlo (quando sento oggi
invocare seraficamente per la Palestina il rispetto delle risoluzioni Onu in
favore di quel popolo - che sarebbero certo importanti quanto meno per un
cessate il fuoco! - forse si dimentica il formalismo di cui l’Onu è composta!).
Formalismo che mostrò a Srebrenica la sua completa inefficacia sia sul piano
strategico-militare quanto sul piano umanitario. E la sua connivenza con gli
assassini. Arrivammo in una città silenziosa, di un silenzio che solo il
genocidio permea di sé, quello dei cancellati, degli invisibili verso i quali
non ci sarà mai alcuna giustizia (sempre che riusciamo a liberarci dal bisogno
di ridurre la giustizia alla mera condanna di qualcuno; condanna che talvolta
sazia quel bisogno legittimo seppur talvolta troppo analogo a quello del sangue
espiato con altro sangue e che non placa certo la sete di giustizia). Andammo a
visitare il Memoriale che raccoglie le tombe di quelle 8372 persone. Ricordo
che nonostante fossero passati dieci anni dal genocidio le persone vivevano in
case fatiscenti o peggio ancora negli scantinati. Incontrammo una pattuglia dei
Carabinieri della forza di “pace” che ci chiese perché viaggiassimo in una
regione così martoriata; non ricordo cosa rispondemmo ma ce ne ritornammo a
Sarajevo con il cuore gravido di rabbia per ciò che Onu e Occidente lasciarono
che accadesse ai mussulmani.
Gigi
si oppose a farmi partecipare al progetto dei Beati durante la guerra, per la
mia giovane età di allora. Avvolto in un oceano di emozioni, ho potuto,
nell'incontrare Sarajevo per la prima volta, vedere gli effetti della retorica
politica del dominio e della guerra che lo stato detiene e con cui rende
succube il pensiero. Per capirli davvero ho dovuto aspettare di maturare. Ecco
perché sento oggi dopo diversi anni da quell'incontro il bisogno di mettere per
iscritto non il ricordo di Sarajevo, ma la memoria della parola razionale dei
fatti sociali che quella città ha vissuto drammaticamente. Per
entrare in medias res nel meccanismo retorico dell'odio amministrato
istituzionalmente pongo un parallelismo tra l’“eredità” di Auschwitz e la sfida
che i popoli e gli stati “democratici” post Seconda guerra mondiale, affinché
ciò che Auschwitz fu non dovesse mai più accadere, avrebbero dovuta
raccogliere. Inizio perciò con un esempio che dimostra quanto la retorica
politica, da Auschwitz in poi, dietro la parola educazione, condizioni il
pensiero; basta leggere come siano scritti i manuali di storia per le scuole
dove i fatti storici e sociali sono sottomessi al pensiero per cui c'è uno
giusto e uno cattivo, decontestualizzandoli. Il giusto identificato col bene = democrazia,
voto, lavoro, benessere; il cattivo identificato col male = solo uno
quale colpevole di distruggere la società “buona”. Con questa educazione
manichea, guerrafondaia, Auschwitz non tornerà mai più? È così che quella sfida
è stata raccolta? Il
fatto acclarato che la morte, il terrore, la minaccia là a Sarajevo fossero
diventati quotidianità e routine di cui la banalità del male si serve per farsi
servire non è utile, per rompere con il modello Auschwitz cominciare - perché
non mi pare proprio che dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi ci
siano stati spazi capaci di voler fare un lavoro siffatto - a riflettere sulla
natura dei rapporti sociali che quella banalità del male tutt’oggi costruisce?
Intendo,
per chiarezza, non la banalizzazione del male, sarebbe scurrile, ma la sua
dogmatizzazione, o purificazione, ovvero del male farne una realtà compiuta, un
pane quotidiano appunto, di cui nutrirsi tramite la totale obbedienza ad una
forma di stato che lo amministra e lo diffonde con i suoi rituali retorici.
Onde il male perda ogni connotazione metafisica e possa venire assunto a
principio guida di determinate azioni istituzionali; se poi queste mirano alla
pulizia etnica, ad esempio, o ad un tipo di subalternità culturale, chi osa mettere
in dubbio la parola ufficiale dello stato che ha purificato il male? La parola
scientifica dell’Accademia ha un ruolo dirimente in questo processo. Norimberga
rese palese che tutti i gerarchi nazisti obbedissero agli ordini e nessuno di
questi sentisse di esser stato trasformato in un agente disumanizzato del male.
E i politici, i generali, i soldati nella guerra di Bosnia come si
comportarono? E quelli israeliani nel genocidio palestinese? Hamas? E Putin e i
vari Zelensky? Tale
retorica a Sarajevo senza soluzione di continuità dalla seconda guerra mondiale
ha prodotto la morte dell’individuo, il suo annientamento ontologico. Il
sospetto quindi che dalla fine di Auschwitz il terrore, quale modello politico
di amministrare i rapporti produttivi che necessitano ad ogni forma di società,
non si sia dissolto. E soprattutto, dopo Auschwitz nessuna solida alternativa
sia stata creata. Certo, la democrazia; una democrazia armata fino ai denti,
disfatta dietro ai propri fili spinati, irrimediabilmente astenica, dissanguata
nel voler “curare” profitti e finanze dei ricchi e dei loro interessi non mi
pare un’alternativa davvero valida alla cultura del dominio di Auschwitz. Se
dopo Auschwitz, l'individuo fosse stato posto al centro dell’ideale democratico
nato dopo l’eclissi totalitaria, la natura delle istituzioni - quale frutto di
relazioni sociali nate da quel connubio - avrebbe rappresentato un modello
etico da opporre alla ferocia degli stati della ex-Jugoslavia al palo del
revanscismo etno-nazionalista. Ma di nazionalismi gli stati europei risuonano
eccome, come di patria. Invero la probabilità di una catastrofe atomica non
rappresenta altro che la continuazione della minaccia assoluta che da Auschwitz
non si è affatto interrotta ma si è rafforzata; probabilità che in Bosnia si è
verificata, sebbene nessuna atomica l'abbia offesa. L'atomica quale retorica
della sicurezza dello stato, non è solo una bomba ma un modello di dominio: è
questo che mi pare abbiamo dimenticato della morte dell'individuo in Bosnia. Non
è un caso che l’assedio di Sarajevo cominciò con l’uccisione di due ragazze (Suada Dilberović e Olga Sučić) che manifestano sul
ponte di Vrbanja contro la guerra. Entrambe rappresentavano l’ideale umano dell’individuo,
il suo spirito maturo e indomito che è stato eliminato perché ricordava allo
stato che la banalità del male serve per trasformare l'individuo in numero, in
oggetto, in ostacolo. Contro il cui male la giustizia del diritto può nulla.