La
psicologia del profondo al cinema. Alla
fine dell’Ottocento, con la rivalutazione dell’inconscio, avvenne un
cambiamento determinante per la psicologia. Quasi contemporaneamente, la fisica
classica veniva sconvolta da una profonda rivoluzione che capovolse
completamente le leggi fino a quel momento conosciute: era nata la fisica
quantistica. Alcuni, tra fisici e psicologi ebbero l’intuizione che tra queste
due discipline esistesse una relazione inaspettata e molto promettente, in
particolare Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung. Il primo – uno dei fisici
teorici di punta della stagione della fisica di rottura della prima metà del
secolo scorso – si è dedicato intensamente all’argomento, interrogandosi sul
fondamento archetipico che sottende alla formazione delle teorie scientifiche,
così come alle basi della psicologia. L’altro è il fondatore della psicologia
analitica che a sua volta presenta punti di rottura e di avanzamento rispetto
alla psicanalisi ortodossa. Tra Pauli e Jung nacque inevitabilmente un
sodalizio che durò a lungo. L’intreccio dello studio della psiche con il
percorso della fisica dei quanti apparve a Pauli molto significativo tanto da
portarlo a scrivere negli anni successivi: «È stata la
concordanza di senso di idee che si sono presentate in rami diversi del sapere
quasi simultaneamente, la loro sensibile coincidenza, a indurmi a uscire dalla
mia stretta specializzazione».
W. Pauli
Come
frutto del loro scambio, nel 1952, ci fu la pubblicazione del libro “Naturerklärung
und Psyche”, comprendente lo studio di Pauli “L’influsso delle immagini
archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero” e il saggio
di Jung sulla sincronicità (“Sincronicità come principio di nessi acausali”).
Jung ipotizzava che il nesso che unisce il mondo fisico con la psiche potesse
essere inteso come un rapporto di sincronicità da lui definita come una
significativa corrispondenza di due o più accadimenti che si possono
manifestare in relativa simultaneità, non legati da un rapporto di
causa-effetto ma da un significato. Un fenomeno ‘inesplicabile’ per la nostra
mente razione ed è a tutt’oggi un mistero che sembra racchiudere un disegno
superiore. Partiamo
da un esempio realmente accaduto che riunisce significativamente questo luogo,
alcune delle persone qui presenti e il tema di stamattina. Solo di recente,
attraverso la lettura di un testo che raccoglie le discussioni di alcuni
seminari tenuti da Jung sui sogni, sono venuta a conoscenza dell’esistenza del
sopracitato saggio di Pauli di cui, in una nota, era evidenziata la mancata
pubblicazione in italiano. Convinta di ciò e attratta dall’opera, decisi di
cominciare subito la traduzione. Nel frattempo, al piano di sopra, la mia amica
Antonietta era al telefono con la qui presente Isabella, storica dell’arte (si
erano conosciute telefonicamente appena pochi giorni prima grazie a Nathaly che
le aveva messe in contatto). Durante la loro conversazione avevo iniziato a
tradurre le prime pagine quando Antonietta, conclusa la telefonata, mi ha
chiesto se conoscessi Erwin Panofsky, uno storico dell’arte venuto fuori
durante il dialogo con Isabella. Al sentir pronunciare quel nome, sgranai gli
occhi meravigliata avendolo appena letto nella prefazione del libro che stavo
traducendo: Pauli, difatti, citava per primo fra i ringraziamenti l’amico Erwin
Panofsky per il prezioso aiuto che gli aveva dato. Un personaggio sconosciuto a
entrambe, giunto nel medesimo tempo per vie diverse. Colte dallo stupore,
comunicammo immediatamente l’accaduto a Isabella che, insieme a Pauli, ne era
stata l’artefice.
E. Panofsky
In risposta ci inviò alcune pagine tratte da una rivista,
riferite all’amicizia che legava i due. Ancora una volta è stata una nota a
guidarci: scopriamo che la versione italiana del libro di Pauli già esisteva,
pur pubblicata successivamente e separatamente dal saggio di Jung. Naturalmente
ho interrotto la traduzione e acquistato il libro in italiano, la cui lettura
ha coinciso con l’uscita in streaming dell’atteso film di Nolan: “Oppenheimer”.
Se si conosce Jung e si guarda un film di Nolan non possiamo che rimanerne
affascinati, anche Jung lo sarebbe stato. È probabile che Nolan stesso ne abbia
conoscenza, visto che anche nel film fa cenno alla psicologia junghiana e ciò
dimostrerebbe come la sua straordinaria creatività abbia uno sguardo
consapevole sull’inconscio collettivo, lo strato più profondo dell’inconscio
dove risiedono gli archetipi e dove poggia il nostro inconscio personale, dal
quale si differenzia per i suoi contenuti. Mi rendo conto che l’argomento
avrebbe bisogno di approfondimento ma adesso possiamo solo accennare brevemente
a cosa siano gli archetipi. Possiamo definirli immagini universali appartenenti
ad ogni cultura; occorre considerare che lo stesso Jung tende a ribadire che
possono essere descritti solo approssimativamente ed afferrati solo
intuitivamente, perché inaccessibili alla sola mente razionale. Possono essere
espressi nei sogni, nelle visioni, sono la sostanza dei miti, delle fiabe, e
sono ben rappresentati nel cinema. È facile rimanere catturati dalla visione
del film proprio per la fascinazione che ogni essere umano può sperimentare con
essi, anche se solo inconsciamente. L’Io razionale a confronto con l’archetipo
diventa un nulla e la totale identificazione potrebbe diventare un pericolo
perché potremmo esserne sopraffatti.
R. Oppenheimer
«Si può anche
rimanere distrutti da un archetipo, la nostra stessa esistenza può essere
annientata per sempre. Nella dementia praecox, per esempio, succede
spesso che gli individui vengano completamente distrutti da un archetipo, come
se scoppiassero. Non riescono a resistergli. Se vivono un’esperienza che l’uomo
religioso comune definirebbe un’esperienza di Dio, invece di intenderla come
tale e ringraziare il cielo per la grazia ricevuta, essi pensano di essere Dio
o tre volte più grandi di Dio. L’archetipo li ha risucchiati e inghiottiti. […]
Perciò l’apparizione di un archetipo nella nostra psicologia è sempre un
momento di grave pericolo, così come di grande speranza. È una manifestazione
di straordinario potere, e tutte le religioni, come ho già detto, sono
organizzate in modo da procurare questo contatto.» (C. G. Jung)
È
stata probabilmente l’identificazione con l’archetipo a determinare il destino
di J. Robert Oppenheimer. Quando dice di sé stesso “ora sono diventato morte,
il distruttore di mondi” si riferisce ad un verso della Bhagavad-Gita (un testo
che lo scienziato portava sempre con sé al lavoro). Si tratta del versetto 32
inserito al capitolo 11 del testo sacro che contiene la risposta del dio
Visnu/Krishna alla precedente domanda di Arjuna: 31O signore dei signori, la Tua forza è
terrificante, Ti prego, dimmi chi sei. Ti offro i miei omaggi; Ti prego,
concedimi la Tua grazia. Tu sei il Signore primordiale e io vorrei conoscerTi
perché non so qual è la Tua missione. 32Dio, la Persona Suprema, disse: Io sono
il tempo, il grande distruttore dei mondi, e sono venuto ad annientare tutti
gli uomini. Ad eccezione di voi [i Pandava], tutti i guerrieri dei due eserciti
presenti qui saranno uccisi.
Lo
scienziato, usando per sé la stessa definizione che il dio dà di sé stesso,
sostituendo solo la parola ‘tempo’ con la parola ‘morte’, dà prova di una
identificazione. L’amico Chevalier, presente anche nel film, nel 1959 pubblicò
su di lui un libro il cui titolo parla da solo: The Man Who Would be God,
(“L’uomo che volle essere Dio”). Per
la nostra analisi diventa utile prendere in considerazione anche il versetto
successivo, non menzionato nel film, dove il dio incita Arjuna con le seguenti
parole, chiamandolo ‘Savyasaci’, appellativo dal significato di
ambidestro, ‘colui che è in grado di lavorare con entrambe le mani’: 33Alzati dunque, e sii pronto a
combattere. La gloria sarà tua. Conquista i nemici e godi di un regno fiorente.
Tutti per Mia volontà, sono già uccisi, e tu, o Savyasaci, non sei che uno
strumento in questa lotta. L’eroe,
qui rappresentato da Arjuna, sarà l’ulteriore identificazione di Oppenheimer
con l’archetipo, dal quale verrà afferrato fino a giungere alla realizzazione
della bomba atomica. «Gli archetipi
sono le grandi forze decisive: sono loro a scatenare gli eventi reali, e non il
nostro discernimento personale e il nostro intelletto pratico. […] Non ci sono
dubbi: gli archetipi decidono il destino dell’uomo. È la psicologia inconscia
dell’uomo a decidere, e non quel che pensiamo e ci raccontiamo nel nostro
riverito cervello. […] il cervello non conta assolutamente nulla, è il sistema
simpatico che è stretto nella sua morsa. È un potere che affascina le persone
dal di dentro, è l’inconscio collettivo che viene attivato […]» (C. G. Jung)
Oggi
non possiamo più tirarci indietro davanti al confronto con il nostro mondo
interiore per comprendere le forze invisibili che ci dominano. È solo
prendendone consapevolezza che possono trasformarsi. Laddove c’è il pericolo,
diceva Hölderlin, c’è anche la salvezza. Se
Oppenheimer fosse stato più consapevole di tali forze avrebbe forse potuto
risolvere il pensante conflitto interiore che lo ha accompagnato fino alla
fine, nonostante la sua riabilitazione politica dopo le accuse subìte nel
periodo del maccartismo. Nolan,
in sole tre ore, ha avuto la capacità di rivelare molti altri aspetti che
meriterebbero di essere discussi, ma il tempo è breve e volevo concludere
ricordando Jung e il viaggio in New Mexico che intraprese negli anni Venti per
conoscere gli indiani Pueblos, gli abitanti del luogo dove Oppenheimer
possedeva un ranch insieme al fratello e dove circa vent’anni dopo proprio in
quel terreno fece costruire la base del progetto Manhattan. Aveva quindi
vissuto a contatto con quel popolo che, dopo l’esperimento della bomba, subì
gravi conseguenze a causa delle radiazioni. Anche questo aspetto avrà
contribuito ad amplificare il senso di colpa dello scienziato. Tra l’altro, nel
film, i danni da radiazioni subiti dagli indios non vengono minimamente
accennati a differenza, per esempio, delle vittime in Giappone. Addirittura, in
tutto il film la popolazione indiana resta una presenza quasi invisibile. Forse
anche per questo e spinta dalla curiosità, dopo la visione sono andata a
rileggere il colloquio che Jung ebbe con Ochwia Biano, al secolo Antonio
Mirabal, capotribù degli indiani Pueblos – riportato nella sua autobiografia
scritta successivamente alla Seconda guerra mondiale – rimanendo meravigliata
nel notare per la prima volta, nonostante l’avessi letta e riletta, come tra le
righe trasparissero connessioni con la storia di Oppenheimer.
Facciamo
degli esempi: *Jung
definisce gli indiani Pueblos come ‘costruttori di città’ – Oppenheimer, oltre
a definirsi ‘distruttore di mondi’ decide, in veste di direttore del progetto
Manhattan, di ‘costruire una città’ proprio nel territorio di quegl’indiani. *Durante
il colloquio con Jung, Ochwia Biano definisce il suo popolo come ‘figli del dio
Sole’, spiegando che con i loro riti religiosi aiutavano il loro padre ad
attraversare il cielo ogni giorno, convinti che, se avessero smesso di
praticarli, nel giro di pochi anni il sole avrebbe smesso di sorgere. Sapevano
di far questo per tutta l’umanità, americani compresi, e non riuscivano a
capire il motivo per cui quest’ultimi volessero ostacolarli proibendo le loro
danze. Sembra ironico che sia stata creata un’arma ‘più luminosa di mille soli’
proprio laddove un popolo antico venerava il dio Sole.
Ochwia Biano
*Ochwia
Biano confidò a Jung come a tutti loro appariva incomprensibile l’uomo bianco:
sguardo fisso, sempre in cerca di qualcosa, scontento e irrequieto fino a
sembrare un pazzo. E poi “pensa con la testa” disse, “mentre noi pensiamo col
cuore”. Udendo queste parole, Jung comprese che era la prima volta che qualcuno
descriveva la vera immagine dell’uomo bianco, svelando una verità alla quale
siamo ciechi. A quel punto, spiega Jung: “Sentii sorgere dentro di me, come una
informe nebulosa, qualcosa di sconosciuto ma pure di profondamente intrinseco e
da questa nebulosa, immagine dopo immagine, si districarono le legioni dei
Romani […]. Poi seguirono Colombo, Cortés, e gli altri conquistadores che con
il fuoco, la spada, la tortura e il cristianesimo atterrirono persino questi
remoti Pueblos, che sognavano pacificamente, al sole, loro padre”. Sappiamo
che il brano dell’incontro tra Jung e Ochwia Biano è tratto da un manoscritto
inedito, probabilmente composto negli anni Venti dopo il viaggio di Jung in New
Mexico e riportato nella sua autobiografia redatta durante gli anni ’50,
successivamente quindi allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Leggendolo
adesso non possiamo fare a meno di notare come la citazione di Rousseau,
inserita da Jung proprio alla fine del racconto su Ochwia Biano, possa essere
un chiaro e preciso riferimento, seppur implicito, al progetto diretto da
Oppenheimer: “Tout est bien sortant des mains de l’Auteur des
choses…” “Ogni cosa è
buona mentre lascia le mani del creatore delle cose…” E
continuerebbe: “tout
dégénère entre le mains de l’homme.” “ogni cosa
degenera nelle mani dell’uomo.”
G. Galilei
Per
finire torniamo all’inizio, a Wolfgang Pauli ed Erwin Panofsky ai quali sono
molto grata per aver dato il via a questo ‘viaggio’. Anche loro hanno uno
stretto collegamento con Oppenheimer: tutti e tre insegnavano all’Institute for
Advanced Studies a Princeton. Durante gli anni della guerra, in una lettera di
risposta, Oppenheimer consiglia a Pauli di continuare a dedicarsi alla ricerca
per “mantenere vivi i principi della scienza” e che era la scelta giusta quella
di non partecipare al progetto Manhattan. Forse il padre dell’atomica temeva il
famoso “effetto Pauli”? Era noto, infatti, che in sua presenza si verificassero
alterazioni del funzionamento degli strumenti sperimentali, provocando
incidenti di ogni tipo, tanto che il collega Otto Stern gli impedì di entrare
nel suo laboratorio. C’era però chi, come Panofsky, considerava l’effetto Pauli
al contrario: “un’azione di Pauli su mente e anima, benefica e stimolante, che
rende più consapevoli come per la carica di una corrente elettrica indotta”. Panofsky
non ha difeso solo Pauli: in una lettera a Ludwig Heydenreich, lo storico
d’arte mette a confronto il processo a Galileo con quello subìto da
Oppenheimer. Inoltre suo figlio, il fisico nucleare Wolfgang Panofsky detto
Pief, fu reclutato dallo stesso Oppenheimer per il progetto Manhattan.
E
non è tutto: nel libro In dialogo con Carl Gustav Jung di Aniela Jaffè
(segretaria di Jung) è riportato che una delle più grandi menti che l’avevano
guidata nella sua formazione era stato proprio Erwin Panofsky, un personaggio a
noi sconosciuto arrivato sincronicamente e che, come un filo conduttore, ha collegato
eventi e persone lasciandoci pieni di stupore davanti all’immagine creata da
quel puzzle. È
altrettanto straordinario rendersi conto di come la “sincronicità” possa aprire
scenari difficilmente ricostruibili dalla sola mente razionale: è un principio
ancora poco compreso e poco conosciuto che necessita di uno sviluppo ulteriore
come Jung avrebbe desiderato.
Voglio
ringraziare Nolan per il bellissimo film che mi ha permesso tanti spunti, con
il solo rammarico di aver trascurato gli Indios e il loro Sole. Un grazie anche
a Pauli, a Panofsky, a Oppenheimer e a Jung ma soprattutto a Ochwia Biano, il
capo indiano nel quale Jung riconobbe una disposizione spirituale antica ancora
viva che noi avevamo ormai perduto. Questo lo spinse ancor più decisamente alla
ricerca di un Mito moderno tanto vitale quanto quello degli indiani Pueblos,
come lui stesso dichiara in una sua illuminate lettera a Miguel Serrano,
scritta pochi mesi prima di morire, riferendosi a Ochwia Biano: «A ragione egli
[Ochwia Biano] crede che per loro il giorno, la luce, la coscienza e il senso
moriranno, se la ristrettezza di vedute tipica del razionalismo americano li
distruggerà. Lo stesso succederà nel resto del mondo se verrà esposto allo
stesso razionalismo. Perciò mi sono sforzato di raggiungere la verità migliore
e la luce più chiara. Ho raggiunto il culmine e non posso andare oltre;
proteggo quindi la mia luce…».