La
giustizia occidentale dall’“interesse al disinteresse” (Bourdieu) Tutto
quello che nel primo incontro del 2005 (https://libertariam.blogspot.com/2024/01/sarajevo-di-pierpaolo-calonaci-prima.html?m=1)cercai di vedere
di Sarajevo me lo sono portato dentro per molti anni sotto forma di ricordo. Il
tempo nei confronti di questo ha agito come la crisalide per la farfalla,
trasformandolo prima in memoria, poi lentamente e inesorabilmente nel desiderio
da cui nasce il bisogno di raccontare il viaggio attraverso i Balcani e
Sarajevo in particolare.Non una cronaca giornalistica di un “esperto”,
non una sterilizzazione della memoria per farne bacheca. Ogni forma storica di
declino del pensiero si accompagna sempre con la nascita di esperti. Ogni
esperto è l'ostacolo maggiore all'emancipazione individuale e collettiva di un
popolo. Perciò
nel 2020 proposi a Rossana di tornare, per me, per la seconda volta a Sarajevo.
Perché la biblioteca nel 2005 era ancora completamente distrutta (la sua ricostruzione
fu completata soltanto nel 2014) e avrei voluto visitarla. Comincio questo
racconto con un aneddoto che la dice lunga sul livello di contrasti che
innervano la vita sociale della Bosnia. Quando da Mostar percorrevamo la strada
per Sarajevo, credevo fosse rimasta ancora l'unica. E invece scoprì che a
fianco di questa scorreva un'autostrada: stupenda, pulita, con l'asfalto nuovo,
senza nessuno che la percorresse (ovvio, in Bosnia gli spostamenti sono
limitati dalle necessità di lavoro non dal divertimento). La imboccammo e per
qualche decina di chilometri, paradossalmente, mi rilassai pure alla guida
della moto, tanto era silenziosa e perfetta. Ci fermammo nella classica area di
sosta... anche questa linda, nuova, pareva intonsa. Prima di entrare per un
caffè, giunse una jeep bianca con i simboli dell'Europa e tre giovani. Con ogni
evidenza lavoravano per l'Agenzia per la ricostruzione della Bosnia; ci colpì
l'aria di fierezza che essi trasmettevano o perlomeno, quella che a noi pareva
essere. Quindi una volta all'interno se non ci prese un colpo poco ci manca: i
pochissimi avventori stavano fumando! Siccome il viaggio fa rima con curiosità,
chiedo alla cameriera se era abitudine fumare dentro locali pubblici. “Qui
siamo in Bosnia, non in Europa”! La nettezza della risposta ci mise di
fronte al nostro arbitrario eurocentrismo, ad un'idea di democrazia che si
coniuga troppo perfettamente con fallocentrismo. Da quell'episodio il viaggio
fu caratterizzato da contrasti, spesso antitesi difficili da individuare che
fanno di quella terra una dolorosa peculiarità. Ci svegliò più quella risposta
che il caffè! Alcuni
chilometri ancora e l'autostrada terminava in una rotonda; come quelle sotto
casa. Da lì in poi la strada dismetteva i panni della modernizzazione della
filantropia europea e tornava ad essere stretta e fangosa (la pioggia del
giorno aveva reso ancora più manifesto questo contrasto). Imboccammo, dopo
avere chiesto, una direttrice verso il centro storico di Sarajevo dove avevamo
prenotato un bed and breakfast proprio alle spalle della biblioteca.
La
biblioteca era, prima di essere distrutta dal bombardamento serbo dell'agosto
del 1992, molto diversa da quella che è attualmente, copia, mutatis
mutandis, del tipo occidentale. Non parlo dell'elemento architettonico ma
della caratteristica che la pulizia culturale avrebbe col bombardamento
cancellato. La biblioteca, ecco la sua peculiarità che è stata annientata,
conteneva davvero lo spirito del popolo bosgnacco, custodendo al suo interno
circa un milione e mezzo di libri, e poi manoscritti, annali ecc. (da noi,
quando va bene, la biblioteca assurge a luogo culturale sul tipo “ready to
use”, che “illumina” come un moccolo di cera gli aperitivi o le nenie degli
incontri sempre - chissà mai qualcuno muoia di fame! - conditi da stuzzichini).
Insomma una biblioteca è da noi un luogo come un altro ma non quella di
Sarajevo; ed è proprio il tragico bombardamento a cui fu sottoposta
dall'esercito serbo nel 1992 che testimonia quanto la storia, quella materiale,
con i suoi rapporti sociali e quella simbolica con i suoi portati da
trasformare in prassi possa diventare una minaccia per ogni dominio, qualsiasi
colore esso abbia. Il
rogo della biblioteca di Sarajevo servì primariamente a questo scopo.
“Tutta
la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano
in aria, cadendo giù come neve nera. Afferrandola per un attimo era possibile
leggere un frammento di testo che un istante dopo era cenere”, questa la testimonianza di
Kemal Bakarsic, uno dei bibliotecari che nei giorni del rogo stava cercando di
salvare il salvabile. Continua: “... perché là dentro la loro guerra non
esiste. Perché là dentro gli scrittori serbi sono nello stesso scaffale di
quelli bosgnacchi”. Sotto questa lucida affermazione si sostanzia la
ragione del nazionalismo che infiamma il mondo. Questo è il secondo scopo del
rogo della biblioteca: affermare il nazionalismo per cui la storia deve avere
una radice assolutista. “Adesso
esiste un’altra biblioteca, la biblioteca nazionale universitaria... (dalla testimonianza della
sig.ra Focak, trasferitasi a Sarajevo all'età di otto anni). Terzo scopo:
recidere il popolo dalle proprie radici e sostituirle con qualcos'altro. E qui
la responsabilità serba finisce per fare posto, fatti i debiti distinguo, a
quella europea. Intendo affermare che, dopo il rogo, la ricostruzione europea
ha introdotto un tipo di bisogno, quale protezione e sicurezza del popolo,
offuscato potentemente dall'idea che la formazione universitaria e degli
intellettuali proteggano il popolo e ne nobilitino addirittura le proprie
rivendicazioni. Ne è conseguito invece che la trasformazione della biblioteca
persegue l'asservimento dei bosgnacchi, ridotto a “popolo delle scimmie” grazie
all'ideologia che far parte di questo modello di Europa equivalga
all'emancipazione del popolo di darsi la propria organicità statale, mantenendo
saldamente una concezione reale della storia (Gramsci):quell'altra
biblioteca esiste proprio per nutrire il “popolo delle scimmie”.
Perciò
vi entrammo con la pretesa di incontrare quanto in quel posto accadde per
capire se dopo la pulizia etnica i bosgnacchi si fossero rialzati e come; se
essi avessero potuto costruire un percorso di comprensione e riabilitazione
davanti al torto subito e che avrebbe potuto essere testimoniato anche da una
biblioteca. Subito ci colpì allo stomaco l'atmosfera, quella di un grande
salotto: solo alla fine del nostro lento girovagare (ci siamo stati almeno
cinque ore) capimmo quale show andasse in onda ogni istante in quel
salotto. Il contrasto con una gigantografia, affissa sulla parete del ballatoio
al termine della scalinata principale, che mostra le macerie del bombardamento,
strideva come le unghie sulla lavagna. Decidiamo di separarci, ché ognuno
facesse i conti con il proprio stato d'animo; la biblioteca, proprio per
l'autentica memoria storica ancora annerita (e chissà per quanto!), non è da
visitare con le audio-guide o peggio con una cosiddetta guida: le avremmo
aggiunto un torto, seppur piccolo, oltre la montagna di torti che la barbarie
le aveva vomitato addosso. Poiché la guerra non è un oggetto museale, un
capriccio del destino, da consegnare al sostegno di qualcuno: è il male che
diventa burocratico, norma e valore, e occorre capirlo in solitudine senza derubricarlo
come “errore” della storia. E “errore” diventa quando la lente scientifica
della teoria dei valori (la disciplina assiologica nata col nascere della
scienza moderna) nel tentativo di affermare il bene, il giusto la condanna, la
guerra come “errore” e al contempo la sussume, la normalizza, la
istituzionalizza. Proprio come avvenne col concetto di peccato analogo, secondo
Illich, alla “sostituzione filosofica del bene col valore, con l'idea del
valore, che trova espressione anche in economia”. Un'iperbole moderna
questa teoria dei valori assolutizzati che la politica ha così bene imparato ad
usare col fine di presentarsi come posseditrice giuridica del bene e del male.
Perciò il “tu devi” (https://libertariam.blogspot.com/2024/01/perche-era-giusto-di-patrizia-cecconi.html?m=1)kantiano afferma
questo modello valoriale.
E, oso dire, questo fa a pugni con quel Sapere
aude - osa servirti del tuo intelletto - sempre di Kant ma che ha uno
statuto non valoriale, normativo ma bensì naturale, che riguarda la natura
dell'intelletto e per questo si confà all'uomo, dentro la sua capacità
intellettuale di toccarlo, di conoscerlo e agirlo semplicemente, senza sapere
perché sia giusto farlo. Voglio dire che quella biblioteca è stata caricata
proprio di quel significato valoriale, istituzionalmente costruito in quanto
concetto valoriale del “è giusto” ma che, da un punto di vista dell'analisi
materialista dei fatti sociali, non riguarda più la storia del “è giusto” con
cui il popolo bosgnacco ha cercato, da solo, di salvarsi. Nella biblioteca di
Sarajevo non c'era più traccia del sentimento popolare, innato, ingenuo,
adamantino del popolo che appartiene alla propria storia e che grazie a questa
percepisce fisicamente l'ingiustizia e risponde proporzionalmente con l'arma
del “è giusto” reale della propria vita. A questa vita è stata arbitrariamente,
cioè contro la propria storia, interpolata la teoria del valore del bene e del
giusto che quello show mandava in onda. Ma ecco il punto dolente: chi ha
stabilito cosa sia giusto e quale sia il dovere per affermarlo? Non certo il
senso della storia del popolo bosgnacco. Ne consegue che la biblioteca sia
stata ricostruita con la mente istituzionale del “tu devi”. Si normalizza il
bene “contro” la guerra e il male ma poi entrambi rientrano dalla finestra. È
quindi anche una questione di linguaggio dacché la questione del bene e del
male, secondo il linguaggio dei valori, sempre secondo Illich “non consente
più di parlar né di bene né di male”. Il senso politico e economico della nuova
biblioteca assolutizza questi due concetti legandoli intimamente a nuovi
rapporti di forza con valori ad essa storicamente estranei. Il bene era
assoluto nell'antichità, cioè slegato etimologicamente da cause o da forze ad
esso estrinseche; si reggeva insomma sulla sua epistème, non si poteva
pervertire. Un uomo, quello che la biblioteca mandava in onda, del “tu devi” da
cui deriva “è giusto” rientra propriamente nel “senso che il comportamento
virtuoso è confacente, appropriato all'essere umano” (Illich).Appropriato,
non che è. Speravamo
che quella nuova biblioteca in qualche modo ci fornisse materiale più
reale, più genuino per la nostra filosofia della prassi. Alcune stanze erano
dedicate alle immagini esplicite della pulizia etnica, dei carnefici e delle
vittime; in altre c'erano le testimonianze orali degli stupri e degli
assassini. Un'altra era piena di proiettili lasciati a terra a proposito per
suscitare orrore. Lungo un ingresso era stata trasportata una porzione di muro,
proveniente da non so dove, con i buchi dei proiettili a prova dei vari eccidi
che ovunque in Bosnia erano successi. Un Grande Fratello dell'orrore. A parte
le stanze dedicate alla storia antifascista della Bosnia, quelle appena
descritte illustrano la spettacolarizzazione del male. Ma niente più di questo.
L'acme
dello show caratterizzante la nuova biblioteca era la stanza del
valore della “giustizia” dove era stato fedelmente ricostruito il Tribunale
dell'Aja per i crimini nella ex-Jugoslava costituito nel 1993. “Il tribunale
dell'Aja: quando la giustizia diventa geopolitica. Creata
nel 1993 per aiutare i bosniaci, la Corte per l’ex Jugoslavia ha un’eminente
funzione geopolitica. Ha risparmiato i ‘criminali utili’ (Tudjman e financo
Milošević finché serviva agli Usa) e colpito i pesci medio-piccoli”
(articolo su Limes del 2000). E come in ogni spettacolo che si rispetti quella
stanza era ricca di effetti: qui stava seduto il giudice, là i vari carnefici,
laggiù le vittime...una vera e propria spettacolarizzazione col fine illusorio
che in Bosnia ci fosse stata vera giustizia. Il popolo bosgnacco due volte
ucciso. Così
dal senso della nuova biblioteca si arriva alla regia imperante
degli Usa che giunse a formulare la “pace” degli accordi di Dayton. Accordi che
hanno sancito politicamente la suddivisione in cantoni della Bosnia-Erzegovina
(lasciando immutate le strutture dei partiti ancora oggi composte dai clan che
nel 1992 si contendevano Sarajevo e la Bosnia) perpetrando la sua
frammentazione, ribadendo altresì che lì non si muove foglia se gli Usa non
hanno un interesse. Una
volta usciti, ci siamo ritrovati seduti sugli scalini esterni; il sole
splendeva, il fiume a noi prospiciente rilasciava nell'aria il suo dolce suono,
la gente gremiva il vecchio filobus che transitava. Ci siamo abbandonati ad un
pianto tanto sommesso quanto sospeso tra impotenza e lotta nella consapevolezza
che la Sarajevo storica e il suo multiculturalismo rivoluzionario, nemici di
ogni nazionalismo, non esistono più. Esiste un buco nero: la Bosnia e i Balcani
che reggeranno fino alla prossima deflagrazione.