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martedì 12 marzo 2024

IL CAVALLO AZZURRO
di Zaccaria Gallo e Anna Rutigliano


Franco Basaglia
 
Per il centenario di Franco Basaglia.
 
La psichiatria è una lente di ingrandimento, uno specchio che dice molto, sia sull’animo umano che sullo stato di una società. Si incontrano persone sofferenti di ogni tipo, esseri fragili e sensibili che si muovono nella vita, come se camminassero su un filo sospeso. Parlando con loro, possono costringerci a guardare in faccia le nostre verità, metterci all’angolo o condurci in terre dove non avremmo mai pensato di mettere piede. Ci è voluto del tempo per ammetterlo, ma se queste persone mi toccano così tanto, è perché mi costringono ad affrontare me stesso e le mie vulnerabilità” (da una conversazione di Franco Basaglia con il regista francese Nicolas Philibert vincitore con il film “Sur l’Adamant” a Berlino dell’Orso d’oro 2023). 



Caro Franco, ricordi il film di Milos Forman del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”? Per la prima volta, sullo schermo, era affrontato il problema del trattamento dei pazienti psichiatrici negli ospedali statali americani (e non solo). Soggetto e sceneggiatura erano stati tratti dal romanzo di Ken Kensey, pubblicato nel 1962, e tradotto in italiano nel 1976 da Rizzoli. Narrava la storia di Randle Patrick Mc Murphy, interpretato da Jack Nicholson, che con la sua presenza in una struttura manicomiale, denunciava le modalità repressive e carcerarie della istituzione. Come dimenticare l’ultima scena del film che, rivista ancora oggi, una lacrima la strappa ai nostri occhi? Capo Bromden, l’indiano che finge di essere muto, dopo aver constatato che, per effetto della lobotomia, il suo amico Randle ormai era diventato una larva umana, decide di ucciderlo, piuttosto che lasciarlo così, là dentro, e fracassa una delle finestre per fuggire verso la libertà. Fracassare il muro-finestra! Ho pensato che capo Bromden eri anche tu. 



Caro Franco, dunque l’11 marzo del 1924, cento anni fa, nascevi a Venezia. Di lì a poco, avresti avuto gli occhi del mondo intero su di te, perché saresti riuscito a fare l’impossibile: smantellare un ospedale psichiatrico (anzi, come si usava dire allora, un frenocomio), quello che nel 1908 era stato inaugurato a Trieste sul modello dello Steinhof di Vienna. Una quarantina di palazzine disseminate in un grande parco, disteso su una collina, lontano dalla città. Lontano, certo, perché bisognava dare ai cittadini il senso che la loro sicurezza non era minacciata dalla follia di quelli che abitavano in quelle palazzine. Tu sapevi bene che cos’era stato lo Steinhof a Vienna, perché a Padova insieme a studenti antifascisti avevi partecipato alla lotta per la Resistenza e che per questo, dopo la denuncia di uno di quegli studenti, fosti arrestato e detenuto per alcuni mesi nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana. Sì, tu conoscevi a che modello si ispirava la struttura manicomiale di Trieste Steinhof a Vienna era l’antico nome di un’area in cui, tra il 1940 e il 1945, nella clinica Am Spiegelgrund, 789 pazienti, per lo più bambini, furono assassinati, durante la Seconda Guerra Mondiale, nell’ambito dell’eutanasia infantile dei pazienti psichiatrici e di persone con disabilità mentale presenti nella Germania nazista. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale nel 1949 dopo la laurea, oltre ad iniziare ad esercitare la tua professione, approfondisti temi filosofici, leggendo autori fondamentali dell’esistenzialismo e della fenomenologia, come Jean Paul Sartre, Maurice Merleau Ponty, Husserl, Heidegger. 


E. Usserl

In una delle tue conferenze brasiliane, tenutesi, tra le altre città, a Sao Paolo, il 18 Giugno del 1979, si capì subito quanto le tue riflessioni sulla psichiatria e la lotta per la liberazione e reintegrazione nella società, dei malati internati nei manicomi, nascessero all’interno delle contraddizioni capitalistiche. È proprio il concetto marxiano di “Arbeitsentfremdung”, dell’alienazione del lavoro, secondo cui sostieni, caro Franco, che il problema della follia risieda all’interno del problema dell’organizzazione del lavoro: una non egualitaria organizzazione del lavoro comporta miseria. Non è un caso, dunque, la tua trasferta in terra sud-americana, in Brasile, in cui fosti testimone oculare della tragedia umana dell’ospedale Colonia a Barbacena, così come dello Juqueri di Sao Paolo a causa della dittatura militare brasiliana: campi di concentramento nazisti, così li avevi definiti. 


Gli stessi medici e tecnici di salute mentale brasiliani ti avevano riferito la miseria in cui fossero costretti a lavorare, ponendo così, al mondo intero un quesito fondamentale: “Se la miseria scomparisse, la psichiatria continuerebbe ad esistere?”. Maturasti allora tutte le idee innovatrici che ti accompagnarono poi nella rivoluzione psichiatrica che stavi preparando già dal 1958, dopo aver ottenuto la libera docenza in psichiatria. Ma il mondo accademico non era pronto e lo lasciasti andare, per dedicarti direttamente alla direzione di un Ospedale Psichiatrico a Gorizia. Anche lì, lo ricordi bene, il contatto diretto con la struttura manicomiale fu durissimo per le ostilità che incontrasti. 


Maxwell Jones

Ma la strada era già stata tracciata, prima di te, dieci anni prima. Queste idee erano già maturate. Maxwell Jones, in Inghilterra, aveva già iniziato a modificare la struttura rigida e gerarchica dell’ospedale psichiatrico, trasformando i rapporti all’interno della struttura da verticali a orizzontali, introducendo, di fatto, un cambiamento delle relazioni tra pazienti e operatori sanitari (cosa che comportava la rinuncia a utilizzare terapie violente) e nello stesso tempo del contatto tra struttura manicomiale e mondo esterno (il che portò ad aprire i cancelli e chiudere i manicomi). Sì, caro Franco, a Gorizia opponesti al pessimismo della ragione, l’ottimismo della pratica e nel momento in cui entrasti, con la tua equipe nel manicomio, non fu un no alla psichiatria ma un no alla miseria: la vostra scoperta fu quella di considerare il malato nelle sue necessità e soggettività, la tua sofferenza coincideva con quella del malato e offriste la possibilità di una vita alternativa, più libera. Di fatti, incominciaste ad organizzare qualcosa di più egualitario ed umano: un uomo poteva incontrare una donna e non succedeva alcuna violenza, piuttosto si innamoravano. Tuttavia fosti sempre consapevole che la gestione del manicomio in modo alternativo avrebbe incontrato ostacoli e che fosse comunque una forma di controllo sociale da parte dei medici. 


Il manicomio di Trieste negli anni '70

Trieste fu la tappa successiva. Città asburgica, ma anche italiana, ospitale e fredda nello stesso tempo, era la città dei confini che, come tutti i confini del mondo, da un lato tendevano a separare, a delimitare, a creare distanze, insensibilità e attriti ma, proprio perché città sulla quale convergevano diversi mondi e culture, dall’altro città dove potevano confluire idee ed esperienze diverse, e quindi terreno ideale per un cambiamento. In quel frenocomio avevi trovato 1.200 degenti alcuni di loro rinchiusi fin da bambini e anche profughi sfollati dall’Istria. Con la tua equipe discuteste della dimissione di un paziente e così vi recaste nel quartiere in cui il malato sarebbe andato ad abitare discutendo con i cittadini. Si avviò così l’identificazione tra il sano e il malato. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, disperatamente trovaste la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro: i problemi della pericolosità del malato cominciarono a diminuire in quanto non si era più di fronte alla malattia ma ad una “crisi’’.  Nel 1975 apristi il primo Centro di Igiene Mentale che era qualcosa di totalmente nuovo, mai visto, e incominciasti a dimettere i primi malati, facendoli sistemare in case, soprattutto situate nei quartieri operai. Ma, nonostante questo, dovevi trovare il modo di scuoterla quella città e questa scossa arrivò il 25 febbraio del 1973. 



In uno dei laboratori dell’Ospedale psichiatrico, da alcuni mesi, artisti pazienti, medici, infermieri e cittadini, si erano messi al lavoro. Avevi fatto costruire un cavallo azzurro di legno e cartapesta, per farlo andare per le strade della città, pieno dei desideri dei reclusi. Il 25 febbraio 1973 era una domenica: quel cavallo azzurro, di legno intrecciato e cartapesta, venne portato in corteo, oltre i cancelli della struttura. Ad aspettare il corteo, c’era un quartiere in festa, con folla all’esterno, una processione di macchine al seguito del cavallo, portato a traino da un camion, le bandiere, i tamburi festosi. La città era semivuota, le saracinesche chiuse, quasi a mostrare malanimo, nonostante fosse stata tappezzata di volantini che annunciavano l’iniziativa. Ma fu un momento altamente simbolico: il cavallo aveva infranto il muro del manicomio. Come Capo Bromden! La legge 180 del 13 maggio ’78, che porterà per sempre il tuo nome, sancirà il riconoscimento dei diritti degli esseri umani affetti da disturbi mentali, il superamento del concetto giuridico della pericolosità del paziente psichiatrico e di conseguenza della necessità della custodia. I pazienti ridiventavano persone da aiutare, non da recludere e isolare. 


Il cavallo azzurro

Il manicomio andava chiuso e sostituito da una rete di servizi esterni. Tu sei comparso in un momento particolarmente buio, tra il dopoguerra e gli anni Settanta, quando la cura delle malattie mentali e psichiatriche aveva più a che fare con pratiche medioevali, rozze, inquietanti, piuttosto che con reali pratiche di aiuto o di recupero. Hai avuto il grande merito di aver fatto cambiare la prospettiva della gente sul concetto di malattia mentale: il tuo messaggio scientifico sociale, etico, ha anche cambiato il modo di pensare dei medici, degli infermieri, degli psicologi. Tutti hanno capito che bisognava sostituire la sedazione farmacologica continua o gli elettroshock, la contenzione al letto, le punizioni, con un rapporto di vicinanza empatica, centrato sul concetto di una persona da ascoltare, comprendere, accogliere. Ai matti hai restituito la dignità di essere uomini. Grazie Franco, buon compleanno.