IL CAVALLO AZZURRO di
Zaccaria Gallo e
Anna Rutigliano
Franco Basaglia
Per
il centenario di Franco Basaglia. “La psichiatria è una lente di
ingrandimento, uno specchio che dice molto, sia sull’animo umano che sullo
stato di una società. Si incontrano persone sofferenti di ogni tipo, esseri
fragili e sensibili che si muovono nella vita, come se camminassero su un filo
sospeso. Parlando con loro, possono costringerci a guardare in faccia le nostre
verità, metterci all’angolo o condurci in terre dove non avremmo mai pensato di
mettere piede. Ci è voluto del tempo per ammetterlo, ma se queste persone mi
toccano così tanto, è perché mi costringono ad affrontare me stesso e le mie
vulnerabilità” (da una conversazione di Franco Basaglia con il regista francese
Nicolas Philibert vincitore con il film “Sur l’Adamant” a Berlino dell’Orso
d’oro 2023).
Caro Franco, ricordi il film di Milos Forman del 1975 “Qualcuno
volò sul nido delcuculo”? Per la prima volta, sullo schermo, era
affrontato il problema del trattamento dei pazienti psichiatrici negli ospedali
statali americani (e non solo). Soggetto e sceneggiatura erano stati tratti dal
romanzo di Ken Kensey, pubblicato nel 1962, e tradotto in italiano nel 1976 da
Rizzoli. Narrava la storia di Randle Patrick Mc Murphy, interpretato da Jack
Nicholson, che con la sua presenza in una struttura manicomiale, denunciava le
modalità repressive e carcerarie della istituzione. Come dimenticare l’ultima
scena del film che, rivista ancora oggi, una lacrima la strappa ai nostri
occhi? Capo Bromden, l’indiano che finge di essere muto, dopo aver constatato
che, per effetto della lobotomia, il suo amico Randle ormai era diventato una
larva umana, decide di ucciderlo, piuttosto che lasciarlo così, là dentro, e
fracassa una delle finestre per fuggire verso la libertà. Fracassare il
muro-finestra! Ho pensato che capo Bromden eri anche tu.
Caro Franco, dunque l’11
marzo del 1924, cento anni fa, nascevi a Venezia. Di lì a poco, avresti avuto
gli occhi del mondo intero su di te, perché saresti riuscito a fare l’impossibile:
smantellare un ospedale psichiatrico (anzi, come si usava dire allora, un
frenocomio), quello che nel 1908 era stato inaugurato a Trieste sul modello
dello Steinhof di Vienna. Una quarantina di palazzine disseminate in un grande parco,
disteso su una collina, lontano dalla città. Lontano, certo, perché bisognava
dare ai cittadini il senso che la loro sicurezza non era minacciata dalla
follia di quelli che abitavano in quelle palazzine. Tu sapevi bene che cos’era
stato lo Steinhof a Vienna, perché a Padova insieme a studenti antifascisti
avevi partecipato alla lotta per la Resistenza e che per questo, dopo la
denuncia di uno di quegli studenti, fosti arrestato e detenuto per alcuni mesi
nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana. Sì, tu conoscevi a che modello
si ispirava la struttura manicomiale di Trieste Steinhof a Vienna era l’antico
nome di un’area in cui, tra il 1940 e il 1945, nella clinica Am Spiegelgrund,
789 pazienti, per lo più bambini, furono assassinati, durante la Seconda Guerra
Mondiale, nell’ambito dell’eutanasia infantile dei pazienti psichiatrici e di
persone con disabilità mentale presenti nella Germania nazista. Con la fine
della Seconda Guerra Mondiale nel 1949 dopo la laurea, oltre ad iniziare ad
esercitare la tua professione, approfondisti temi filosofici, leggendo autori
fondamentali dell’esistenzialismo e della fenomenologia, come Jean Paul Sartre,
Maurice Merleau Ponty, Husserl, Heidegger.
E. Usserl
In una delle tue conferenze
brasiliane, tenutesi, tra le altre città, a Sao Paolo, il 18 Giugno del 1979, si
capì subito quanto le tue riflessioni sulla psichiatria e la lotta per la
liberazione e reintegrazione nella società, dei malati internati nei manicomi,
nascessero all’interno delle contraddizioni capitalistiche. È proprio il
concetto marxiano di “Arbeitsentfremdung”, dell’alienazione del lavoro, secondo
cui sostieni, caro Franco, che il problema della follia risieda all’interno del
problema dell’organizzazione del lavoro: una non egualitaria organizzazione del
lavoro comporta miseria. Non è un caso, dunque, la tua trasferta in terra
sud-americana, in Brasile, in cui fosti testimone oculare della tragedia umana
dell’ospedale Colonia a Barbacena, così come dello Juqueri di Sao Paolo a causa
della dittatura militare brasiliana: campi di concentramento nazisti, così li
avevi definiti.
Gli stessi medici e tecnici di salute mentale brasiliani ti
avevano riferito la miseria in cui fossero costretti a lavorare, ponendo così,
al mondo intero un quesito fondamentale: “Se la miseria scomparisse, la
psichiatria continuerebbe ad esistere?”. Maturasti allora tutte le idee
innovatrici che ti accompagnarono poi nella rivoluzione psichiatrica che stavi
preparando già dal 1958, dopo aver ottenuto la libera docenza in psichiatria.
Ma il mondo accademico non era pronto e lo lasciasti andare, per dedicarti
direttamente alla direzione di un Ospedale Psichiatrico a Gorizia. Anche lì, lo
ricordi bene, il contatto diretto con la struttura manicomiale fu durissimo per
le ostilità che incontrasti.
Maxwell Jones
Ma la strada era già stata tracciata, prima di te,
dieci anni prima. Queste idee erano già maturate. Maxwell Jones, in
Inghilterra, aveva già iniziato a modificare la struttura rigida e gerarchica
dell’ospedale psichiatrico, trasformando i rapporti all’interno della struttura
da verticali a orizzontali, introducendo, di fatto, un cambiamento delle
relazioni tra pazienti e operatori sanitari (cosa che comportava la rinuncia a
utilizzare terapie violente) e nello stesso tempo del contatto tra struttura
manicomiale e mondo esterno (il che portò ad aprire i cancelli e chiudere i
manicomi). Sì, caro Franco, a Gorizia opponesti al pessimismo della ragione,
l’ottimismo della pratica e nel momento in cui entrasti, con la tua equipe nel
manicomio, non fu un no alla psichiatria ma un no alla miseria: la vostra
scoperta fu quella di considerare il malato nelle sue necessità e soggettività,
la tua sofferenza coincideva con quella del malato e offriste la possibilità di
una vita alternativa, più libera. Di fatti, incominciaste ad organizzare
qualcosa di più egualitario ed umano: un uomo poteva incontrare una donna e non
succedeva alcuna violenza, piuttosto si innamoravano. Tuttavia fosti sempre consapevole
che la gestione del manicomio in modo alternativo avrebbe incontrato ostacoli e
che fosse comunque una forma di controllo sociale da parte dei medici.
Il manicomio di Trieste negli anni '70
Trieste
fu la tappa successiva. Città asburgica, ma anche italiana, ospitale e fredda
nello stesso tempo, era la città dei confini che, come tutti i confini del
mondo, da un lato tendevano a separare, a delimitare, a creare distanze,
insensibilità e attriti ma, proprio perché città sulla quale convergevano
diversi mondi e culture, dall’altro città dove potevano confluire idee ed
esperienze diverse, e quindi terreno ideale per un cambiamento. In quel
frenocomio avevi trovato 1.200 degenti alcuni di loro rinchiusi fin da bambini
e anche profughi sfollati dall’Istria. Con la tua equipe discuteste della
dimissione di un paziente e così vi recaste nel quartiere in cui il malato
sarebbe andato ad abitare discutendo con i cittadini. Si avviò così
l’identificazione tra il sano e il malato. Giorno dopo giorno, anno dopo anno,
disperatamente trovaste la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi
stava fuori dentro: i problemi della pericolosità del malato cominciarono a
diminuire in quanto non si era più di fronte alla malattia ma ad una
“crisi’’. Nel 1975 apristi il primo
Centro di Igiene Mentale che era qualcosa di totalmente nuovo, mai visto, e
incominciasti a dimettere i primi malati, facendoli sistemare in case,
soprattutto situate nei quartieri operai. Ma, nonostante questo, dovevi trovare
il modo di scuoterla quella città e questa scossa arrivò il 25 febbraio del
1973.
In uno dei laboratori dell’Ospedale psichiatrico, da alcuni mesi, artisti
pazienti, medici, infermieri e cittadini, si erano messi al lavoro. Avevi fatto
costruire un cavallo azzurro di legno e cartapesta, per farlo andare per le
strade della città, pieno dei desideri dei reclusi. Il 25 febbraio 1973 era una
domenica: quel cavallo azzurro, di legno intrecciato e cartapesta, venne
portato in corteo, oltre i cancelli della struttura. Ad aspettare il corteo,
c’era un quartiere in festa, con folla all’esterno, una processione di macchine
al seguito del cavallo, portato a traino da un camion, le bandiere, i tamburi
festosi. La città era semivuota, le saracinesche chiuse, quasi a mostrare
malanimo, nonostante fosse stata tappezzata di volantini che annunciavano l’iniziativa.
Ma fu un momento altamente simbolico: il cavallo aveva infranto il muro del
manicomio. Come Capo Bromden! La legge 180 del 13 maggio ’78, che porterà per
sempre il tuo nome, sancirà il riconoscimento dei diritti degli esseri umani
affetti da disturbi mentali, il superamento del concetto giuridico della
pericolosità del paziente psichiatrico e di conseguenza della necessità della
custodia. I pazienti ridiventavano persone da aiutare, non da recludere e
isolare.
Il cavallo azzurro
Il manicomio andava chiuso e sostituito da una rete di servizi esterni.
Tu sei comparso in un momento particolarmente buio, tra il dopoguerra e gli
anni Settanta, quando la cura delle malattie mentali e psichiatriche aveva più
a che fare con pratiche medioevali, rozze, inquietanti, piuttosto che con reali
pratiche di aiuto o di recupero. Hai avuto il grande merito di aver fatto
cambiare la prospettiva della gente sul concetto di malattia mentale: il tuo
messaggio scientifico sociale, etico, ha anche cambiato il modo di pensare dei
medici, degli infermieri, degli psicologi. Tutti hanno capito che bisognava
sostituire la sedazione farmacologica continua o gli elettroshock, la
contenzione al letto, le punizioni, con un rapporto di vicinanza empatica,
centrato sul concetto di una persona da ascoltare, comprendere, accogliere. Ai
matti hai restituito la dignità di essere uomini. Grazie Franco, buon
compleanno.