Precarietà,sfruttamento,
colonialismo: Serbia e Kosovo alla Biennale.
Separati della politica, dagli interessi
di élite nazionalistiche troppo spesso incapaci di prospettiva e di visione,
lacerati dai conflitti conseguenti all’aggressione imperialistica delle potenze
occidentali contro la Federazione Jugoslava del 1999, tenuti in una sorta di
“limbo” dalle ambivalenze della diplomazia e dalla irresolutezza di una
riconciliazione che stenta a prendere il largo, Serbia e Kosovo sono invece
sorprendentemente accomunati dall’intensità e dalla profondità dei messaggi
sociali e politici che i loro padiglioni alla Biennale di Venezia esprimono.
Opere d’arte di grande impatto, visuale ed emotivo, con al centro, rispettivamente,
due grandi questioni politiche e sociali del nostro tempo: la condizione delle
donne lavoratrici e la precarietà del lavoro, da una parte; il colonialismo e
il neocolonialismo, le moderne forme di oppressione e spoliazione,
dall’altra.
Il Padiglione del Kosovo alla LX
Esposizione Internazionale d’Arte - Biennale di Venezia - presenta l’installazione
dal titolo “The Echoing Silences of Metal and Skin” il cui tema-guida è la
dimensione di genere del lavoro, la condizione femminile nel lavoro e, in
generale, le disuguaglianze, in particolare di genere, sul posto di lavoro.
Partendo da due cruciali presupposti storico-politici, vale a dire la
deindustrializzazione dell’economia produttiva e la deregolamentazione del
mondo del lavoro, che caratterizzano l’insieme delle economie neoliberiste (è
la cifra della precarizzazione dei rapporti sociali a partire dagli anni
Ottanta e della fine dell’intervento pubblico in economia), l’artista Doruntina
Kastrati si interroga, attraverso la sua installazione, sulla precarietà del
lavoro, in particolare nel settore dell’industria leggera, all’indomani della
guerra del Kosovo del 1999, una stagione storica segnata da una radicale e
drammatica transizione da un sistema a orientamento socialista, contraddistinto
dall’intervento pubblico e dalle protezioni sociali, ad un sistema
neoliberista, segnato viceversa da
privatizzazioni, smantellamento dell’economia nazionale, precarietà.
In questo quadro si inserisce, poi,
anche una specifica, peculiare, dimensione di genere, dal momento che la “femminilizzazione” del lavoro in determinati settori
(l’industria alimentare, dalle conserve alla trasformazione) ha finito
per cristallizzare i ruoli tradizionali di genere presenti all’interno della
società, a maggior ragione in una società, come quella albanese kosovara, nella
quale persistono tracce profonde del retaggio patriarcale. Letta in questa
prospettiva, l’installazione del padiglione kosovaro, “The Echoing Silences of
Metal and Skin” corrisponde anche al bisogno di una presa di parola nello
spazio pubblico e porta le narrazioni delle donne, direttamente e
impietosamente, di fronte all’opinione pubblica. Questo progetto artistico si
basa, infatti, su una ricerca sociale, che ha portato l’artista a raccogliere
una serie di storie orali narrate dalle operaie di una fabbrica di lokum,
le cosiddette “delizie turche” (turkish delights), a Prizren, che è, al
tempo stesso, la città natale dell’artista, la seconda città più grande del
Kosovo, e la città cuore della presenza turca nella regione. Il titolo
dell’installazione, di conseguenza, è presto spiegato. Le donne svolgono, in questo genere di
produzione, un lavoro stancante e
ripetitivo, una forma tipica di marxiana alienazione del lavoro, che le
costringe, tra l’altro, per molte ore al giorno, a stare in piedi: cosicché,
quasi un terzo delle operaie subisce interventi chirurgici al ginocchio. Le
protesi metalliche (il Metal del titolo) impiantate sotto pelle (la Skin)
nelle ginocchia sono la traccia di un lavoro massacrante per un salario basso,
in una condizione, ancora e duramente, di alienazione e di sfruttamento.
L’installazione è infatti composta da una serie di sculture indipendenti, che
riproducono allusivamente la forma dei gusci delle noci utilizzati per le
“delizie turche” e alludono, al tempo stesso, agli impianti chirurgici e alla
produzione industriale, con la scelta di un’associazione potente, ospedale e
fabbrica, tra luoghi che possono essere, al tempo stesso, di contenzione e di
liberazione, di oppressione e di salvezza.
Il Padiglione della Serbia alla
Biennale di Venezia, d’altra parte, avendo come luogo artistico centrale la
mostra dal titolo “Exposition Coloniale”, è un richiamo agli esiti e alle
conseguenze del periodo coloniale e una denuncia del colonialismo in tutte le
sue manifestazioni ed espressioni. È questo sfondo storico, infatti, ad aprire
la strada all’esplorazione dell’artista, Aleksandar Denić, intorno alla
dimensione contemporanea del colonialismo e all’impatto delle forme perduranti
e tuttora attuali di divisione, oppressione e sottomissione di popoli e
culture. La mostra allude chiaramente al fatto che tali temi, dalla divisione
internazionale del lavoro allo sfruttamento delle risorse fondamentali, fino
alle moderne forme di colonialismo e neocolonialismo, non solo non rappresentano
un retaggio del passato, ma continuano a essere pertinenti, certamente nel
campo della politica e dell’economia, ma anche nella sfera della cultura, nel
quadro dei valori e dei diritti umani. Qui, strutture, manufatti, conglomerati,
vengono rappresentati come veri e propri “cimeli” sociali, sfidando, al tempo
stesso, i visitatori, “costringendoli” a interrogarsi sulla loro visione o percezione
delle dinamiche e dei meccanismi del potere, dell’oppressione, del consumismo,
e, in definitiva, della realtà del mondo come lo conosciamo, sollecitando anche
interrogativi più profondi, sulle sue condizioni e sulla sua trasformazione.