SCIENZA, POLITICA, ECONOMIA DI GUERRA di Franco Astengo
Sono queste le notizie che indicano come si stia verificando un
vero e proprio “spostamento d’asse” con una domanda: Sarà
possibile impostare su questi temi e su quelli della prospettiva istituzionale
dell'Europa la prossima campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo,
uscendo dal provincialismo interno al voto in più o in meno tra i partiti
italiani? (dalla news letter di 'Stroncature' del 18 aprile
2024). “Di recente, Handelsblatt, il più importante
quotidiano economico tedesco, si è schierato duramente contro le restrizioni
imposte da alcune università nei rapporti di cooperazione con l’industria della
difesa, invocando la necessità per le democrazie liberali di utilizzare la
forza della propria ricerca scientifica e la forza dell’innovazione tecnologica
nella lotta contro le autocrazie. Le ‘Friedensklauseln’ o ‘clausole di pace’
sono disposizioni presenti negli statuti delle università tedesche che
impongono alla ricerca di essere orientata verso ‘scopi pacifici’. Queste
clausole, in alcuni casi, sono incluse anche nelle leggi sull’istruzione
superiore di alcuni Länder, come Brema e Turingia, mentre sono state abrogate
in Bassa Sassonia e Renania Settentrionale-Vestfalia. Oltre a sollevare dubbi
sulla loro compatibilità con la libertà di ricerca sancita dalla Legge
fondamentale tedesca, scrive il quotidiano economico, le clausole di pace si
sono dimostrate di difficile applicazione in relazione ai beni a duplice uso,
ovvero merci, software e tecnologie che possono avere sia un'applicazione
civile che militare, e dalla dubbia efficacia vincolante”. Tutto questo si verifica mentre nelle Università italiane studenti
e docenti (brutalizzati dalla polizia) mettono in discussione accordi di tipo
scientifico con Università israeliane accusandone le finalità belliche e
altrettanto avviene in diversi paesi d’Europa. Si tratta di
segnali importanti di cosa si intende quando, nella situazione attuale, si
parla in parallelo di economia di guerra e di difesa comune europea, invocando
un “cambio di passo” proprio nella dimensione europea (e riproponendo anche l’Europa
a 2 velocità)? Il tema di oggi è quello
dell’internazionalizzazione della crisi e delle prospettive di inasprimento
bellico sul piano globale. È necessario rendersi conto che stanno
sorgendo questioni gigantesche da affrontare primi
fra tutti quelli riguardanti i trasferimenti di tecnologia e quelli energetici.
Trasferimenti che avevano già segnato la fase culminante
di quella che abbiamo definito “globalizzazione”, poi arretrata a partire dalla
crisi del 2008. Così sarà necessario
riflettere su tre punti (definito però preventivamente il campo della
dimensione sovranazionale):
1) Il mutato rapporto tra autonomia della scienza e della tecnica
e i diversi livelli di decisionalità politica. Il contenimento dell’egemonia
della scienza e della tecnica appare fattore determinante nel definire gli
equilibri a livello geopolitico (in questo echeggiano richiami che tornano
d’assoluta attualità come quello riguardante come possa essere possibile
intrecciare l’autonomia della scienza, la finalità del produrre e la
decisionalità politica); 2) L’intreccio tra politica e vita biologica, come stiamo
osservando nell’attualità, favorisce il provocare uno spostamento delle
procedure democratiche ordinarie verso disposizioni di carattere emergenziale
che, dopo la questione sanitaria, adesso si trova di fronte il tema della
guerra. Ciò avviene in una fase di forte crisi della democrazia liberale tra
l’altro dovuta al processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato-Nazione”; 3) Emerge il tema della capacità cognitiva in termini globali di
formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura e
quindi di educazione globale. Non possiamo stare fermi a contemplare ciò che accade senza
disporre di idee e di organizzazione per poter attaccare, come sarebbe
necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali. Dal dibattito in corso sono fin qui risultati assenti due punti
fondamentali: 1) quello della indispensabile dimensione sovranazionale della
capacità di programmazione dell’economia almeno a livello di spazio politico
europeo ponendo subito il tema del processo istituzionale a quel livello; 2) L’idea di un ritorno all’indietro sul piano della cessione di
sovranità dello “Stato-Nazione” con il ritorno di spirali nazionalistiche. Il tema della guerra è rimasto all’ordine del giorno dell’agenda
internazionale nel corso di questi anni e adesso si presente come punto
dirimente di una situazione quanto mai delicata a livello planetario.
Infine
qualche annotazione statistica: nel 2022 la
crescita della spesa per armamenti a livello mondiale è cresciuta del 4%. In
termini reali di più di 2 miliardi di dollari. Il numero di paesi NATO che
hanno già raggiunto l’obiettivo del 2% di spesa militare sul PIL e passato da 3
nel 2014 a 7 nel 2022 e ormai si può considerare questo obiettivo un “a floor,not a celling”: un punto di partenza e non di
arrivo. La Polonia punta a raggiungere il 4% e a raddoppiare le dimensioni del
suo esercito. La Francia aumenta gli investimenti nei sistemi di difesa
cibernetici, spaziali e sottomarini mentre Macron parla di “economia di guerra”. La Germania punta a superare il tetto del 2%. Il
Giappone prevede di aumentare a 51,4 miliardi di dollari le spese militari
facendo registrare una crescita del 26,3%. Nel frattempo le spese militari dell’India
sono cresciute del 50%: eguale percentuale per l'eterno nemico indiano, il
Pakistan (che dispone dell'armamento atomico). Il budget della difesa cinese è
aumentato del 75% nell'ultimo decennio. L’Algeria fin dal 2022 aveva siglato un
accordo con la Russia per una fornitura di armi per 12 miliardi di dollari,
aumentando le spese del 130 per cento. Si rileva infine smentendo i luoghi
comuni e come spiega “The job opportunity
Cost War di Heidi Garret Peltier” un
milione di dollari di spesa militare crea meno posti di lavoro rispetto alla
stessa spesa in altri nove settori. In compenso la spesa militare è
quella che crea maggiori profitti per alcuni settori industriali e
relativi “pezzi” di politica che li sostengono.