Il 1° maggio 1971 il Manifesto pubblicò un editoriale non firmato
dal titolo "Contro il lavoro" che fece molto scalpore. Oggi può essere utilmente preso in esame un punto di quel
testo: “Nessuno più di Marx ha fatto
del lavoro il centro della storia. L’uomo stesso è il prodotto del suo lavoro” e
più avanti “Da un lato il lavoro diventa,
come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una realtà esterna, senza
senso e senza contenuti, un’alienazione insopportabile…”. Ecco questo è il punto su cui soffermarci, quello del lavoro come
alienazione. La domanda allora diventa: qual è il punto di alienazione
raggiunto oggi? Si pone ancora la prospettiva che dalla presa di coscienza
dell’alienazione si possa arrivare alla presa di coscienza della necessità del
superamento del lavoro salariato?Si tratta di prendere
in considerazione un dato di fondo: l’uomo non è più il prodotto del suo
lavoro, come si pensava cinquant'anni fa, e neppure la dimensione umana si
trova ancora al centro della subalternità al comando del profitto.Oggi l’uomo (nel senso di genere umano) non è null'altro
che l’espressione del suo consumo, della sua capacità di corrispondere in ogni
momento della sua vita e non soltanto in fabbrica all’egemonia del comando del
profitto.Dentro lo stridore sociale dominante
è il comando del profitto che ormai si è esteso sull’insieme di contraddizioni
che la modernità presenta, assumendo il comando di tutte le innovazioni che via
via si stanno presentando sulla scena.Ogni
nostro atto, ogni nostra possibilità di visione, è compiuto in funzione
dell’apparire quasi sempre pubblicitario del combinato disposto tra reale e
virtuale sul quale la logica del profitto si espande e si afferma.L’intreccio tra reale e virtuale che si accompagna ormai in
tutti gli aspetti della nostra vita non produce altro che la virtuosità del
profitto in tutti i campi.L'incombenza
imposta a tutti è quella di mantenere integro il ciclo del consumo.Così si è arrivati più ancora che alla negazione al
considerare superfluo il conflitto, sia nel sociale sia nel politico.
Il conflitto è considerato ormai marginale, momento di turbamento dell’ordine
costituito.Si cerca di spingere fuori dal quadro le potenziali note
stonate riducendone i portatori a testimoni innocui.Sono del tutto remote le potenzialità di considerare
“lotta” e non “festa” una giornata del lavoro nel significato profondo,
originario, del Primo Maggio.Così l’articolo
di quel lontano 1° maggio di cinquant’anni fa può essere considerato lontano
nel tempo, reperto di vera antichità nella storia delle relazioni umane,
sociali, politiche.L’orizzonte è rimasto
ristretto alla sola possibilità della migliore remunerazione del lavoro umano
per fa sì che ci sia consentito di continuare ad esercitare questa funzione di
mera riproduzione del consumo come fattore di consenso e di nuova dimensione
dell’umanità.Ricordarsi le condizioni di
intreccio tra sfruttamento e alienazione ponendo assieme il tema di rivedere la
visione del lavoro potrebbe rappresentare la possibilità di compiere dopo tanto
tempo un nuovo passo in avanti.Quale
occasione migliore del Primo Maggio per ricordare questa possibilità?