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mercoledì 29 maggio 2024

PCI: SULL’EREDITÀ DELLA MEMORIA
di Franco Astengo

 
Sembra ci si stia accanendo sull’eredità della memoria del PCI, partito ormai scomparso (senza eredi) da oltre trent’anni eppure ben vivo nella dialettica politica, quasi come un convitato di pietra con cui si è ancora costretti a fare i conti. Così si cerca di distorcerne la memoria tirando fuori episodi che dovrebbero far pensare a tutt’altro itinerario da quello che effettivamente si è svolto con l’andare del tempo: vien fuori che già nel 1974 Enrico Berlinguer aveva in mente lo scioglimento del partito e una rifondazione evidentemente posta al di fuori dell’identità politica del comunismo italiano oppure che, nella fase calda della proposta (poi attuata) di liquidazione del partito autorevoli suoi dirigenti pensavano valesse ancora - come deterrente - una scomunica emanata dall’alto dalla casa madre sovietica (del resto in quel periodo in piena fibrillazione alla ricerca di vie nuove per il socialismo). Insomma siamo sulla strada della scoperta di un Gramsci liberale e dell’applauso rivolto in comunità a Berlinguer e Almirante dalla platea di Fratelli d’Italia. Operazioni sconsiderate e non sufficientemente respinte a livello culturale e politico dalla sinistra (per fortuna ci ha pensato Angelo D’Orsi nella sua recente biografia del pensatore sardo uscita per Feltrinelli).
In realtà questo darsi da fare per deviare/obliare denuncia, prima di tutto, l’incompiutezza dell’elaborazione del lutto anche da parte di coloro che proposero e sostennero la via della liquidazione in nome dello “sblocco del sistema politico”.
Soprattutto però segnala l’insufficienza di una analisi sulle ragioni profonde per le quali al momento di una proditoria proposta di “svolta” la resistenza fu debole, poco coordinata e sostanzialmente non misurata sulla riflessione circa identità e prospettiva nella storia del comunismo italiano (l’unico tentativo fu fatto, forse, attraverso la relazione svolta da Lucio Magri – “il nome delle cose”- al seminario di Arco dell’ottobre 1990 e poi con il suo successivo - ancora fondamentale “Sarto di Ulm”).



Provo a riassumere:
Dall'inizio degli anni ’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, perché posti sul terreno del nuovo intreccio tra le contraddizioni strutturali della società furono assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.
In sostanza aveva cominciato a far breccia , anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni ’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian-tachterismo), nei paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.
Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale.
A questo punto debbono essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto in luce come in pochi anni, anche in un paese come l’Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande partito Comunista d'Occidente, quest’offensiva “neocons” avesse modificato, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell’area dell’intellettualità e dell’opinione pubblica progressista.


 
1) In  primo luogo cominciò a raccogliere consensi la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi a Ovest e nel Nord Europa, principale per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico. 
2) In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni ’80 l’insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie.
Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell'opinione pubblica. È quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui a esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.



Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e partiti ideologici per eccellenza erano considerati, in Italia, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica.
IL PCI fu così liquidato in fretta, senza offrire ad alcuno la possibilità di riflettere su di un lasciato politico che andava ormai completamente perduto.
Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo. 
È stata così soffocata l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha  lasciato e che rimane come fattore inesplorato nel sistema politico italiano ben oltre la narrazione che oggi si tende a improvvisare quale elemento di smarrimento e di oblio nei riguardi della critica alla modernità.