Sembra
ci si stia accanendo sull’eredità della memoria del PCI, partito ormai
scomparso (senza eredi) da oltre trent’anni eppure ben vivo nella dialettica
politica, quasi come un convitato di pietra con cui si è ancora costretti a
fare i conti.Così si cerca di distorcerne la memoria tirando fuori
episodi che dovrebbero far pensare a tutt’altro itinerario da quello che
effettivamente si è svolto con l’andare del tempo: vien fuori che già nel 1974
Enrico Berlinguer aveva in mente lo scioglimento del partito e una rifondazione
evidentemente posta al di fuori dell’identità politica del comunismo italiano
oppure che, nella fase calda della proposta (poi attuata) di liquidazione del
partito autorevoli suoi dirigenti pensavano valesse ancora - come deterrente -
una scomunica emanata dall’alto dalla casa madre sovietica (del resto in quel
periodo in piena fibrillazione alla ricerca di vie nuove per il socialismo).Insomma
siamo sulla strada della scoperta di un Gramsci liberale e dell’applauso
rivolto in comunità a Berlinguer e Almirante dalla platea di Fratelli d’Italia.
Operazioni sconsiderate e non sufficientemente respinte a livello culturale e
politico dalla sinistra (per fortuna ci ha pensato Angelo D’Orsi nella sua
recente biografia del pensatore sardo uscita per Feltrinelli). In realtà questo darsi da fare per
deviare/obliare denuncia, prima di tutto, l’incompiutezza dell’elaborazione del
lutto anche da parte di coloro che proposero e sostennero la via della
liquidazione in nome dello “sblocco del sistema politico”. Soprattutto però segnala l’insufficienza
di una analisi sulle ragioni profonde per le quali al momento di una proditoria
proposta di “svolta” la resistenza fu debole, poco coordinata e sostanzialmente
non misurata sulla riflessione circa identità e prospettiva nella storia del
comunismo italiano (l’unico tentativo fu fatto, forse, attraverso la relazione
svolta da Lucio Magri – “il nome delle cose”- al seminario di Arco dell’ottobre
1990 e poi con il suo successivo - ancora fondamentale “Sarto di Ulm”).
Provo a riassumere: Dall'inizio degli anni ’80
l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare
un più audace e coraggioso rinnovamento, perché posti sul terreno del nuovo
intreccio tra le contraddizioni strutturali della società furono assunti come
fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei
comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel
momento, raccoglievano i più facili consensi. In sostanza aveva
cominciato a far breccia , anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del
Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in
quegli anni ’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in
tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle
migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con
impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian-tachterismo),
nei paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest. Andò così maturando, anche
nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò
essere culturale e ideale. A questo punto debbono
essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto
in luce come in pochi anni, anche in un paese come l’Italia considerato
paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande
partito Comunista d'Occidente, quest’offensiva “neocons” avesse modificato, in
modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell’area dell’intellettualità e dell’opinione
pubblica progressista.
1) In primo luogo
cominciò a raccogliere consensi la tesi che la crisi delle politiche di
pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione
centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle
forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato
Sociale, sviluppatesi a Ovest e nel Nord Europa, principale per impulso delle
grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici
seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità
di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del
cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico. 2) In secondo luogo non si
può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni ’80 l’insistente
campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie. Una campagna che ebbe
effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell'opinione pubblica. È
quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui a esserci,
alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.
Rimane il fatto che proprio
quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente
accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e
partiti ideologici per eccellenza erano considerati, in Italia, la Democrazia
Cristiana e il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell’idea
stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica. IL PCI fu così liquidato
in fretta, senza offrire ad alcuno la possibilità di riflettere su di un
lasciato politico che andava ormai completamente perduto. Lo scioglimento del PCI
rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui
seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei
grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo. È stata così soffocata
l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia,
radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto
più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato
nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato e che rimane
come fattore inesplorato nel sistema politico italiano ben oltre la narrazione
che oggi si tende a improvvisare quale elemento di smarrimento e di oblio nei
riguardi della critica alla modernità.