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venerdì 14 giugno 2024

HERMITAGE
di Giacomo Maria Prati


 

Io ascolto le cose sussurrate dagli oggetti
sono come un rabdomante
.
E. Coccia e A. Michele, La vita delle forme
 

Hermitage sorge apparentemente quale prova di luci e di scena per la lavorazione di: “Nostra Signora dei Turchi” ma sembra evidente che si tratti di un’opera che sta in piedi da sola, pienamente beniana. Anzi, in soli 24 minuti Carmelo Bene ci lascia una vera sua “opera” cioè una creazione autoriale densa di quel senso di autosufficienza processuale e di verticalità olica proprio del concetto di “opera artistica”. Un’opera massimamente musicale, poietica, comico-drammatica dove si mette in scena situazionisticamente tutto il dramma di Narciso. Il suo dramma dentro la commedia estetico-esistenziale giocato attraverso l’eloquenza situazionistica degli oggetti e della loro potenza scenica. Sono gli oggetti i protagonisti di Hermitage: il letto, il vaso di rose verdeazzurre, le porte riflettenti l’immagine umana come uno spettro, lo specchio coronato di fiori, la sedia-trono barocca, la vasca da bagno, il calice di vino. Oggetti che parlano, che sussurrano; oggetti musicali, teatrali; oggetti che cantano. All’inizio del cortometraggio ecco irradiarsi una delle magistrali inversioni narrative tipiche del genio di Carmelo Bene: il vaso di rose verdi azzurre viene intronato sul letto da Carmelo al posto del suo corpo e lui si pone sopra il tavolino dove sedeva il vaso. Una scelta chirurgica da teurgia teatrale, magica, immanente che genera l’immediata conseguenza di un corpo umano che assume carismi statuari, oggettuali, da “oggetto di scena” e di un vaso con rose che inizia a recitare in modo umanizzante, ipersensibilizzato nella sua già intrinseca liricità. 



Questo giocare con la potenza scenico-situazionistica degli oggetti e un giocarci a-semantico e pre-semantico rispetto all’approccio concettuale-ermeneutico appare un tutt’uno in Hermitage con l’uso iper-lirico della musica del Don Carlos di Verdi. Un uso tanto immersivo quanto discontinuo. La musica si attiva quando il vaso viene toccato o inquadrato. Altrimenti lo sguardo umano si mostra silente e sfocante. L’immediatezza implicitamente narrativa degli oggetti non si distingue dalla potenza onirico-magica della musica lirica. Un uso de-contestualizzante e spiazzante della musica operistica quale carisma costante della poetica e dell’opera beniana ci insegna uno dei valori paradossali della sua etica: la realtà-verità della capacità illusionistica dell’arte. Questo ci rimane per poter reggere il disagio cronico dell’esserci, il vuoto dell’ego: l’elevazione trasfigurante del teatro-musica del puro artificio. Hermitage inizia al buio con Carmelo che non recita ma si aggira dentro l’ombra di un rumore di fondo dato dallo sfrigolare di una radio incerta e in bilico fra frequenze instabili. L’effetto narrativo asemantico è retto e scandito dalla musica e dalla logica posizionale degli oggetti. Il suo corpo è oggetto fra oggetti. Ob-jectum: gettato di traverso dentro l’assurdo dell’esserci. 


Come in Capricci il suo corpo suda, si contorce, geme nel tentativo di non lasciar sfuggire da sé l’arte quale proiezione illusionistica. Gli oggetti della stanza d’albergo appaiono iper-colorati, traslucidi, fosforescenti, vibratili, barocchi quanto rigorosi. Possiedono cioè tutte quelle virtù che a costo di grande fatica l’artista-artefice riesce ad assimilare nel suo “farsi opera” e nel suo “darsi all’opera”. L’ascolto di brani di Genesi ci presenta il rumore di fondo del mondo, il suo continuum dato dal principio dell’attesa e del sacrificio. Scenario che già gli oggetti hanno superato e risolto e l’artefice no. Le porte sono caproniane: intransitive. Si chiudono e riflettono spettri. Gli oggetti sembrano venire dalla musica e la musica è luce e spazio totale. L’artefice soffre e suda nel corpo, immerso nell’ascolto e nella necessità artistica di comunicare la propria assenza. La lettera parla di un ritorno possibile superata memoria e identità ma la visione di Lei, novella Madonna Nera teatrale, è una visione vera e in quanto tale non può che darsi muta, silente. Una visione reciproca dove colei che appare si stupisce nel guardare colui a cui appare. L’artificio è una grande scatola di fiammiferi con bastoncini lunghissimi. La fiamma è dentro l’immagine opaca, sfocata, solo umana. Il corpo-oggetto di Carmelo appare colto in formazione: continua a vestirsi, denudarsi, rivestirsi, coprirsi la faccia con creta bianca, come a divenire spettro esangue. La lettera viene posta sotto una porta chiusa da cui poi appena dopo si entra e la lettera viene cambiata nel finale come se l’artefice ne fosse il destinatario. Come Stirner Carmelo recide con un rasoio occamiano ogni mediazione e proiezione egoica. L’arte è sogno-artificio immediato e intransitivo, come la musica, come gli oggetti. 


Hermitage è abitare una sfinge. In questo la “dialettica non dialettica beniana” appare simile all’essenza silenico-tragica dell’opera di Woody Allen dove caso e necessità rotolano e si mescolano incessantemente. Il tragico-lirico emerge dentro l’artificio barocco-teatrale ma non presenta un reale decorso né alcuna catarsi o trasfigurazione. È la musicalità delle cose l’essenza del processo dell’opera. Un altro oggetto fondamentale, portante di Hermitage è lo specchio. Uno specchio dis-individuante dove l’artefice appare come il vaso: incoronato di rose verdi azzurre e lo stesso specchio mostra la sua crudele natura amplessiva-sacrificale nella sua incoronazione floreale eliogabalesca. Uno specchio che lascia solo la voce e una voce che rifiuta “mamma-storia”, paradosso stupido e cieco. Eliogabalo sintetizza la poetica beniana non solo e non tanto per i suoi eccessi e la sua decadente raffinatezza ma ancor di più per le sue scelte a-simboliche: sposa la Vestale e tocca il Palladio. In un colpo solo cioè recide il rito e il simbolico per letteralizzare la carne, riportare al presente del corpo il mitico. L’artefice svuota le acque della vasca, svuotando la saturazione discorsiva e lo stereotipo amplessivo. Il corpo soffre perché non vuole che l’arte decada in spettacolo escreto. Che resti dentro la voce, dentro gli oggetti, dentro i corpi. L’artefice è sì imperatore ma imperatore-fanciullo, senza storia, senza proiezioni né bisogni di riconoscimenti e completamenti. L’intensificazione situazionistica raggiunge il massimo nella scena finale dell’auto-libagione dove Carmelo-Vaso si innaffia da solo. Un trionfo imperiale colto nel suo innato disfarsi. Il calice recita. Il corpo segue, ascolta.