HERMITAGE
di
Giacomo Maria Prati
Io ascolto le cose
sussurrate dagli oggetti
sono come un rabdomante.
E. Coccia
e A. Michele, La vita delle forme
Hermitage sorge apparentemente quale prova
di luci e di scena per la lavorazione di: “Nostra Signora dei Turchi” ma sembra
evidente che si tratti di un’opera che sta in piedi da sola, pienamente
beniana. Anzi, in soli 24 minuti Carmelo Bene ci lascia una vera sua “opera”
cioè una creazione autoriale densa di quel senso di autosufficienza processuale
e di verticalità olica proprio del concetto di “opera artistica”. Un’opera
massimamente musicale, poietica, comico-drammatica dove si mette in scena
situazionisticamente tutto il dramma
di Narciso. Il suo dramma dentro la commedia estetico-esistenziale giocato
attraverso l’eloquenza situazionistica degli oggetti e della loro potenza
scenica. Sono gli oggetti i protagonisti di Hermitage: il letto, il vaso di
rose verdeazzurre, le porte riflettenti l’immagine umana come uno spettro, lo
specchio coronato di fiori, la sedia-trono barocca, la vasca da bagno, il
calice di vino. Oggetti che parlano, che sussurrano; oggetti musicali,
teatrali; oggetti che cantano. All’inizio del cortometraggio ecco irradiarsi una
delle magistrali inversioni narrative tipiche del genio di Carmelo Bene: il
vaso di rose verdi azzurre viene intronato sul letto da Carmelo al posto del
suo corpo e lui si pone sopra il tavolino dove sedeva il vaso. Una scelta
chirurgica da teurgia teatrale, magica, immanente che genera l’immediata
conseguenza di un corpo umano che assume carismi statuari, oggettuali, da “oggetto
di scena” e di un vaso con rose che inizia a recitare in modo umanizzante,
ipersensibilizzato nella sua già intrinseca liricità.
Questo giocare con la
potenza scenico-situazionistica degli oggetti e un giocarci a-semantico e
pre-semantico rispetto all’approccio concettuale-ermeneutico appare un tutt’uno
in Hermitage con l’uso iper-lirico della musica del Don Carlos di Verdi. Un uso
tanto immersivo quanto discontinuo. La musica si attiva quando il vaso viene
toccato o inquadrato. Altrimenti lo sguardo umano si mostra silente e sfocante.
L’immediatezza implicitamente narrativa degli oggetti non si distingue dalla
potenza onirico-magica della musica lirica. Un uso de-contestualizzante e
spiazzante della musica operistica quale carisma costante della poetica e
dell’opera beniana ci insegna uno dei valori paradossali della sua etica: la
realtà-verità della capacità illusionistica dell’arte. Questo ci rimane per
poter reggere il disagio cronico dell’esserci, il vuoto dell’ego: l’elevazione
trasfigurante del teatro-musica del puro artificio. Hermitage inizia al buio
con Carmelo che non recita ma si aggira dentro l’ombra di un rumore di fondo
dato dallo sfrigolare di una radio incerta e in bilico fra frequenze instabili.
L’effetto narrativo asemantico è retto e scandito dalla musica e dalla logica
posizionale degli oggetti. Il suo corpo è oggetto fra oggetti. Ob-jectum: gettato di traverso dentro
l’assurdo dell’esserci.
Come in Capricci il suo corpo suda, si contorce, geme
nel tentativo di non lasciar sfuggire da sé l’arte quale proiezione
illusionistica. Gli oggetti della stanza d’albergo appaiono iper-colorati,
traslucidi, fosforescenti, vibratili, barocchi quanto rigorosi. Possiedono cioè
tutte quelle virtù che a costo di grande fatica l’artista-artefice riesce ad
assimilare nel suo “farsi opera” e nel suo “darsi all’opera”. L’ascolto di
brani di Genesi ci presenta il rumore di fondo del mondo, il suo continuum dato
dal principio dell’attesa e del sacrificio. Scenario che già gli oggetti hanno
superato e risolto e l’artefice no. Le porte sono caproniane: intransitive. Si
chiudono e riflettono spettri. Gli oggetti sembrano venire dalla musica e la
musica è luce e spazio totale. L’artefice soffre e suda nel corpo, immerso
nell’ascolto e nella necessità artistica di comunicare la propria assenza. La
lettera parla di un ritorno possibile superata memoria e identità ma la visione
di Lei, novella Madonna Nera teatrale, è una visione vera e in quanto tale non
può che darsi muta, silente. Una visione reciproca dove colei che appare si
stupisce nel guardare colui a cui appare. L’artificio è una grande scatola di
fiammiferi con bastoncini lunghissimi. La fiamma è dentro l’immagine opaca,
sfocata, solo umana. Il corpo-oggetto di Carmelo appare colto in formazione:
continua a vestirsi, denudarsi, rivestirsi, coprirsi la faccia con creta
bianca, come a divenire spettro esangue. La lettera viene posta sotto una porta
chiusa da cui poi appena dopo si entra e la lettera viene cambiata nel finale
come se l’artefice ne fosse il destinatario. Come Stirner Carmelo recide con un
rasoio occamiano ogni mediazione e proiezione egoica. L’arte è sogno-artificio
immediato e intransitivo, come la musica, come gli oggetti.
Hermitage è abitare una sfinge. In
questo la “dialettica non dialettica beniana” appare simile all’essenza silenico-tragica
dell’opera di Woody Allen dove caso e necessità rotolano e si mescolano incessantemente.
Il tragico-lirico emerge dentro l’artificio barocco-teatrale ma non presenta un
reale decorso né alcuna catarsi o trasfigurazione. È la musicalità delle cose
l’essenza del processo dell’opera. Un altro oggetto fondamentale, portante di
Hermitage è lo specchio. Uno specchio dis-individuante dove l’artefice appare
come il vaso: incoronato di rose verdi azzurre e lo stesso specchio mostra la
sua crudele natura amplessiva-sacrificale nella sua incoronazione floreale
eliogabalesca. Uno specchio che lascia solo la voce e una voce che rifiuta
“mamma-storia”, paradosso stupido e cieco. Eliogabalo sintetizza la poetica
beniana non solo e non tanto per i suoi eccessi e la sua decadente raffinatezza
ma ancor di più per le sue scelte a-simboliche: sposa la Vestale e tocca il
Palladio. In un colpo solo cioè recide il rito e il simbolico per
letteralizzare la carne, riportare al presente del corpo il mitico. L’artefice
svuota le acque della vasca, svuotando la saturazione discorsiva e lo
stereotipo amplessivo. Il corpo soffre perché non vuole che l’arte decada in
spettacolo escreto. Che resti dentro la voce, dentro gli oggetti, dentro i
corpi. L’artefice è sì imperatore ma imperatore-fanciullo, senza storia, senza
proiezioni né bisogni di riconoscimenti e completamenti. L’intensificazione
situazionistica raggiunge il massimo nella scena finale dell’auto-libagione
dove Carmelo-Vaso si innaffia da solo. Un trionfo imperiale colto nel suo
innato disfarsi. Il calice recita. Il corpo segue, ascolta.
Hermitage sorge apparentemente quale prova
di luci e di scena per la lavorazione di: “Nostra Signora dei Turchi” ma sembra
evidente che si tratti di un’opera che sta in piedi da sola, pienamente
beniana. Anzi, in soli 24 minuti Carmelo Bene ci lascia una vera sua “opera”
cioè una creazione autoriale densa di quel senso di autosufficienza processuale
e di verticalità olica proprio del concetto di “opera artistica”. Un’opera
massimamente musicale, poietica, comico-drammatica dove si mette in scena
situazionisticamente tutto il dramma
di Narciso. Il suo dramma dentro la commedia estetico-esistenziale giocato
attraverso l’eloquenza situazionistica degli oggetti e della loro potenza
scenica. Sono gli oggetti i protagonisti di Hermitage: il letto, il vaso di
rose verdeazzurre, le porte riflettenti l’immagine umana come uno spettro, lo
specchio coronato di fiori, la sedia-trono barocca, la vasca da bagno, il
calice di vino. Oggetti che parlano, che sussurrano; oggetti musicali,
teatrali; oggetti che cantano. All’inizio del cortometraggio ecco irradiarsi una
delle magistrali inversioni narrative tipiche del genio di Carmelo Bene: il
vaso di rose verdi azzurre viene intronato sul letto da Carmelo al posto del
suo corpo e lui si pone sopra il tavolino dove sedeva il vaso. Una scelta
chirurgica da teurgia teatrale, magica, immanente che genera l’immediata
conseguenza di un corpo umano che assume carismi statuari, oggettuali, da “oggetto
di scena” e di un vaso con rose che inizia a recitare in modo umanizzante,
ipersensibilizzato nella sua già intrinseca liricità.
Questo giocare con la
potenza scenico-situazionistica degli oggetti e un giocarci a-semantico e
pre-semantico rispetto all’approccio concettuale-ermeneutico appare un tutt’uno
in Hermitage con l’uso iper-lirico della musica del Don Carlos di Verdi. Un uso
tanto immersivo quanto discontinuo. La musica si attiva quando il vaso viene
toccato o inquadrato. Altrimenti lo sguardo umano si mostra silente e sfocante.
L’immediatezza implicitamente narrativa degli oggetti non si distingue dalla
potenza onirico-magica della musica lirica. Un uso de-contestualizzante e
spiazzante della musica operistica quale carisma costante della poetica e
dell’opera beniana ci insegna uno dei valori paradossali della sua etica: la
realtà-verità della capacità illusionistica dell’arte. Questo ci rimane per
poter reggere il disagio cronico dell’esserci, il vuoto dell’ego: l’elevazione
trasfigurante del teatro-musica del puro artificio. Hermitage inizia al buio
con Carmelo che non recita ma si aggira dentro l’ombra di un rumore di fondo
dato dallo sfrigolare di una radio incerta e in bilico fra frequenze instabili.
L’effetto narrativo asemantico è retto e scandito dalla musica e dalla logica
posizionale degli oggetti. Il suo corpo è oggetto fra oggetti. Ob-jectum: gettato di traverso dentro
l’assurdo dell’esserci.
Come in Capricci il suo corpo suda, si contorce, geme
nel tentativo di non lasciar sfuggire da sé l’arte quale proiezione
illusionistica. Gli oggetti della stanza d’albergo appaiono iper-colorati,
traslucidi, fosforescenti, vibratili, barocchi quanto rigorosi. Possiedono cioè
tutte quelle virtù che a costo di grande fatica l’artista-artefice riesce ad
assimilare nel suo “farsi opera” e nel suo “darsi all’opera”. L’ascolto di
brani di Genesi ci presenta il rumore di fondo del mondo, il suo continuum dato
dal principio dell’attesa e del sacrificio. Scenario che già gli oggetti hanno
superato e risolto e l’artefice no. Le porte sono caproniane: intransitive. Si
chiudono e riflettono spettri. Gli oggetti sembrano venire dalla musica e la
musica è luce e spazio totale. L’artefice soffre e suda nel corpo, immerso
nell’ascolto e nella necessità artistica di comunicare la propria assenza. La
lettera parla di un ritorno possibile superata memoria e identità ma la visione
di Lei, novella Madonna Nera teatrale, è una visione vera e in quanto tale non
può che darsi muta, silente. Una visione reciproca dove colei che appare si
stupisce nel guardare colui a cui appare. L’artificio è una grande scatola di
fiammiferi con bastoncini lunghissimi. La fiamma è dentro l’immagine opaca,
sfocata, solo umana. Il corpo-oggetto di Carmelo appare colto in formazione:
continua a vestirsi, denudarsi, rivestirsi, coprirsi la faccia con creta
bianca, come a divenire spettro esangue. La lettera viene posta sotto una porta
chiusa da cui poi appena dopo si entra e la lettera viene cambiata nel finale
come se l’artefice ne fosse il destinatario. Come Stirner Carmelo recide con un
rasoio occamiano ogni mediazione e proiezione egoica. L’arte è sogno-artificio
immediato e intransitivo, come la musica, come gli oggetti.
Hermitage è abitare una sfinge. In
questo la “dialettica non dialettica beniana” appare simile all’essenza silenico-tragica
dell’opera di Woody Allen dove caso e necessità rotolano e si mescolano incessantemente.
Il tragico-lirico emerge dentro l’artificio barocco-teatrale ma non presenta un
reale decorso né alcuna catarsi o trasfigurazione. È la musicalità delle cose
l’essenza del processo dell’opera. Un altro oggetto fondamentale, portante di
Hermitage è lo specchio. Uno specchio dis-individuante dove l’artefice appare
come il vaso: incoronato di rose verdi azzurre e lo stesso specchio mostra la
sua crudele natura amplessiva-sacrificale nella sua incoronazione floreale
eliogabalesca. Uno specchio che lascia solo la voce e una voce che rifiuta
“mamma-storia”, paradosso stupido e cieco. Eliogabalo sintetizza la poetica
beniana non solo e non tanto per i suoi eccessi e la sua decadente raffinatezza
ma ancor di più per le sue scelte a-simboliche: sposa la Vestale e tocca il
Palladio. In un colpo solo cioè recide il rito e il simbolico per
letteralizzare la carne, riportare al presente del corpo il mitico. L’artefice
svuota le acque della vasca, svuotando la saturazione discorsiva e lo
stereotipo amplessivo. Il corpo soffre perché non vuole che l’arte decada in
spettacolo escreto. Che resti dentro la voce, dentro gli oggetti, dentro i
corpi. L’artefice è sì imperatore ma imperatore-fanciullo, senza storia, senza
proiezioni né bisogni di riconoscimenti e completamenti. L’intensificazione
situazionistica raggiunge il massimo nella scena finale dell’auto-libagione
dove Carmelo-Vaso si innaffia da solo. Un trionfo imperiale colto nel suo
innato disfarsi. Il calice recita. Il corpo segue, ascolta.