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lunedì 5 agosto 2024

FIESTA
di Angelo Gaccione


Ernest Hemingway

La prima edizione del fortunato romanzo di Ernest Hemingway non è quella einaudiana del 1946. Ce n’è un’altra precedente e risale a due anni prima, al 1944, praticamente stampata in piena guerra, ed è quella dalla sobria ed elegante copertina dal vago colore rosso pubblicata con il titolo: E il sole sorge ancora dalle edizioni Jandi Sapi (Milano-Roma) e tradotta da Rosetta Dandolo. Oggi quella edizione si può trovare in Rete anche a trecento euro. Disperavo di recuperare la mia di copia, considerato lo stato in cui versano da tempo i miei libri in “Carboneria” e non essendo divisi né per genere, né per autore. La disposizione arbitraria, la quantità esagerata e il “contenitore” caotico, non mi facevano nutrire alcuna fiducia. E invece, colpo di scena, il libro era in casa, in uno scaffale dietro le mie spalle e mi aspettava. L’ho individuato subito: era in una busta di cellofan (ho questa puerile illusione di proteggerne la vita dalla polvere e dagli acari) in compagnia del secondo volume di Resurrezione di Tolstòj (Fratelli Treves Editori 1938) e del romanzo di Arpino Passo d’addio (Einaudi 2005). La compagnia è dovuta più o meno alla misura, ma non deve essersi trovato male Hemingway perché Resurrezione è un capolavoro e il libro di Arpino apre con una frase perentoria e fulminante: “La vita o è stile o è errore”.



Il libro di Emingway è fondamentalmente stile. Sto parlando di Il sole sorgerà ancora, più noto in Italia con il titolo di Fiesta. L’edizione in mio possesso è un Oscar Mondadori del 1966 e costava 350 lire; sotto la firma con il mio nome apposta a penna compare una data: Milano 1980. Da chi lo avrò comprato? Quanti soldi avrà voluto il venditore? Qua e là le pagine portano le mie tipiche sottolineature a matita rossa. Mai avrei osato usare una biro, come è stato fatto dal (primo?) possessore al rigo 17 di pagina 127, che deve avermi stizzito quando lo lessi 44 anni fa, e che mi procura lo stesso fastidio a distanza di tanto tempo.



Forse allora non ci badai, ma ora mi chiedo perché quel titolo da fotoromanzo; perché Hemingway non abbia tenuto Fiesta, parola che compare di continuo e che alla fiesta di San Firmino si ispira. Ho letto da qualche parte che voleva evitare un titolo straniero, lui americano. Certo in inglese non avrebbe reso bene, e tanto meno in francese. Pare che il libro lo avesse concepito e in parte scritto a Parigi nel 1925, ma sarà pubblicato a New York nel 1926. Fiesta è un titolo secco e i lettori di lingua inglese si sarebbero facilmente abituati. Un primo viaggio in Spagna per prendere dimestichezza con le corride, Hemingway lo aveva fatto nell’estate del 1923. Era stato a Siviglia ed aveva potuto vedere sia lo spostamento a piedi dei tori (gli ancierros), sia le novilladas con giovani torelli, e aveva fatto conoscenza con diversi toreri. Quando vi tornò l’estate successiva, nel 1924, conosceva già l’atmosfera, il rito, l’esaltato delirio, la spietata ferocia delle corride, il clima di festa. Certo, Pamplona era un universo tutto suo, e il capoluogo della Navarra con la festa dedicata al patrono San Firmino e quella folle idea di liberare micidiali tori per le vie della città, non aveva eguali. Uno scrittore vitalistico come lui a tutto questo non poteva non essere sensibile. In fondo, se ci si riflette, ci vuole fegato per farsi rincorrere da una mandria di torri inferociti; ci vuole una discreta dose di irresponsabilità e di spavalderia per non avere remore davanti ai feriti, alla morte, al sangue che si sparge per le strade e nell’arena. In piccolo, la simulazione di un conflitto bellico.  



Sono sicuro che già dal primo viaggio in terra spagnola, egli accarezzava l’idea di scrivere di tori, toreri e corride. E che quelli che furono chiamati scrittori della “generazione perduta”, non avessero bisogno di spinte particolari per immergersi in contesti estremi e incamminarsi lungo una china fatta di eccessi di ogni tipo. Parigi era già per lui e per i suoi amici terra di eccessi; e lo era per le generazioni di artisti e letterati emigrati provenienti dai luoghi più diversi, non solo americani. Terra di sesso, bevute, risse, ma anche di creatività, relazioni intellettuali, passioni, solidarietà e così via. E lo sarà la Spagna raccontata nel romanzo Fiesta nello svolgersi dell’arco delle giornate di San Firmino. Il narratore-giornalista di Fiesta, Jake Barnes, è scopertamente l’alter ego di Hemingway. Gli amici che partiranno con lui per Pamplona, o che là lo raggiungeranno (a cominciare dallo scrittore ebreo newyorkese Robert Cohn, da Bill Gorton, dallo scozzese Mike Campbell e soprattutto da Lady Brett Ashley), hanno motivi diversi: per pescare, prendere parte alla fiesta, assistere alle prodezze dei toreador, entrare nelle grazie della donna del gruppo: la disinvolta e dalla psicologia contorta Brett. Brett è incapace di relazioni durature, ma Jake le dimostrerà una devozione sconfinata, una fedeltà di sentimenti e un sostegno che non verranno mai meno. A parte Cohn, il resto del gruppo ci dà dentro di brutto con le bevute, e le sbronze continue servono ad impastare disagio esistenziale, tenere a freno illusioni, noia, vuoto, fallimenti. Quanto avviene non ha nulla di memorabile e ciò che si fissa nella mente del lettore, sono i dialoghi secchi, brevi, spogli, essenziali. Uno stile narrativo che ha attirato subito l’attenzione sul libro e sul suo autore. Quanto alla corrida e alle imprese del giovanissimo matador Pedro Romero, Hemingway le descrive nella loro crudezza e nella loro ripetizione. Nel modo cruento come è sempre avvenuto dentro l’anello dell’anfiteatro, come si ammazza un toro nella plaza de toros per saziare il bisogno di sangue di una folla eccitata: “Il toro tentò di avanzare, le gambe cominciarono a piegarglisi, barcollò, esitò, poi si inginocchiò e il fratello maggiore di Romero da dietro si chinò su di lui ed infilò un corto coltello nel collo del toro…”.



Quando decisi di andarlo a vedere nell’arena di Barcellona tanti anni fa, uno di questi indegni spettacoli, già mi erano invisi come mi erano invisi il Palio di Siena, i duelli di galli e di cani aizzati da bestie chiamati uomini, e altri consimili “divertimenti” nati per il trastullo di sadici esseri privi di pietà. Volevo scriverne anch’io e così avvenne nell’ottobre del 2001 con il racconto “Pomeriggio di sangre”, confluito poi nella raccolta di racconti La striscia di cuoio nel 2005. Quasi non badai a quello che avveniva nell’arena; in quella lotta ìmpari nella quale i picadores avevano abbondantemente massacrato il toro per poi consegnarlo al torero, non c’era equilibrio: in un confronto forza contro forza l’uomo non avrebbe potuto prevalere. Mi concentrai, invece, su quello che avveniva sugli spalti: su quella folla variopinta fatta di gente normale e pacifica che improvvisamente si era trasformata in un’orda assetata di sangue, ed aveva levato il suo grido di morte contro il toro: matalo! matalo! come era certamente avvenuto dentro il circo dei gladiatori dell’antica Roma. Era la sua psicologia che mi catturava, il suo pollice verso, e mi confermai nella convinzione che la fiesta raccontata da Hemingway non aveva nulla di epico, nulla di divertente. Che la disinvoltura con cui si mettevano in pericolo i cavalli lanciati dai picadores contro i tori, il loro possibile sventramento; i tori condannati a sicura morte dopo averli aizzati, affannati, lacerati; la bava che gli colava dalla bocca, lo sgozzamento, il taglio delle orecchie, non avevano nulla di gioioso. Erano solo pratiche barbariche da cancellare.