I giorni veridi Giovanna Zangrandi esce nel 1963, pubblicato da Mondadori. Nell’Italia del boom economico, nessuno ha
voglia di ricordare gli anni nei quali si è concluso il ventennio fascista e la
sua tragica appendice costituita dalla Repubblica Sociale Italiana. Si pensa
alla guerra partigiana come a una cosa lontana. Non a caso nella lunga
introduzione, mai inserita per intero né nell’edizione Mondadori né nelle
successive, Zangrandi riporta le parole di un’amica, moglie di un comandante
partigiano: non ti pare che quel tempo è
come fuori di noi, da queste usuali realtà d’oggi? Eppure,
in quella Italia che Zangrandi definisce da
birignao a rima di luna, dove non si sa più cosa è la fame data dalla guerra,
dove chi fa lunghe sieste felici ignora la realtà, escono quasi in
contemporanea tre dei libri migliori sulla Resistenza: Una questione privata (postumo) di Beppe Fenoglio (aprile 1963);
I piccoli maestri di
Luigi Meneghello (1964), e per l’appunto I
giorni veri di Giovanna Zangrandi (1963). A
chi le chiedeva perché avesse aspettato tanto a scrivere della sua
Resistenza vissuta sulle Dolomiti cadorine e ampezzane, Zangrandi rispondeva
che era stato necessario lasciar decantare gli avvenimenti, e solo il tempo
poteva farlo. La realtà dei fatti doveva emergere senza gli orpelli della
retorica o della mistificazione strumentale sullo sfondo di un temps perdu romanzesco, raccontando quello che fu la Resistenza per noi umili
gregari, garibaldini senza gradi, staffette o portatori che non sapevamo le
grandi azioni e che anche oggi non sapremmo scrivere la storia organica dei
Comandi centrali o dei retroscena. Il titolo stesso echeggia questa
necessità di verità, che non si limita alla veridicità di quanto raccontato, ma
vuole esprimere una
sorta di verità morale, un valore incontestabile, inerente alle esperienze e
agli eventi raccontati (Penelope Morris).
la copertina del libro
Il libro è diviso in tre parti, le prime due
ambientate a Cortina, la seconda sulle montagne del Cadore e dell’Ampezzo.
L’esordio è Quasi un prologo, in cui
è raccontato un antefatto che fissa all’autunno del 1942 il momento in cui, in
una conversazione con un collega in partenza per il fronte russo, la futura
scrittrice, all’epoca Alma Bevilacqua, che di lì a poco assumerà il nome di battaglia
di Anna, prende coscienza della sconfinata e, a posteriori
irresponsabile, ignoranza politica in cui è cresciuta. Ricorda e confessa: sapevo scrivere delle equazioni impossibili
e facevo la tesi in chimica atomica, ma andavo in cucina da mia madre a
domandarle cosa diavolo fosse la democrazia che usava lei quando era ragazza.
E alla domanda del collega su cosa le avesse risposto la madre, replica: rise amaro, ci chiamò dei cuccioli montati a
fare i lupi, disse delle cose che non mi piacevano. Così andai al cinema per
non pensarci, ecco. La Parte
prima copre i mesi dal settembre del ‘43 fino all’estate del ‘44. Ancora in
attività come insegnante sia a Cortina sia Pieve, Anna porta messaggi di qua
e di là del confine tra Alpenvorland e RSI, tornato a quello antecedente la
Grande Guerra; collabora con la rete di soccorso ai soldati sbandati, procura
armi, ma si rende conto della necessità che le azioni rientrino in un’azione
più vasta e coordinata. Così, cerca un contatto con il comandante della Brigata
Calvi, anche lui ex insegnante a Pieve di Cadore, Garbin (Sandro Gallo). Gli
scrive una lettera offrendosi come staffetta e, nel momento in cui Garbin
accetta, ha inizio la sua piena collaborazione con la Resistenza, finché in modo
allusivo, ma sufficientemente chiaro, un suo inquilino fascista le consiglia di
fare una gita di molti giorni: lei che in
montagna è di casa, una gita da sola, direi io. A questo primo avvertimento
ne segue un secondo, più esplicito, da parte di un partigiano di Brunico che,
mostrandole la schiena con i segni delle torture subite, le dice: è stato per farmi dire chi è la ragazza che
fa il collegamento sul treno, io ho negato di conoscerla. Ma sanno già che è
lei. Scappi. E Anna scappa da Cortina quella sera stessa. La sua fuga
notturna attraverso le montagne è la prima, bellissima sia nelle descrizioni
della natura che nei contenuti, anticipazione di quelle peregrinazioni continue
che saranno la sua vita nei mesi successivi, fino alla Liberazione.
Partigiani in montagna
La Parte
seconda è il racconto dei diciotto mesi di vita alla macchia. Inizia in
agosto con la salita a Forcella piccola e termina il 2 maggio a Pieve di Cadore,
con la partenza definitiva dell’esercito tedesco. Questa parte è il nucleo centrale
del libro. Oltre al racconto di azioni militari, trasferimenti in montagna,
rastrellamenti, impiccagioni di prigionieri, insidiose discese in valle alla
ricerca di cibo, l’io narrante, Anna, lo anima di numerose figure, persone e
non personaggi, mettendo al centro di tutto un’umanità vera, coraggiosa o
pavida, leale o traditrice, colta o ignorante, generosa o meschina. La
compongono i compagni della Brigata Calvi, tra i quali spiccano i due
comandanti, Garbin, l’intellettuale che dà un valore preciso alla sua
militanza, proiettandola in un “dopo” dai confini incerti - da lui Anna apprende
la consapevolezza che dopo bisognerà riprendere
a parlare tra uomini di diversa lingua in questa scassata Europa, in questa
impazzita terra - e l’amato Tigre, coraggioso e generoso fino all’incoscienza, che sarà causa della
sua morte a guerra praticamente conclusa, il 26 aprile del ’45. Grande
spazio è dato alle donne, le scalcinate
soldatesse dei pedali della valle del Piave, e le coraggiose donne delle cucine del Cadore, che
tessono la loro rete di solidarietà da una frazione all’altra, da un fienile
isolato a un luogo pubblico in paese. Silenziose, astute, coraggiose,
infaticabili, profondamente legate alla terra, dalla quale paiono aver
assorbito i tratti di un’antica nobiltà barbarica. Narrato
in prima persona, I giorni veri è un
sapiente equilibrio tra oggettività dei fatti e soggettività di chi li
racconta, tra verità e finzione romanzesca, indispensabile per la costruzione a posteriori dei dialoghi e per
conferire alla nuda cronaca quello charme
letterario che la renda una lettura appassionante. Ed è ancora una volta Zangrandi stessa a
spiegare come, a distanza di anni, potesse riferire gli avvenimenti con tanta
precisione: in
quel tempo, quando potevo, annotavo su certi quaderni cose accadute, incontri,
impressioni. Quei quaderni, dopo alcune peripezie avventurose, arrivarono alla
Memora (luogo in montagna dove Anna passò l’inverno del
’44 all’addiaccio) e rimasero a lungo. Li
recuperai a guerra finita. Se
si pensa alla scrittura molto originale de I giorni veri, vengono in mente le parole con cui il direttore
della Fondazione Querini Stampalia, Giuseppe Mazzariol, descrive la scultura di
Augusto Murer, La partigiana, a Venezia
davanti ai giardini della Biennale: è da
lodare la verità umana, prima ancora che formale… un’alta, scarna, diretta
drammaticità. Tre aggettivi che si attagliano perfettamente alla prosa di
Giovanna Zangrandi: alta, scarna, direttamente drammatica.