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lunedì 12 agosto 2024

I GIORNI VERI
di Anna Lina Molteni
 
Giovanna Zangrandi
 
I giorni veri di Giovanna Zangrandi esce nel 1963, pubblicato da Mondadori. Nell’Italia del boom economico, nessuno ha voglia di ricordare gli anni nei quali si è concluso il ventennio fascista e la sua tragica appendice costituita dalla Repubblica Sociale Italiana. Si pensa alla guerra partigiana come a una cosa lontana. Non a caso nella lunga introduzione, mai inserita per intero né nell’edizione Mondadori né nelle successive, Zangrandi riporta le parole di un’amica, moglie di un comandante partigiano: non ti pare che quel tempo è come fuori di noi, da queste usuali realtà d’oggi?
Eppure, in quella Italia che Zangrandi definisce da birignao a rima di luna, dove non si sa più cosa è la fame data dalla guerra, dove chi fa lunghe sieste felici ignora la realtà, escono quasi in contemporanea tre dei libri migliori sulla Resistenza: Una questione privata (postumo) di Beppe Fenoglio (aprile 1963); I piccoli maestri di Luigi Meneghello (1964), e per l’appunto I giorni veri di Giovanna Zangrandi (1963).
A chi le chiedeva perché avesse aspettato tanto a scrivere della sua Resistenza vissuta sulle Dolomiti cadorine e ampezzane, Zangrandi rispondeva che era stato necessario lasciar decantare gli avvenimenti, e solo il tempo poteva farlo. La realtà dei fatti doveva emergere senza gli orpelli della retorica o della mistificazione strumentale sullo sfondo di un temps perdu romanzesco, raccontando quello che fu la Resistenza per noi umili gregari, garibaldini senza gradi, staffette o portatori che non sapevamo le grandi azioni e che anche oggi non sapremmo scrivere la storia organica dei Comandi centrali o dei retroscena. Il titolo stesso echeggia questa necessità di verità, che non si limita alla veridicità di quanto raccontato, ma vuole esprimere una sorta di verità morale, un valore incontestabile, inerente alle esperienze e agli eventi raccontati (Penelope Morris).


la copertina del libro

Il libro è diviso in tre parti, le prime due ambientate a Cortina, la seconda sulle montagne del Cadore e dell’Ampezzo. L’esordio è Quasi un prologo, in cui è raccontato un antefatto che fissa all’autunno del 1942 il momento in cui, in una conversazione con un collega in partenza per il fronte russo, la futura scrittrice, all’epoca Alma Bevilacqua, che di lì a poco assumerà il nome di battaglia di Anna, prende coscienza della sconfinata e, a posteriori irresponsabile, ignoranza politica in cui è cresciuta. Ricorda e confessa: sapevo scrivere delle equazioni impossibili e facevo la tesi in chimica atomica, ma andavo in cucina da mia madre a domandarle cosa diavolo fosse la democrazia che usava lei quando era ragazza. E alla domanda del collega su cosa le avesse risposto la madre, replica: rise amaro, ci chiamò dei cuccioli montati a fare i lupi, disse delle cose che non mi piacevano. Così andai al cinema per non pensarci, ecco.
La Parte prima copre i mesi dal settembre del ‘43 fino all’estate del ‘44. Ancora in attività come insegnante sia a Cortina sia Pieve, Anna porta messaggi di qua e di là del confine tra Alpenvorland e RSI, tornato a quello antecedente la Grande Guerra; collabora con la rete di soccorso ai soldati sbandati, procura armi, ma si rende conto della necessità che le azioni rientrino in un’azione più vasta e coordinata. Così, cerca un contatto con il comandante della Brigata Calvi, anche lui ex insegnante a Pieve di Cadore, Garbin (Sandro Gallo). Gli scrive una lettera offrendosi come staffetta e, nel momento in cui Garbin accetta, ha inizio la sua piena collaborazione con la Resistenza, finché in modo allusivo, ma sufficientemente chiaro, un suo inquilino fascista le consiglia di fare una gita di molti giorni: lei che in montagna è di casa, una gita da sola, direi io. A questo primo avvertimento ne segue un secondo, più esplicito, da parte di un partigiano di Brunico che, mostrandole la schiena con i segni delle torture subite, le dice: è stato per farmi dire chi è la ragazza che fa il collegamento sul treno, io ho negato di conoscerla. Ma sanno già che è lei. Scappi. E Anna scappa da Cortina quella sera stessa. La sua fuga notturna attraverso le montagne è la prima, bellissima sia nelle descrizioni della natura che nei contenuti, anticipazione di quelle peregrinazioni continue che saranno la sua vita nei mesi successivi, fino alla Liberazione.


Partigiani in montagna

La Parte seconda è il racconto dei diciotto mesi di vita alla macchia. Inizia in agosto con la salita a Forcella piccola e termina il 2 maggio a Pieve di Cadore, con la partenza definitiva dell’esercito tedesco. Questa parte è il nucleo centrale del libro. Oltre al racconto di azioni militari, trasferimenti in montagna, rastrellamenti, impiccagioni di prigionieri, insidiose discese in valle alla ricerca di cibo, l’io narrante, Anna, lo anima di numerose figure, persone e non personaggi, mettendo al centro di tutto un’umanità vera, coraggiosa o pavida, leale o traditrice, colta o ignorante, generosa o meschina. La compongono i compagni della Brigata Calvi, tra i quali spiccano i due comandanti, Garbin, l’intellettuale che dà un valore preciso alla sua militanza, proiettandola in un “dopo” dai confini incerti - da lui Anna apprende la consapevolezza che dopo bisognerà riprendere a parlare tra uomini di diversa lingua in questa scassata Europa, in questa impazzita terra - e l’amato Tigre, coraggioso e generoso fino all’incoscienza, che sarà causa della sua morte a guerra praticamente conclusa, il 26 aprile del ’45.
Grande spazio è dato alle donne, le scalcinate soldatesse dei pedali della valle del Piave, e le coraggiose donne delle cucine del Cadore, che tessono la loro rete di solidarietà da una frazione all’altra, da un fienile isolato a un luogo pubblico in paese. Silenziose, astute, coraggiose, infaticabili, profondamente legate alla terra, dalla quale paiono aver assorbito i tratti di un’antica nobiltà barbarica.
Narrato in prima persona, I giorni veri è un sapiente equilibrio tra oggettività dei fatti e soggettività di chi li racconta, tra verità e finzione romanzesca, indispensabile per la costruzione a posteriori dei dialoghi e per conferire alla nuda cronaca quello charme letterario che la renda una lettura appassionante. Ed è ancora una volta Zangrandi stessa a spiegare come, a distanza di anni, potesse riferire gli avvenimenti con tanta precisione: in quel tempo, quando potevo, annotavo su certi quaderni cose accadute, incontri, impressioni. Quei quaderni, dopo alcune peripezie avventurose, arrivarono alla Memora (luogo in montagna dove Anna passò l’inverno del ’44 all’addiaccio) e rimasero a lungo. Li recuperai a guerra finita.
Se si pensa alla scrittura molto originale de I giorni veri, vengono in mente le parole con cui il direttore della Fondazione Querini Stampalia, Giuseppe Mazzariol, descrive la scultura di Augusto Murer, La partigiana, a Venezia davanti ai giardini della Biennale: è da lodare la verità umana, prima ancora che formale… un’alta, scarna, diretta drammaticità. Tre aggettivi che si attagliano perfettamente alla prosa di Giovanna Zangrandi: alta, scarna, direttamente drammatica.