LE CORTESIE DI BONVESIN DA LA RIVA di Angelo Gaccione
Un quarto
di secolo prima che il padre della lingua volgare italiana, Dante Alighieri,
nascesse, forse a Milano, forse a Legnano, vedeva la luce un’altra personalità
medievale di grande rilievo: il magister, o meglio, il doctor
gramaticae Bonvesin da la Riva. In lingua latina comporrà il De magnibusurbis Mediolani (Della grandezza della città di Milano) e in
volgare lombardo-padano le Cinquanta cortesie da tavola (De
quinquaginta curialitatibus ad mensam), che fanno di lui il letterato e
poeta più noto e significativo della cultura milanese del XIII secolo. Sono
letture per studiosi, cultori e appassionati, oggi, gli scritti di Bonvesin da la Riva. L’indicazione topografica accanto al nome di suo padre, Petrus da
Laripa (ripa in lingua latina vuol dire riva, sponda), segnalerebbe il
quartiere milanese di Porta Ticinese sui Navigli. Bonvesin in Porta Ticinese ci
aveva già abitato con la prima moglie. I documenti ne danno conto; come danno
conto di immobili acquistati al Carrobbio, parrocchia di San Vito in Porta
Ticinese, e dove ha avuto residenza assieme alla seconda moglie, almeno fino al
1313. Il testamento del 5 gennaio di quello stesso anno è eloquente in
proposito, e dal quale apprendiamo della sua deliberazione di lasciare in
eredità la casa di via San Vito ai frati della vicina contrada.
A me ha
affascinato in modo particolare il poemetto delle Cinquanta cortesie da
tavola che ho letto e gustato nella elegante edizione Meravigli,
corroborato da splendide miniature a colori di epoca medievale e che hanno come
oggetto prevalente il convivio. Scene di banchetti e riferimenti a tutto ciò
che attiene alla tavola, sono gli attori, e i prodotti sono fra i più vari:
cacciagione, pane, vino, frutta; vivande che i vivandieri hanno appena
preparato; inservienti affaccendati ad elargire le portate ai convitati, e così
via. Chi come me è appassionato di lingue dialettali ed è attento al contributo
che esse hanno dato al volgare nazionale, apprezzerà la scrittura di quello che
non a torto viene considerato il “padre della lingua lombarda”. Il poemetto è
costruito in versi e Bonvesin deve averlo composto durante la sua permanenza a
Legnano. Nella quartina che fa da introduzione alle cinquanta cortesie
(cinquanta consigli per ben comportarsi a tavola e tenere una condotta
improntata ad urbanità e decoro perché “mesura e modho dé esse in tutte le
cosse ke sia”) egli stesso ce ne informa al primo verso: “Bonvesin dra
Riva, ke sta im borgo Legnian…”. Poemetto in rima baciata rigidamente
costituito di quattro versi per ogni cortesia, e dunque, per un totale
complessivo di duecento. La traduzione delle quartine nella versione italiana
sottostante di questa edizione Meravigli, si deve alla cura puntuale e rigorosa
di Mario Cantella e di Donatella Magrassi. Ma è tempo di vederne qualcuna di
queste cortesie nella scrittura di Bonvesin per cogliere i rimandi a quella che
già è, per molti aspetti, la lingua italiana; e a quella che è diventata la
lingua milanese di oggi, sempre più a rischio estinzione. Una lingua che la
globalizzazione e il meticciato hanno avviato al suo inesorabile tramonto.
La
trentottesima cortesia è un ottimo consiglio valido ancora oggi: si sa, la
mensa non vuole pensieri (come il letto), e per goderne appieno bisogna
predisporsi al convivio con animo lieto. Anche la conversazione deve riguardare
argomenti piacevoli ed evitare qualsiasi tipo di contrasto fra i commensali.
Mangiare in allegria e tenere lontano storie tristi che non gioverebbero né
allo spirito né al corpo, è un assunto da cui non bisogna derogare. Ecco con
quali parole ce lo ricorda Bonvesin: “Non recuitar ree nove, / azò ke quilli
k’èn tego no mangian con reo core. / Tanfin ke i otri mangiano, no di’ nove
angoxose, / ma tax, on di’ parolle ke s’ian confortose. / (Non raccontare
storie tristi, / affinché gli ospiti non mangino malvolentieri. / Non incupirli
con storie angosciose, / ma taci, oppure parla di cose allegre). La
ventottesima, l’octava pos le vinge (l’ottava dopo il venti), ci mette
in guardia, nel caso ci troviamo a tavola con un grand homo (un uomo
importante), e bisogna astenersi dal mangiare mentre lui sta bevendo. Possiamo
riprendere solo quando ha finito di bere. Se invece vi capita di mangiare
presso un vescovo, non bisogna assolutamente masticare tanfin k’el beve dra
copa (finché beve dalla coppa). I vescovi, si sa, usano calici importanti,
ma è raro che ci invitino al loro desco. Io un paio di volte ho corso questo
rischio: chissà se mi sarei astenuto dal mastegar dra boca…
Di questi e
di altri utili ammaestramenti è pieno il poemetto di Bonvesin da la Riva e
riguardano l’igiene, come ad esempio il lavaggio delle mani (all’epoca si
mangiava con le mani e spesso ci si serviva da uno stesso gracilino (piatto), o
dallo stesso tagliere (talier). Porgere perciò il bicchiere (napo) col vino
evitando di toccare con il pollice l’orlo prendendolo da sotto, è indice di
civiltà e non di villania. Ma non ci si deve toccare il capo quando si è a
tavola o pulirsi i denti con le dita, infilarsele nelle orecchie, leccarsele
dopo averle affondate nella scodella (squella), evitare di far cadere saliva
sulla tavola se vieni colto da un colpo di tosse o da uno starnuto. Non fare
rumore con la bocca mentre stai usando il cucchiaio, non lasciare questo
oggetto nel tegame, non appoggiare i gomiti sulla tavola e non distendervi sopra
le braccia. Parlare piano per non disturbare gli altri, non parlare mai con la bocca
piena… Forse a noi tutto questo può apparire scontato, ma non lo è. In
ristoranti, trattorie, pizzerie e luoghi pubblici dove si consumano dei pasti,
spesso il frastuono è enorme. La buona pratica del lavaggio delle mani non è
così diffusa come si crede, prima di mettersi a tavola; e può capitare di
ritrovarsi in contesti che lo richiederebbero e non sempre il decoro da alcuni
invitati è rispettato. Ma siamo in un tempo cosiddetto casual, e si può
andare ad un funerale in pantaloncini, entrare in una chiesa e in un museo in
ciabatte, portare una bottiglia di vino ad una cena semplicemente serrandone il
collo in una mano. È semplice formalismo? Io non credo.