Un
paese-città dalla lunga storia Quando percorro viale Matteotti scendendo in direzione del centro
dal colle di San Pancrazio, il più alto dei sei che i millenni ci hanno
lasciato in eredità, magari in un’ora serotina autunnale nella quale il manto
di foglie giallastre colora strade e marciapiedi in un tripudio di festosi
mulinelli, sono preda di una felicità soffusa e gentile: tutto, nuovamente, mi
appare a fuoco, a portata di mano mentre la discesa avanza, come se certa
bellezza fosse in precedenza sfuggita improvvisamente, come se si fosse
diradata. Nei pressi dell’antica croce risalente al 1721, danneggiata e
ricostruita nel Primo Novecento, là dove la città si erge sul punto più alto
nei pressi della Pieve che affonda le radici nei secoli, imperituro segno del
Romanico puro e gentile, si perdono infatti i dettagli e in compenso è
possibile osservare buona parte della Montichiari urbanizzata, il paese
divenuto città. Nelle giornate limpide l’occhio arriva a spaziare sino al Garda
e alle Alpi, abbracciando una vasta plaga tra terra e acqua. Se lo guardo da
qui, l’antico e grosso borgo che dir potrebbesi città, appunto, è proprio un
conglomerato maestoso, una serie quasi ininterrotta di strade e di case
punteggiata qua e là da spazi verdi. Sull’altro lato del parco è il vecchio
borgo di sotto, sorto sotto le mura del castello, cuore e nucleo primigenio
dell’antica Montechiaro (uno dei numerosi toponimi succedutisi nei secoli, fino
all’attuale, definito nel 1877).
Da qui, da questo paese cresciuto
esponenzialmente nel giro di poco più di trent’anni, non me ne sono mai andato
se non per brevi periodi: come diceva Calvino, vi sono scrittori che restano
attaccati alla propria piccola patria come patelle allo scoglio, altri che girano
l’universo, come fece lui, per poi ritornare all’origine. Io, che scrittore non
sono, semmai un semplice e modesto scrivente, percepisco Montichiari col
passare del tempo come un mondo piccolo e resiliente a certe dinamiche da città
(come pure ufficialmente è, sulla carta, dal 1991) ma con l’identità ancora
borghese e spesso provinciale di un paese: vizi e virtù, insomma. E allora
scendendo verso il centro recupero alla memoria le antiche botteghe dell’ex
Piazza Garibaldi (così chiamata in onore dell’Eroe dei Due Mondi che qui, come
in millanta altre località, tenne un discorso da uno dei balconi ancora oggi
presenti) gran parte delle quali ormai scomparse o qualche figura curiosa e
simpatica che stazionava agli angoli della stessa pronta a sfoderare un sorriso
che oggi mi appare quasi come un ariostesco viaggio nella fantasia.
La città
dalle trenta chiese, ché qui la fede è cosa seria anche se la secolarizzazione
ha battuto pesantemente come ovunque, vive soprattutto nel frastuono del
mercato settimanale che occupa le due piazze, compresa quella intitolata a una
delle glorie illustri della città, l’industriale e mecenate Giovanni Treccani
degli Alfieri, quello dell’Enciclopedia Italiana e della Bibbia di Borso d’Este
acquistata e donata allo Stato Italiano e oggi custodita alla Biblioteca
Estense di Modena: ogni venerdì, da quasi 3 secoli, e ancora prima di lunedì
per millanta anni si commercia e si vende, si fanno affari e si chiacchiera, si
polemizza e ci si scambia confidenze, sorseggiando un caffè all’ombra del
campanile della Basilica Minore i cui rintocchi battono il tempo delle nascite
e delle morti, delle gioie e dei dolori.
Montibus in claris semper vivida
fides, si legge sul cartiglio dello stemma, ma non si è mai ben compreso se la
fides fosse la spiritualità o la fedeltà a Venezia, la Serenissima che dominò
per quasi quattro secoli dopo l’epoca viscontea e malatestiana, o a Brescia,
capoluogo a un passo da noi. Poco discosto dal questo “salotto buono” del
centro, lungo via Cavallotti che negli ultimi anni del fascismo rabbioso il
podestà intitolò a Italo Balbo, ecco la casa dei Pedini, anzi, di Pedini Mario,
insigne politico degli anni Settanta, fervente uomo di cultura, finissimo
intellettuale e provetto pianista il cui “Accento di paese” non è solo il
titolo di un suo libro (il mio preferito e per molti il migliore) ma anche il
senso di quella monteclarensità (l’Accademia della Crusca forse mi perdonerà questo
neologismo improbabile e improvvisato) che, ovunque la si porti, in capo al mondo
o dietro l’angolo di casa, persiste e resiste, ad onta di tutto e di tutti.
Sulla via per Brescia, a un passo dal confine con Castenedolo, si sviluppa
un’area industriale che oggi poco o nulla dice al visitatore-turista che si
trovasse per caso in loco: fino ad alcuni decenni fa, tutto qua era brughiera,
campi non coltivati, qualche cascina e l’aura di un tempo glorioso dove tra la
fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si svolsero prestigiosi
competizioni motoristiche: il Circuito Aereo Internazionale del 1909 con
l’epopea dei primi voli, alla presenza di Kafka (che vi realizzò un reportage
“in gara” con l’amico Max Brod), Toscanini, Puccini, Marconi e di un D’Annunzio
che non volle rinunciare a salire su uno di quegli improbabili mezzi volanti ante
litteram. Nel 1921 toccò al 1° Gran Premio d’Italia: i bolidi a quattro ruote
solcarono le strade tra la periferia e il centro del paese (dove i più anziani
ancora ricordano via Marconi come “via del Circuito”, con l’accento
rigorosamente sulla seconda i), prima che, l’anno successivo, Monza ci
“scippasse” fasti e gloria. Ma è ancora il borgo di sotto che mi restituisce la
bellezza che non muore, all’intero di dimore sontuose che ospitarono re e
regine, uomini d’arme e autorità religiose, dall’Istituto Mazzucchelli a
Palazzo Monti della Pieve presso il quale un giovane Napoleone I stabilì il
quartier generale in vista della fruttuosa campagna d’Italia del 1796.
Se
percorro la lunga via XXV aprile la vista del Castello Bonoris riporta
idealmente le lancette dell’orologio al Medioevo: neogotica nelle fattezze,
voluta da un conte danaroso e vanitoso, ma altresì attento alla solidarietà, la
sontuosa dimora, acquisita al Comune solo nel 1996, è teatro di eventi
ricreativi e culturali. Ma il mio è uno sguardo, come dicevo all’inizio, che
spazia sull’intero borgo e non indugia troppo, perché tante e tali sono le
meraviglie che sarebbe un peccato perdersi troppo qui o là: un tour a Teatro
Bonoris dove di anno in anno i cartelloni accolgono fior fiore di attori e musicisti
di calibro e dove un certo Celentano nel 1979 vi girò alcune scene di un film,
il possente Museo Lechi adiacente, nato per volontà di benefattori insigni
quali i conti Luigi e Piero Lechi (lontani discendenti dei generali di
Napoleone).
Qui vicino nacque Umberto Benedetti Michelangeli, direttore
d’orchestra e nipote del pianista più geniale del Novecento, Arturo, e ancora
per spostarci nello spazio e nel tempo, magari dopo una rapida sosta presso
l’antico ospedale della vecchia Porta Inferi oggi moderna biblioteca-pinacoteca,l’antichissima chiesa di Santa Cristina
altomedievale dispersa nella campagna, la scenografica collina di San Giorgio
con i resti dell’antico luogo di culto d’epoca longobarda per arrivare sino al fiume
Chiese, corso d’acqua che dal Monte Fumo attraverso 160 km si adagia lento
nell’Oglio, tra Acquanegra e Canneto concedendo lungo le sue sponde uno spazio
per ritemprarsi, magari riscoprendo tra le pagine di uno storico, il compianto
Giovanni Cigala, quanta feconda bellezza ci ha tramandato il “nostro” Nicolò
Secco d’Aragona, il genio inquieto del Rinascimento, la cui dimora avita ahimè langue desolata e abbandonata lungo via Guerzoni. Questo rapido giro per il
paese-città, lungo le strade battute dalla storia, si chiude dov’era principiato:
risalgo a passi lenti il viale che riporta alla Pieve, nell’ombrosa e solitaria
via che rammenta i caduti di questo o quel corpo d’armata, affratellati da
sacrifici spesso vani. Mi perdo in un sogno, su una delle panchine del parco:
nel tempo gentile della memoria anche l’antico tram (dei desideri?) che
tagliava in due il borgo può tornare a fare capolino, solcando in lungo e in
largo con lo sferragliare sui binari il paese che non si è mai convinto di
diventare città.