ITALO CALVINO E IL SORPASSO DEL 1976 di
Franco Astengo
Con
quasi cinquant'anni di ritardo Mondadori ha pubblicato Il sorpasso di
Italo Calvino: testo dedicato all'analisi dell'esito delle elezioni del 1976,
quelle del "bipartitismo imperfetto" (copyright Giorgio Galli) con la
DC al 38% e il PCI al 34% o giù di lì. Il testo era stato commissionato allo
scrittore cubano-sanremese da Bob Silvers della "New York Rewiew of
Books" e avrebbe dovuto rappresentare un punto di spiegazione rivolto al
pubblico americano dell'esito elettorale e della complessità (non facilmente
intellegibile negli USA) del sistema politico italiano. Silvers giudicò il
testo troppo analitico dal punto di vista tecnico e chiese a Calvino di
revisionare il testo, cosa che Calvino non fece e così quel testo è rimasto nel
cassetto fino ai nostri giorni. Sulle
colonne de ‘il Manifesto’ (inserto Alias di domenica 22 dicembre) se ne è
occupato Jacopo Parodi con una accurata recensione; era il momento del
compromesso storico e come fa notare appunto Parodi, Calvino non era più
iscritto al PCI dal 1957 (dal famoso articolo "La grande bonaccia delle
Antille" pubblicato da ‘Rinascita’ e riferito all'esito delle vicende
ungheresi del '56 sul quadro politico italiano) ma sostanzialmente aderivaalla "soluzione dialogica" di
Berlinguer nel rifiuto del governare con l'eventuale 51% di una ipotetica
alleanza a sinistra e di offrire invece un accordo di governo alla Democrazia
Cristiana (proprio il già citato "Compromesso storico"). Quella
soluzione alla fine nel suo esito concreto: governo delle astensioni, rapimento
Moro, deluse Calvino che pur esprimendo fiducia nella democrazia, nelle
elezioni del 1979 si pronunciò per la scheda bianca. Oggi Mondadori riprende
quel testo, lo pubblica con una introduzione di Sabino Cassese: una pubblicazione
che si realizza in un momento di crisi della democrazia non semplicemente a
livello italiano dove il rischio del ritorno al fascismo e alla supremazia di
minoranze aggressive appare concreto in un clima politico- culturale (e del
costume corrente) che appare, almeno in Italia, molto simile a quello della
repubblica di Weimar. Eppure vale la pena tornare su quelle lontane elezioni
del 20 giugno 1976 cercando anche di scavare maggiormente nell'analisi storica
di quanto non possa consentire la pubblicazione del testo di Calvino.
Questo
supplemento d'analisi si rende necessario al fine di riconoscere che
quell'esito determinò il primo punto della crisi di quel sistema dei partiti
che aveva retto l'Italia dalla Liberazione in avanti. Il
tema infatti non era quello che Calvino affronta del "sorpasso" ma
quello del "sistema bloccato" e del peso del confronto tra i blocchi
sul piano internazionale. Verifichiamo allora alcune cifre. In
quel 20 giugno 1976, gli aventi diritto al voto iscritti nelle liste elettorali
assommavano a 40.426.658 unità (non esisteva ancora la possibilità del voto
all'estero). I partecipanti che si recarono ai seggi furono: 37.755.090 pari al
93,39% (la percentuale dei votanti si manteneva costante al di sopra del 90% a
partire dalle elezioni per la prima legislatura il 18 aprile del 1948). I
voti ritenuti validi assommarono a: 36.707.578, con 596.541 schede bianche e
1.047.512 schede nulle. I
due più grandi partiti di massa, la DC e il PCI ottennero rispettivamente
14.209.519 voti lo scudo crociato e 12.614.650 voti i comunisti per un totale
di 26.824.169 voti pari al 73,08% sul totale dei voti validi e al 66,35% sul
totale degli aventi diritto. Se
alla DC e al PCI aggiungiamo i 3.540.309 voti totalizzati dal PSI (risultato
giudicato molto deludente che determinò un vero e proprio cataclisma
all'interno del partito con l'avvento di Craxi alla segreteria) registriamo che
i 3 grandi partiti di massa disponevano di 30.364. 478 voti pari all'82,71% dei
voti validi e al 75,11% del totale degli iscritti. Un
risultato che poteva davvero far pensare all'egemonia incontrastata di quella che
Pietro Scoppola avrebbe poi definito "La Repubblica dei Partiti". Per
arrivare a quel risultato le due formazioni maggiori si erano trovate in
situazioni completamente difformi. Il
PCI aveva conseguito un eccezionale risultato nelle amministrative del 15
giugno 1975, grazie al quale aveva esteso la propria capacità di governo locale
in situazioni nelle quali tradizionalmente si era sempre trovato in minoranza e
in particolare nelle grandi città: Torino, Roma, Napoli. Un
risultato quello del 20 giugno 1976 per il PCI frutto di un'ondata
"lunga" di forte pressione sociale per un rinnovamento del Paese che
aveva avuto al suo centro le lotte sindacali dell'autunno caldo del 1969, il
progredire dell'estensione dei diritti dei lavoratori(fino al punto unico di
scala mobile) e di quelli sociali, la grande vittoria nel referendum sul
divorzio che aveva segnato il momento fondamentale nella modernizzazione anche
culturale del Paese, il procedere di una forma di distensione nella logica dei
blocchi a livello internazionale (però in arretramento in quel giugno '76), la
sconfitta degli USA in Vietnam, la fine delle dittature fasciste nella penisola
iberica, la decolonizzazione in Africa segnata in particolare dalla liberazione
dell'Algeria. Vietnam
e Algeria: fatti che avevano fatto segnare, nelle nuove generazioni, una
crescita importante di un sentimento internazionalista.
Il
PCI era stato in grado, considerato il suo radicamento nelle fabbriche e nei
territori, di capitalizzare questo forte movimento progressista senza assumerne
l'avanguardia e riuscendo anche a marginalizzare, almeno sul piano elettorale,
il complesso dei gruppi formatisi alla sua sinistra che, in quel 20 giugno,
avevano formato il cartello elettorale di Democrazia Proletaria arrestatosi ai
555.890 voti pari all'1,5%. Una
situazione che in condizioni estreme avrebbe poi avuto conseguenze non
secondarie nella stagione del terrorismo sia al riguardo della "zona
grigia" presente nell'intellettualità e nelle fabbriche, sia dal punto di
vista della "prima linea" militante (e ancora sugli orientamenti
mobilitanti di quello che poi sarebbe stato definito "movimento del
'77"). La
DC aveva invece attraversato l'inizio degli anni'70 in una fase di declino:
aggredita a destra dal MSI (rivolta di Reggio Calabria), assunta una funzione
da "legge e ordine" dopo l'attentato di Piazza Fontana, scivolata nel
primo governo Andreotti appoggiato dal PLI, verificato l'esaurimento della
prima formula di centro sinistra (alle elezioni del 1976 si andò sulla base di
un articolo apparso sull'Avanti e firmato dal segretario socialista De Martino
nel quale si affermava come il PSI non avrebbe più partecipato a governi senza
i comunisti) la DC aveva subito una dura sconfitta nel referendum sul divorzio
nel quale si era allineata con la parte cattolica più retriva e con i
neo-fascisti. Sostituito Fanfani con Zaccagnini alla segreteria e Moro alla
presidenza, nell'occasione delle elezioni del 20 giugno la DC aveva usufruito
di importanti appoggi da destra (Montanelli "turatevi il naso e votate
DC", la "maggioranza silenziosa" di Degli Occhi e Rossi di
Montelera, Comunione e Liberazione che nel 1976 elesse il suo primo deputato
Mazzarino De Petro in Liguria) recuperando il tonfo delle amministrative
soltanto attraverso il prosciugamento degli alleati centristi e in particolare
del PLI, rientrato in parlamento per un soffio (quorum per 400 voti a Torino). Insomma:
per essere precisi nella ricostruzione, alla vigilia del 20 giugno nella DC non
appariva delineata quella linea di "terza fase" in seguito attribuita
a Moro quasi come marcia d'avvicinamento verso il PCI. Anzi,
al 20 giugno la DC era arrivata con professioni di moderatismo e parole
d'ordine anticomuniste.
Il
risultato del 20 giugno aveva così segnato quella situazione di "bipartitismo
imperfetto" coniata da Giorgio Galli: una DC di centro - destra e un PCI
egemone a sinistra, con "l'imperfetto" a significare l'impossibilità
di una alternanza. Impossibilità dovuta a un cumulo di ragioni tra le quali non
esaustiva quella riferita alla situazione internazionale e alla logica dei
blocchi perché presente anche una motivazione di assenza di progetto
d'alternativa da parte del PCI. Il PCI era fermo alla logica dell'arco
costituzionale espressione diretta della linea del "compromesso storico"
elaborato dal segretario Berlinguer nella convinzione dell'impossibilità (e del
rischio democratico) di un governo delle sinistre al 51%; linea del resto
condivisa anche all'interno del PSI anche se non completamente ( ma nel PSI,
dopo il già ricordato articolo di De Martino, il fuoco covava sotto la cenere
some si sarebbe visto con l'elezione di Craxi alla segreteria nell'immediato
post-elezioni) e contestata all'interno del PCI soltanto da Longo e Terracini e
a sinistra dal Pdup- Manifesto. Si determinò così una situazione di sostanziale
immobilismo, con la DC che mantenne un ruolo pivotale pur non disponendo più di
una maggioranza centrista. Una DC collocata al centro di un sistema che non
avrebbe saputo alla fine produrre altro che un monocolore del partito di
maggioranza relativa sostenuto dall'astensione della gran parte del Parlamento
(Andreotti ter, alla Camera 258 favorevoli, 44 contrari dei quali 33 fascisti
come scrisse il Manifesto, 303 astenuti).
Il
PCI non mosse nulla sul piano della mobilitazione popolare, anzi la forza
sindacale in quel momento che era ancora di fortissima capacità di
mobilitazione sociale si rivolse alla fine contro la soluzione di governo. Ben
prima della tragica fase contrassegnata dal rapimento e dall'uccisione di Aldo
Moro si può ben affermare che si fosse già avviato un principio di distacco del
quadro politico da parti del Paese (in particolare del mondo del lavoro) che
avevano fornito un formidabile apporto al consolidarsi di un sistema fondato
sui partiti di massa. La
classe operaia pensava, nella sua grande maggioranza, che il sistema dei
partiti avrebbe favorito quella profonda modificazione dello stato di cose in
atto che stava nelle aspirazioni più alte di grandi masse di donne e uomini. La
"politica" aveva toccato proprio il 20 giugno 1976 il punto più alto
nella sua credibilità, autorevolezza, consenso diffuso: dall'esito di quelle
elezioni iniziò invece un declino del sistema nel suo complesso (nonostante che
il governo delle astensioni avesse comunque impresso un'innegabile spinta
riformista: dall'equo canone, al sistema sanitario nazionale) che trovò poi il
suo primo punto di caduta, nel post-rapimento Moro, con l'esito del referendum
dell'11 giugno 1978 su "legge Reale" e legge sul finanziamento
pubblico ai partiti: esito in cui si ravvisò una forte disaffezione
dell'elettorato rispetto alle indicazioni di voto fornite dalle formazioni
maggiori (in particolare sulla questione del finanziamento pubblico ai
partiti). Alle
elezioni anticipate del 1979 l'afflusso al voto registrò un calo del 3%
conservando a stento una quota superiore al 90%: la somma dei due maggiori
partiti assommò a 25.700.000 voti, con un calo del PCI di quasi un milione e
mezzo di voti (1.475.419) e un balzo dei radicali, in quel momento caratterizzati
come partito anti- sistema, di 800.000 voti. L'esito
di quel lontano 20 giugno 1976 può oggi essere sintetizzato come quello di un
avvio di un declino del sistema fondato sui partiti di massa. Un
declino che si sarebbe rivelato nella sostanza irreversibile fino
all'esplosione definitiva avvenuta all'inizio degli anni'90 a causa dei
fenomeni concomitanti e convergenti di Tangentopoli, della caduta del Muro di
Berlino, della firma del trattato di Maastricht. Un
declino, in quel momento giugno '76, non avvertito a livello sistemico. I
grandi partiti ignorarono che si stava affermando una "logica della
governabilità" e si stava profondamente modificando il quadro delle
relazioni sociali ed emergevano nuovi fenomeni di costume. Così
si manifestavano tendenze individualistiche e di ripresa di fattori provocanti
la crescita delle disuguaglianze, in controtendenza con quanto era avvenuto
negli anni '60 - '70. Ci
si avviava così alla drammatica "festa" degli anni '80: quelli dei
cancelli della Fiat e della "Milano da bere".