A noi non accadrà, libro a quattro mani di Mario Zeppolini e Romano Zipolini. Non è facileapprocciare un libro di memorie perché si rischia di volerlo inquadrare
in modo rigoroso, facendone smarrire l’identità: è storia e se ne può attingere
come fosse un documento o è romanzo in cui l’aspetto di una trasfigurazione
soggettiva dell’elemento autenticamente biografico traligna dall'oggettività
del reale? A rendere ancora più complessa la questione è la presenza, in questo
caso specifico, di una coppia di autori, padre e figlio, come se il testo fosse
stato scritto a quattro mani, nonostante la pubblicazione avvenga molti anni
dopo la morte di uno degli autori, Mario. Inoltre, perché padre e figlio
presentano un cognome simile ma diverso?Il libro incuriosisce dunque già in
partenza aprendo la porta a svariati interrogativi. Una chiave per avvicinarsi ad una comprensione più genuina
dell’opera la troviamo nelle pagine che precedono la vera e propria narrazione.
Si legge nella sezione Cartiglio: “Tutto è meglio della pura verità” (Pierre
Sebor, 6.1.86). La dimensione soggettiva insita nella vita di ognuno è ciò che
permette di vivere, nel momento in cui la pura verità, se si rivelasse limpida
come un’idea platonica nell’iperuranio, nel momento in cui spazza via in modo
cinico e brutale l’entusiasmo di un ideale vissuto con autentica passione,
alimenterebbe solo rabbia, rinuncia se non disperazione e nichilismo. La
memoria anche di fedi che hanno deluso e tradito si impone come esperienza
utile per provare a rifocalizzarsi verso obiettivi di speranza e non di morte.
Inoltre, vendere “pure verità” può essere la bandiera a cui si attaccano i
potenziali dittatori perché il reale sfugge sempre al monopensiero delle
tirannidi. E sempre in Cartiglio, ad apertura: “Quel giorno erano in
migliaia, con le loro grida nervose ed il batti mani ritmato, a sovrastare Jimi
Hendrix. Invocavano sul palco i Monkees” (8 luglio 1967, Jacksonville-Florida).
Perché questa citazione? Di fronte ad una epopea rivoluzionaria della musica
come quella incarnata da Jimi Hendrix, il pubblico chiama a gran voce i
Monkees, un gruppo che è stato creato per inscatolare commercialmente la
canzone sulla scia del successo dei Beatles, tanto che il critico musicale Glen
Baker li definì “la prima grande vergogna del rock”. La voce del popolo non è
sempre vox dei, secondo il noto motto popolare; in epoca
contemporanea la massa subisce costantemente un processo di strumentalizzazione
sia nel campo dei consumi che in quello politico sociale ed il messaggio che
arriva forte dalle pagine di questo diario è proprio l’occhio a non lasciarsi
trascinare da effimere esaltazioni che invece di promuovere il
talento/progresso inneggiano all’omologazione/regresso, all’ubbidienza cieca e
acritica ad un potere che si proclama forte ed autoritario.
Il libro si può anche considerare una sorta di romanzo di
formazione con un finale che tuttavia rimane aperto. L’approdo, dopo la tragica
conclusione del conflitto e la dolente percezione dell'inutile spargimento di
sangue di tanti civili inermi, si potrebbe sintetizzare in una coppia di versi
di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo”. Lo Stato fascista pur nell’esibita ostentazione della sua forza non
è riuscito a proteggere la sua gente per una insufficiente preparazione allo
sforzo bellico o, secondo la ribadita opinione di Mario, per il tradimento di
comandanti e di reparti, e a quanti sono stati animati da un genuino amor di
patria non rimane che un cocente senso di smarrimento e sbandamento. Il
vitalismo di matrice dannunziana che aveva animato il giovane Mario incline a
gustare la sua vita come fosse un vero e proprio romanzo tra gesti di
insubordinazione e l’eroismo della solidarietà, tra atti di coraggio ed
avventure amorose molteplici, vissute tutte con intensità, come chi voglia
assaporarne ogni sfumatura nella diversità degli incontri, viene barbaramente
umiliato dalla storia, frustrato dal disinganno che lascia il marinaio
barghigiano incapace di ritrovare in modo non contraddittorio un’altra fede cui
donare il cuore. Se si esclude il valore degli affetti e dell’amicizia, specie
quella per Ottone suo compatriota e compagno d'armi, che alla fine diventa
il fil rouge che dà unità alla storia. Si legga in chiusa al
libro “(...) scrutando la realtà del cielo e del mare, dalla mia nave, che ho
perduto, sono stato indotto a spingermi incontro alla vastità di tutto quanto
non conoscevo, a costruire il sogno della mia vita, che non si è perso nell’orizzonte,
perché era celato nel corpo e nell’anima delle persone amate, in cui mi sono
specchiato, per provare ad essere diverso da come mi avevano
costruito”. Il sogno miseramente vessato dalla storia si cela nel
cuore delle persone amate: questa frase ha il sapore di un testimone che
consegna agli affetti, anche al figlio Romano, ed è un impegno a non spegnere
la vita e l'entusiasmo per essa attraverso vie diverse e nuove al di là di
quelle in cui il giovane Mario si era incamminato con baldanzosa audacia e genuina
speranza.
Alla lettura si può percepire una netta cesura tra quello che
avviene prima della guerra e della disfatta di Capo Matapan e il dopo: le
pagine della prima parte più leggere e briose, tessute di reminiscenze musicali
e della giovanile esuberanza dell'autore paiono invecchiare di colpo, si fanno
più stanche, nude, crude, rispecchiando la frustrazione dei reduci. Nella
scrittura del diario, rispetto ad un documentario cinematografico, le immagini
affiorano con la forza dei sentimenti di chi descrive eventi che ha vissuto e
visto, perciò permangono con più incisività anche nella memoria del lettore.
Come non figurarsi il marinaio Mario, amante della lettura e delle donne,
aperto al nuovo, dotato di squisita sensibilità lirica, che si avventura nei
mari pur venendo dai monti di Barga? Come non sentire vicine le sofferenze ed i
turbamenti di un uomo che affronta eventi eccezionali in tempi eccezionali
destinati poi a precipitare miseramente nel disincanto di chi non può fidarsi
più neppure dei propri generali? Gli siamo accanto quando si riflette nel motto
“tenacemente” della nave ammiraglia Zara su cui è imbarcato, accanto nella
notte atroce che trascorre naufrago tra tanti commilitoni a seguito
dell'affondamento dello Zara, percependo il suo stesso “disgusto infinito, per
tutti quei corpi dilaniati, per quei pesci immondi, per questo freddo, per chi
ci ha condannato a morire senza combattere...”, e accanto nella sua prigionia
greca, a nutrirsi di olive e di paleo bollito, come prevenzione allo scorbuto. Il mare, nella sospensione di lunghe traversate, abitua alla
riflessione: “il destino del marinaio è quello di sentirsi lontano da tutto e
da tutti, nella grande immensità del mare, che rispecchia la vastità delle
sensazioni dell'anima, con le quali si confronta”. Ci sono momenti in cui
Mario, pur in un contesto storico come quello fascista, che relega la donna al
ruolo asessuato di madre e moglie devota, precorre i tempi nel cammino verso l’uguaglianza
di genere, quando afferma a proposito delle delusioni amorose: “o forse è
difficile accettare che la donna, anche in questo, sia uguale all'uomo e che il
desiderio di conquista, pure per lei, sia più forte di ogni fedeltà”. C’è in
lui una forma di anarchia del pensiero che lo spinge a riconsiderare tutto alla
luce delle proprie rimeditate esperienze. È lui stesso a costruirsi vero e proprio personaggio
letterario nel momento in cui si autobattezza Zeppolini dall’originario
Zipolini, sulla scia della fama del dirigibile Zeppelin, capace di navigare i
cieli così come il protagonista vola proteso sui suoi sogni; sogni che grazie
al libro ci vengono riconsegnati intatti perché si stabilisca quella sana
dialettica tra le epoche che dovrebbe far approdare al porto dell’evoluzione.
Dallo scontro delle generazioni deve nascere l’incontro delle generazioni con
le specifiche peculiarità, il foxtrot e le danze coreografiche di Tangolita
amate da Mario si possono mettere accanto allo shake amato da Romano: chissà
che non ne nasca un ballo nuovo che unisca tutti, il ballo dell'umanità. A
noi non accadrà, in questo imperativo futuro che si pone volutamente
più come certezza che come speranza proprio nell'incertezza dolente di un mondo
in cui la guerra continua ad affacciarsi, sono affidate memorie che non si
consumano in loro stesse ma che vogliono programmaticamente costruire dialoghi
aperti, non settari, e per questo fortemente coraggiosi.