L’apolidicità
è il fenomeno di massa più moderno, e gli apolidi sono il gruppo umano più
caratteristico della storia contemporanea. Hannah
Arendt Parte I Un
buco nero di rabbia senza fine ho provato alla notizia dell'uccisione di
Muhammad Sitta, 23 anni di origine egiziana che a Villa Verucchio, nel
riminese, la notte di Capodanno scorso ha ferito con un coltello quattro
passanti prima di essere ammazzato con molti colpi di pistola dal comandante
della locale stazione dei carabinieri. Non voglio soffermarmi
sullapubblicistica ormai ampia e politicamente orientata alla costruzione di doxai
grazie a cui Muhammad era un assassino o peggio un attentatore (anche Il
Manifesto cade nello stigma della doxa populista, “dimenticando” che
un attentato ha una matrice politica e una strategia ben definite).Piuttosto voglio
analizzare specificatamente l'affermazione del comandante dopo avere esploso i
colpi mortali: “ho fatto il mio dovere per proteggere la comunità”.
Muhammad Sitta
Davanti
a queste parole quel buco nero si è maggiormente allargato, diventando un
abisso. Cosa sia stato conculcato peraltro in quel carabiniere tanto da non
provocare un benché minimo segno di compassione verso un uomo ucciso? È
apodittico dire che una persona che minaccia gli altri debba essere fermata.
Non è questo il punto. Una parte del nucleo del problema è invece chiedersi
l’intreccio tra cause individuali (emotivo-psicologiche) e sociali che hanno
portato un individuo a impugnare un coltello e a minacciare la propria e altrui
vita. La cornice è dunque siffatta: una persona richiedente asilo è colui/colei
che ha perso il riferimento di una comunità che lo protegge, dalla quale si
allontana o scappa per determinati motivi, e quella in cui si ritrova gettato
ha gravi mancanze di ordine culturale e politico. Questo assunto rappresenta
una congèrie perfetta pronta ad implodere e a far esplodere nelle masse
apolidi l’idea che l’ottenimento di qualche forma di riconoscimento può persino
accompagnarsi a violenza. Correlativamente a ciò rilevo il sensato timore di
ritrovarsi, e i segnali non sono davvero incoraggianti, a vivere sul modello
statunitense del poliziotto sopra la legge - è questo il modello violento della
serie televisiva degli anni Novanta “Walker Texas Ranger” - che spara e
uccide extra giudizialmente proprio contro la massa “deviante” composta, nel
caso statunitense, da afroamericani o appartenenti alle classi sociali più
sfruttate e svantaggiate. Basta andare a vedere le statistiche dell’ingegneria
panottica dell’iper-incarcerazione (Loic Waquant), operante da almeno vent’anni
negli Usa e che ora sta inquinando la nostra vita collettiva. Le inequivocabili
parole della Meloni sul problema carcere e crescente popolazione carceraria chiariscono
che i “devianti”, quale peso e costo improduttivo per il mercato del
lavoro liberista, devono essere massicciamente rinchiusi e cancellati - meglio
se lo fanno da soli col suicidio - in modo che quel costo venga scaricato
sull’economia “informale” (spaccio, rapine ecc.) e così “risolto”. Secondo l’autore, è questo sistema di scarico dei reietti
che ha forti legami organici “sia ideologici sia pratici, fra il deperimento
dello stato sociale e il dispiegarsi del suo braccio penale” quale padre dello
slogan “tolleranza zero”.
Se
davanti al carabiniere ci fosse stato un suo concittadino che sarebbe successo?
Avrebbe usato un altro approccio? Quanto ha giocato la forza degli stereotipi,
dell’indottrinamento razziale, dell’ideologia islamofoba imperante,
dell’appartenenza ad una classificazione sociale di massa amorfa, indefinibile,
senza contorni precisi, abbandonata a se stessa - schiuma della terra
appunto - nella decisione di sparare come unica soluzione contro Muhammad?
Certo, sarebbe doveroso che la società civile si interroghi e domandi alle
scuole di polizia dove gli operatori vengono formati e addestrati quale tipo di
formazione venga implementata, quale idee la sostengano, quali modelli
culturali la costituiscano, quale modus operandi la faccia funzionare
perché se ci ritroviamo a vivere nell’assuefazione che questo tipo di
sparatorie diventi normalità allora c’è oltre tutto qualcosa che non va nella
pedagogia di quelle scuole. Sempre che l’aggettivo civile significhi ancora
qualcosa; dovrebbe pur sempre mantenere una sua autorevole priorità quale
persuasione contro le ideologie. Occorrerebbe
investire su di un tipo di formazione empatica degli operatori di polizia dove
la parola abbia forza autoritaria tale che riesca a porsi quale elemento di
depotenziamento davanti ad atteggiamenti pericolosi. Finché la parola resta
mero esercizio della forza, di conculcamento, repressiva non assolverà mai la
funzione mediativa tramite cui riportare la ragione laddove essa si sia
eclissata per cause recondite. Si può obiettare che Muhammad avesse un
coltello; ma è proprio qui che la formazione della polizia deve fare vedere la
propria competenza tecnica e umana! Sarebbe facile se la professione di
operatore di sicurezza si limitasse a comminare multe o manganellare operai e
studenti!
Inoltre,
si può arguire che l’uso di tecniche di disarmo sarebbe potut0 essere
applicabile in quel contesto; ciò avrebbe richiesto un eventuale corpo a corpo
per cui essere debitamente formati. Vi sarebbe stato anche l’utilizzo delteaser,
che è un’arma ma almeno non uccide anche se può provocare, a secondo della
sensibilità del soggetto che ne riceve la scarica, un danno. Infine, come
ultimissima ratio, un colpo di pistola mirato ad un arto.Sarebbe stato questo il
dovere: salvare una vita.Identificare qualcuno con il gesto violento significa aprire
la porta all’aberrazione.L’altra parte del nucleo del problema ruota intorno alla
riflessione teorica e teoretica su cosa sia il termine dovere usato dal
carabiniere e immediatamente acquisito dal senso comune. Perciò una
ricognizione sul termine dovere s’impone tanto da rifiutare il pensiero
manicheo (morale buona vs. morale cattiva), tipicamente oppositivo di un
pensiero polarizzante, superficiale e rassicurante per chi lo assevera. Dove il
momento dialettico sia luogo d’inveramento delle contraddizioni in cui le
distinzioni tra dovere morale e etico si combinano per offrire condizioni di
possibilità per un effettivo ristabilimento della realtà e fattualità che oggi
o sono negate o sono eluse.
Il
dovere in senso morale è un tipo di dovere che ha come sua condizione la
propria autogiustificazione e che tende, in determinate circostanze, non solo a
calpestare la convivenza umana ma in particolare a rendere le conseguenze
dell'azione deresponsabilizzanti per chi la compie. È un tipo di dovere di cui
vantarsi quale elemento di ostentazione di forza e cinismo sussunte in quel
dovere. Qui deresponsabilizzazione è da intendersi alla luce della mancanza di
quel dialogo “tra me e me stesso”, di platonica memoria, senza il quale la vita
del pensiero e la sua azione diventano un monolite. In questa obbedienza
ontologica riposa una sana contrizione in cui io faccio i conti con le mie
scelte e azioni tanto da porle ad un altro io (che può essere anche l'altro da
me), evitando la scorciatoia della menzogna. Poiché avere sparato non può e non
deve sdoganarsi quale azione necessaria, questa è la menzogna in quanto
rappresenta, questa presunta necessarietà, il rifugio e la certezza del
ragionamento logico! Piuttosto questo atto esemplifica la resa del pensiero
davanti al male. Questo dovere è il dovere degli “allineati”, dei “docili”,
della banalità del male. “Condannati a essere liberi”, ci ricorda Simona Forti
nella sua introduzione a Le origini del totalitarismo (Einaudi, ed.
2004) significa rifiutare la logica rassicurante del dovere morale, che si
“rivolge soltanto al mio Io empirico” tramite la giustificazione della “mia
mancata responsabilità, per il mio non avvenuto giudizio”.
Il dovere
morale codifica e condensa un “sapere acquisito” a cui richiamarci con sicumera
decisione ma, è qui la discriminante del dovere morale con l’etica, vuota di
ogni responsabilità poiché radicalmente mancante di giudizio. Insomma, una
morale che si risolve in una tecnica che normalizza, che universalizza sia le
proprie pratiche sia la definizione di persona migrante che equivale a “massa
deviante”, rendendola tutta potenzialmente criminale, tutta da settorializzare
indistintamente.Per
estensione, arguisco che la morale nasce da un indottrinamento di un corpo di
regole che deformano la coscienza e l’intelletto umani in quanto si
sostituiscono ad essi o meglio si fanno ethos collettivo ossia mera e
perniciosa obbedienza e conformismo.L’inserimento così circoscritto e regolamentato
dell’individuo in quel sistema di relazioni sociali (professionali, culturali,
giuridiche ecc.), inferisce Bonhoeffer nell’ Etica, “evira” eticamente
l’uomo dal rischio “di imparare a conoscere” le proprie azioni in virtù di una
responsabilità personalissima. È un’evirazione dalla libertà per cui
l’obbedienza diventa schiavitù, è un’evirazione dall’obbedienza per cui la
libertà è puro arbitrio (per chiarezza, uso il concetto di obbedienza in senso
secolarizzato, non nel senso teologico di Bonhoeffer). L’obbedienza quindi è al
rispetto assoluto (come indica l’etimo, libero da qualsiasi vincolo) della
“dimensione di profondità nell’esistenza umana”, cui sopra mi riferivo, a cui
orientare e coniugare il fine etico dell’azione.
L’atteggiamento
moralista ributta all’esterno la propria idea del mondo, il proprio errore, le
proprie paure. La morale produce un corpo di regole gerarchiche e tassonomiche
che possono funzionare solo in ottica impositiva. Oltre a creare stereotipi
che, nello specifico, permeano la mentalità delle forze dell’ordine tanto da“individuare
un nemico senza diritti in chiunque sia ai margini o incarni una qualche
diversità dai modelli dominanti” come rileva acutamente Annalisa Camilli in un
articolo di Internazionale del 13 gennaio 2025.Abbiamo forse dimenticato
che il dovere, così inquadrato, era un motto fascista posto a difesa di una
catena di comando che deresponsabilizzava il singolo, vittima più o meno
inconsapevole, disponendo, in ultima istanza, che la polizia avesse totale
potere sulla vita delle persone. Il dovere è una delle forme
dell’indottrinamento. Adolf Eichmann ne fu l’esempio palmare: un dovere
radicalmente de/responsabilizzato tanto da produrre quel sentirsi nel “giusto”
che ha contribuito a sterminare milioni di innocenti, segnando perlopiù la
trasformazione di tutto il popolo in massa da annientare. Un tipo d’uomo
civilizzato e normalizzato che mosse “il primo passo decisivo verso il dominio
totale (che) è l’uccisione del soggetto di diritto che è nell’uomo”. Ecco
la sfida: ripensare daccapo il consensus iuris, il che significa come
pedagogicamente farlo alla luce della disfatta, nello status del pensiero della
condizione postmoderna (Lyotard), della Pedagogia che è diventata elemento
legittimante la riproduzione sociale del dominio (Bourdieu).