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domenica 13 aprile 2025

DARIO GHIBAUDO
di Maurizio Minchella


 
L’arte che muta, tra natura e immaginario.


In occasione del Fuorisalone 2025, che anima il capoluogo lombardo durante il Salone del Mobile, il Cortile d’Onore dell’Università Statale di Milano ospita, presentata dalla Galleria Luigi De Ambrogi, un’opera straordinaria: Il Grande Pesce Bianco, una scultura in plastica riciclata che sembra fluttuare nell’aria. A firmarla è Dario Ghibaudo, artista piemontese trapiantato a Milano, scultore e pittore di fama internazionale, noto per il suo Museo di Storia Innaturale, un progetto iniziato nel 1990 che intreccia ironia, provocazione e riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Le sue creazioni, che spaziano da sculture a installazioni, utilizzano materiali eterogenei per dare vita a un immaginario potente e straniante.
Ghibaudo non si limita all’arte visiva: la sua versatilità lo ha portato a esplorare anche la scrittura, con la recente pubblicazione di Violenze minime (Arca Edizioni), una raccolta di racconti che scava nelle pieghe della quotidianità con uno sguardo acuto e disincantato. In attesa della sua prossima personale all’Espace Constantin Chariot di Bruxelles, dal 23 aprile all’8 giugno, l’artista ha gentilmente accettato di raccontarci la sua visione, tra mutazioni, miti e interrogativi sul nostro tempo.
 
L’opera esposta all’Università Statale, Il Grande Pesce Bianco, è un pesce fantastico dotato di zampe, sospeso come in un sogno surreale. Il suo simbolismo si presta a molteplici letture. Può offrirci qualche chiave interpretativa, o preferisce lasciare al pubblico il compito di decifrarne il significato?


Ogni opera vive nello sguardo di chi la incontra, e l’artista, spesso, dissemina tracce che si intrecciano alla sua ricerca. Personalmente, sono affascinato dalle mutazioni: quelle naturali, legate all’evoluzione, e quelle indotte dalla scienza. Il Grande Pesce Bianco sintetizza un’idea di trasformazione: da creature marine a esseri terrestri, un viaggio evolutivo che si compie sotto gli occhi di chi osserva. Ma la vera magia accade quando chi guarda si svuota di preconcetti e si lascia trasportare dall’opera, trovandovi un riflesso di sé.


 
Gli animali fantastici ricorrono spesso nelle sue creazioni, evocando un passato mitologico che sembra contrapporsi a un presente altrettanto leggendario, dominato da tecnologia e robotica. È una risposta a un futuro che inquieta, o un abbraccio a una realtà nuova, che ci spinge a interrogarci  sulla nostra natura?


Non credo esista una natura “autentica” dell’uomo. Le mie creature mutanti raccontano un mondo in perenne adattamento, dove nulla è fisso o definitivo. Sono frammenti di un caos naturale, tappe di un percorso che non ha una meta ultima, ma solo continue metamorfosi. Il mito e la tecnologia, in fondo, sono solo strumenti per narrare questa danza incessante.
 


Il richiamo a immagini di ere remote sembra suggerire che il tempo, forse, sia un’illusione. O che, come il suo pesce bianco, possa fermarsi, rendendo l’eternità più vicina di quanto crediamo. È così?


Come artista visivo, mi nutro di ciò che vedo e sento, non di speculazioni filosofiche. Non ho risposte sul tempo o sull’eternità: osservo, interpreto, traduco in sculture, disegni, parole. Il pesce bianco, forse, invita a sospendere il giudizio, a contemplare un istante che potrebbe essere eterno. Ma lascio a chi guarda il compito di trovare il proprio senso.


 
 
Nelle sue opere, alberi e animali si intrecciano, e le figure umane sembrano dissolversi in queste forme naturali, suggerendo una misteriosa continuità. La natura, però, non è solo rassicurante: ha una forza seduttiva, quasi pericolosa, che ricorda il serpente dell’Eden. Come vive questa dualità tra seduzione e distruzione?
 
Tutto - animato o inanimato - condivide un destino comune. Non parlo di distruzione, ma di trasformazione, un concetto antico che attraversa ogni cosa. Dall’Eden alla robotica, il tempo stesso è metamorfosi. La natura seduce perché ci ricorda che siamo parte di un ciclo più grande, ma anche che ogni passo può cambiarci per sempre.
 
Oltre alla sua arte, lei ha una passione per la scrittura, come dimostra Violenze minime, una raccolta di racconti che esplora la banalità del male quotidiano. I suoi protagonisti sembrano vittime di una mostruosità subdola, quasi invisibile. Gli archetipi mitologici possono aiutarci a curare il nostro male di vivere.


 
 
La mostruosità, per me, non è mai banale: è una delle infinite facce della realtà. Gli archetipi mitologici sono specchi che ci aiutano a vedere, a tracciare sentieri verso nuove interpretazioni del mondo, ma non unguenti per il dolore dell’esistenza. Scrivere Violenze minime è stato un’avventura splendida, ma anche una sfida: come per una mostra, un libro espone l’autore, lo mette a nudo. Scrivo e disegno con la stessa urgenza, intrecciando storie che poi si trasformano in segni, in immagini, in parole. È un processo che mi appartiene, ma che mi sorprende ogni volta.