Nei giorni
scorsi Gianfranco Pasquino attraverso un suo intervento aveva risollevato il
tema del rapporto tra cultura e politica rivolgendosi alla sinistra italiana.Sulla base di questo
importante stimolo proviamo allora ad entrare un poco nel merito della delicata
(e annosa) questione. La sinistra italiana, quella “storica” che aveva
contribuito in maniera determinante alla Liberazione e nell’Assemblea
Costituente, è stata colpita al cuore da fenomeni di vera e propria involuzione
dell’agire politico.Forze politiche radicate
profondamente sul territorio attraverso ramificate strutture organizzate hanno
prima ceduto sul piano culturale (pensiamo proprio alla personalizzazione e
alle logiche del maggioritario e della governabilità ad ogni costo) e poi su
quello concreto della presenza sociale e politica, lasciandosi dietro di sé un
vuoto che prontamente, come vogliono leggi immutabili, è stato riempito con i
veleni dell’antipolitica e della sua degenerazioni autocratiche, sovraniste,
nazionaliste.Il fenomeno, naturalmente,
riveste dimensioni internazionali che non possono essere sottovalutate ma ha
assunto nello specifico del “caso Italiano” (quello delle anomalie positive del
’68 più lungo perché intrecciato tra studenti e operai, e della presenza del
più grande partito comunista d’Occidente pilastro della democrazia
repubblicana) una valenza del tutto particolare, al punto da farci pensare
dell’esistenza di rischi seri di involuzione autoritaria.Una situazione determinata, a nostro avviso, dalla
rescissione del rapporto tra politica e cultura che ha determinato questo
gigantesco sbandamento al punto che neppure una crescita esponenziale dei
livelli di diseguaglianza politica e sociale appare foriera dell’apertura di
una fase di conflitto tale da prevedere un mutamento di fondo del pericoloso
stato di cose in atto.
Il recupero di un’identità, prima di tutto, e poi della capacità di
espressione politica e anche organizzativa di una sinistra italiana non passa
però semplicemente dall’avvio di un tentativo di ricostituzione di una
soggettività politica fondata prima di tutto sull’aggregazione dei soggetti
agenti all’interno delle grandi contraddizioni della modernità ma anche, e
soprattutto, da un recupero nel rapporto tra cultura e politica, dalla
ricostituzione di un nucleo intellettuale all’altezza e ramificato in vari
settori della vita non soltanto del Paese ma a dimensione internazionale. Un nucleo intellettuale che recuperi l’idea di una politica considerata
anche come oggetto di studio e sede di riflessione sulle grandi prospettive
epocali, sulla storia, sull’approfondimento del pensiero politico. Per questo motivo seguiranno considerazioni di merito rivolte proprio
all’aspetto dello studio del pensiero politico, invitando coloro che non
intendono abdicare dall’impegno nascondendosi (come sempre più spesso purtroppo
accade) dalla loro identità a riflettere attorno a questo elemento.
Dalla “filosofia della prassi” gramsciana va ripresa in pieno l’idea di
fondo del ruolo dell’intellettuale: “Elemento vitale del partito politico è l’unità
di teoria e pratica. Questo, però, non è un problema filosofico ma, una quistione
che deve “essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione
politica degli intellettuali”. Gramsci si pone quindi il problema di elaborare una teoria generale della
funzione e del ruolo degli intellettuali (a essa sono dedicate le note
raggruppate nel Quaderno 10),
il cui concetto principale è quello di “intellettuale organico”. Esso sta a
indicare che gli intellettuali, contrariamente a come generalmente si
autorappresentano, non costituiscono “un gruppo sociale autonomo e indipendente”,
ma “ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione
essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme,
organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e
consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in
quello sociale e politico” (ibid.,
p. 1513). Le funzioni degli intellettuali sono eminentemente “organizzative e
connettive”, e dipendono dal ruolo che essi hanno in rapporto al mondo della
produzione, all'organizzazione della società e dello Stato. L’idea allora è quella di lavorare, con tutti gli strumenti disponibili,
intorno al rapporto tra cultura e politica, un rapporto che accusa ormai da
molti anni un deficit particolarmente vistoso, ridotto all’assemblaggio di un
insieme di tecnicismi, in diversi campi da quello accademico per arrivare a quello
istituzionale, laddove la politica appare ormai confusa con l’economicismo e il
giurisdizionalismo astratto.
Si tratta di partire per una ricognizione di fondo, anche partendo dal
proposito di sviluppare una “ricerca di parte”, con l’ambizione di ottenere
il risultato di provocare una riflessione complessiva tale da superare le
settorializzazioni, gli schematismi oggi imperanti che, alla fine, hanno
danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma
soprattutto la qualità dell’“agire politico”.Il riferimento è rivolto a un pensiero politico in
grado di esprimere interessi, finalità aspirazioni ben individuabili che, a
partire da precisi punti di vista di soggettività determinate, è capace di
interpretare le sfide reali della storia, e vi risponde in base a parametri e a
esigenze di volta in volta mutevoli.Serve
legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il
pensiero politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le
medesime categorie.Al contrario è necessario
prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che
i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo, l’asse portante
della storia politica dell’Occidente (perché è dell’Occidente che si è chiamati
a occuparci, sia pure giocoforza) è anche vero che solo le trasformazioni
epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il modificarsi catastrofico degli
scenari sociali e politici, oltre che intellettuali, hanno consentito ai
concetti politici di assumere di volta, in volta, il loro significato concreto.Insomma, è necessario mettere in rilievo che la
concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso aderisce
alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le riconosce, le
interpreta, le mette in forma.
Probabilmente quello che stiamo attraversando è proprio uno di quei
momenti storici.Si deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa,
nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico,
nel suo senso più vasto.Si tratta di tornare
alla capacità di fornire strumenti per interpretare lo spessore storico e
concettuale, per decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di
trionfo, di chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà
intellettuale e politica: tutto il contrario dell’impreparazione improvvisata
che appare di scena oggi nell’arena del sistema politico italiano.