GRATUITÀ VO’ CERCANDO
di
Vittorio Melandri
Leggere la notizia che i trecento
lavoratori della MCM (prov. di Piacenza), hanno appreso da un servizio
giornalistico, del possibile fallimento dell'impresa, con conseguente scomparsa
del loro posto di lavoro, mi ha riportato indietro di 45 anni, quando da ancor
giovane sindacalista della FIOM-CGIL, ancora parte della unitaria FLM, nutrivo
qualche speranza di cambiamento, e con qualche entusiasmo anche in quella
fabbrica ho condotto assemblee. Nonostante la disillusione accumulata negli
anni, mi ostino a riflettere attorno alla possibilità di far resuscitare
qualche speranza e appropriandomi del linguaggio della scrittrice ungherese
Magda Szabò (La porta, Einaudi), sono per dire che ciascuno di noi usa uno
“scandaglio suo e originale per esplorare il fondale dei propri ricordi”. Non
di rado questo scandaglio, come un sonar di cui si conoscono i comandi, ma non
la struttura, restituisce non solo immagini dimenticate, ma anche capaci di
comporre profili sorprendentemente ignoti, per come risultano collegate fra
loro. Ascoltando anni fa Corrado Augias commentare il Don Chisciotte, e
riferirsi a quanto quel capolavoro rimandi al concetto di “gratuità”, il mio
‘scandaglio’ ha saldato insieme quanto avevo letto per la penna di un
autorevole giornalista su un autorevole quotidiano economico, e quanto un paio
di anni prima mi ero annotato in tema di gratuità, da cittadino semplice quale
sono. Scriveva il giornalista: “L’Italia sana, (è) quella che combatte ogni
giorno per creare reddito e occupazione”, mentre l’Italia in-sana si consuma in
“chiacchiere e distintivo”, mi venne di chiosare. Ma siamo sicuri che reddito e
occupazione vengano prima, a prescindere, e non come conseguenza di una oculata
scelta di cosa sia di volta in volta prioritariamente necessario produrre? Così
come anteponiamo avventatamente nella nostra capacità di osservare, gli effetti
alle cause, così siamo spinti ad anteporre il “vivere per lavorare” al “lavorare
per vivere”.
Ne scaturisce la “logica” tragica conseguenza, che venuto meno il lavoro, quando “il libero mercato” ne sanziona la fine, viene meno anche la possibilità di vivere, senza nemmeno rendersi conto che basta guardarsi intorno per accorgersi, di quanto lavoro necessario rimanga inevaso attorno a noi. Dovremmo essere noi umani a collegare al lavoro che serve, un reddito, e non aspettare che sia l’inumano mercato a farlo. Ma noi umani con troppa sufficienza confondiamo costo con prezzo, e addirittura i vocabolari inducono all’errore, proponendo l’uno come sinonimo dell’altro. Non occorre però essere filosofi e nemmeno linguisti, per cogliere la sostanziale differenza fra i due termini. Con una banale ricerca etimologica si scopre che il primo termine discende dal verbo “costare” e questo rimanda ad un verbo latino “consistere”, che significa “aver fondamento in qualcosa”. Non esiste al mondo cosa od azione alcuna, che non abbia appunto “fondamento in qualcosa”, cioè che non abbia sempre e comunque, un costo. Il termine prezzo invece, deriva dal latino “pretium, astratto di un perduto verbo la cui radice pret, sta a significare scambio. Il cortocircuito linguistico che porta ad identificare i due termini, è molto di più che un mero inciampo lessicale, è la testimonianza di quanto sia appunto corrotto il linguaggio che ci insegnano ad usare e di conseguenza di quanto si sia imbarbarito il vivere di noi umani, proprio quando ci crediamo invece più civili (alcuni pensano, più furbi) di prima. È anche la testimonianza, amarissima e assurda, a pensarci solo un momento, che per noi umani ormai niente sembra avere più valore, se non può essere scambiato. E questo porta a sottolineare come pure il termine valore, che nella sua funzione di sostantivo aggettivante indica come e quanto e quando una cosa o un’azione sia valida, sia stato assorbito dagli altri due e come tutti e tre insieme costituiscano un vero e proprio “buco nero”, in cui la nostra capacità di discernimento si perde, ogni giorno di più. Parlo di quel “buco nero” dove di una cosa o di una azione che ha comunque un “costo”, e che potrebbe anche non essere scambiata o magari scambiata ad un “prezzo” qualsiasi, e comunque piena o priva che sia, di “valore”, gli si appiccica indifferentemente un costo o un prezzo o un valore, come se i tre termini descrivessero appunto lo stesso attributo. Prima e più illustre vittima di questa perdita di senso è a mio parere la “gratuità” dell’agire. (da non confondersi con l’ambitissimo “a-gratis”).
Oggi niente viene considerato così privo di valore, quanto appunto “l’agire
gratuito”, verso sé stessi e verso gli altri, e non di rado accade pure che
coloro che appaiono come i migliori fra noi, scambino il proprio “agire
gratuito”, niente meno che con il premio massimo, quello del Paradiso, senza lo
stimolo del quale stando ad una certa scuola di pensiero, la vita non avrebbe
nemmeno senso. Questo però configurandosi sì, almeno a mio parere come
barbarie. Personalmente credo sempre di più che l’agire “gratuito” sia oggi
l’agire dal costo più alto, essendo l’energia necessaria per sostenerlo e
produrlo la più “preziosa”, e del tipo più raro a trovarsi; sia l’agire
connotato dal prezzo più basso, anzi, senza prezzo, non essendo determinato
questo agire dalla volontà di innescare scambi di alcun genere; e sia pure,
l’agire gratuito, quell’agire dal valore inestimabile, per sé e per gli altri,
in quanto porta sempre con sé una utilità insita nel suo semplice esistere, e
pure capace di portare addirittura a compimento un qualche “utopistico” umano
obiettivo. Tutto questo, a differenza di quanto accade nella nostra sempre più
misera e triste normalità, dove, senza una qualche specie di utilità
conclamata, nulla si agisce, e tutto ha sempre un costo, sempre troppo alto per
chi acquista e un prezzo troppo basso per chi vende! E dove ahinoi soprattutto
anche il valore di un essere umano, è percepito come fosse quello di una
qualsiasi merce. Con una differenza, a favore delle merci: delle merci nessuno
mette infatti in discussione la “clandestinità”, basta che il valore, pardon,
il prezzo, pardon, il costo, sia quello giusto per le nostre esclusivissime
tasche, dove siamo anche così “pirla” di credere (basta che ce lo dica qualche
bravissimo ciarlatano) che solo noi mettiamo le mani.