“Siamo
di fronte a un momento senza precedenti: la rivoluzione agricola richiese
millenni, quella industriale secoli, la trasformazione tecnologica è già
avvenuta in pochi decenni. Ora è tempo di farla evolvere. È oggi che plasmiamo
le fondamenta della prossima società”. Così
Luciano Floridi inquadra lo stato di cose in atto con un suo saggio “L’era
digitale richiede responsabilità” pubblicato da “La Lettura” del Corriere della
Sera il 20 luglio. Floridi
prosegue: “In molti contesti si parla ancora di tecnologie emergenti come se
il digitale fosse una novità. Ma la rivoluzione digitale è già avvenuta da
decenni: è tempo di farla evolvere nella direzione che preferiamo. Siamo di
fronte ad un momento senza precedenti, a differenza delle rivoluzioni agricola
e industriale, che richiesero millenni la prima e secoli la seconda per
dispiegarsi, la trasformazione digitale sta avvenendo in pochi decenni. Lo
stordimento è comprensibile, ma trattarla ancora come un'innovazione è un errore
che rischia di diventare alibi per l'inazione. E' oggi che plasmiamo le
fondamenta ancora malleabili della società futura. Dalla crisi dei rapporti
internazionali ai cambiamenti climatici, dalla non equità economica alle
migrazioni, dalle guerre alle violenze sulle minoranze le soluzioni partono
dalla politica e quindi anche dalla creazione di una società digitale migliore,
trasformando il possibile in preferibile. Se non interveniamo ora, gli errori
diventeranno sempre più difficili da correggere e le opportunità mancate sempre
più irrecuperabili”. L’autore
aggiunge:“C’è il rischio di una oligarchia digitale formata da
alcuni Paesi con capacità avanzate, grandi aziende tecnologiche e pochi
individui, il famoso 1 per cento. Unicamente con maggiori e migliori
conoscenze, democrazia, politica si può governare la transizione senza subirla”. Sorprendentemente
(ma non troppo almeno per chi ha sempre e comunque cercato di analizzare la
strutturalità delle fratture sociali andando oltre lo schema di Lipset e
Rokkan) arrivano risposte radicali a questo tipo di interrogativi.
Ne
citiamo due: A)
quella della politologa
albanese Lea Ypi autrice di un recente testo Confini di Classe pubblicato da Feltrinelli. La
Ypi risponde, tra le altre, ad una domanda sulla creazione della coscienza di
classe richiamando la funzione di partiti e movimenti per la costruzione di una
egemonia del discorso recuperando un modello di partito inteso gramscianamente
come “Moderno Principe”. In sostanza una direzione “diffusa” con un concetto di
relazione tra verticalità e orizzontalità nella direzione politica posto in
grado di esprimere tre elementi critici rispetto al modello passato:
1) la solidarietà nella massa, senza il vincolo stretto della dimensione
puramente ideologica; 2) l’espressione di questa solidarietà come egemonia
verso l’intera classe; 3) una direzione “larga” composta non soltanto da
rivoluzionari professionali ma da quadri diffusi sul territorio e nella società
capaci di introdurre anche elementi di “parzialità” nel rapporto con il partito
e di forte, ragionato, ricambio nella formazione dei gruppi. Una visione
originale dunque della “via consiliare” sulla quale forse, pensando a una
strutturazione politica della classe adeguata alla complessità dell’oggi, vale
la pena di sviluppare qualche riflessione sul piano teorico. B)quella di Alessandro Sahebi nel suo Questione di
classe (Mondadori) dove sostiene come il pensiero dominante ci ha convinto
che la felicità sia una conquista individuale, non collettiva. Ma è solo l’ennesimo
inganno di un sistema ingiusto, che alimenta la competizione e l’egoismo per
dividerci. Un’alternativa esiste ed è collaborare, condividere, immaginare una
società in cui stare bene non sia un privilegio per pochi, ma un diritto di
tutti. Realizzarla non è solo un desiderio, è un atto politico necessario. Per
compiere questo atto politico l’autore indica molto semplicemente l’orizzonte
del socialismo riscoprendo in pieno il tema marxiano dell’alienazione del
lavoro.
Valeva la pena di riprendere gli interrogativi di Floridi e di
accostarli alle risposte di Ypi e Sahebi (in questa sede pur riassunte molto
schematicamente) perché ci richiamano a una necessità che, in questo frangente
storico, ci appare imprescindibile: è urgente rinnovare un tentativo per
affrontare questo tema partendo da un punto fermo: l’inevitabilità di
ricostruire una coscienza e una volontà politica. La coscienza della propria
appartenenza e la volontà politica di determinare il
cambiamento rimangono fattori insuperabili e necessari come motore di
qualsivoglia iniziativa della trasformazione dello stato presente delle cose. Attenzione
però lo stato presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione
oggettiva della nostra esistenza sia in quello dell’assunzione di una
consapevolezza soggettiva del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza
tra individuale e collettivo “si realizza
la vita d’insieme che è solo la forza sociale, si crea il blocco storico”(Gramsci Quaderno
11). Come auspicava Luckas “la coscienza di classe trova il suo
superamento nell’universale riconoscimento della propria appartenenza al genere
umano”. E l’utopia del sol dell’avvenire:
ben venga se elaborata guardando al futuro senza rimpianti.