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venerdì 18 luglio 2025

RASSEGNA STAMPA
di Franco Continolo

 


Ieri Von der Leyen ha presentato quello che con parole grosse potrebbe essere chiamato il piano settennale dell’UE - parole grosse perché la torta da dividere tra le varie priorità è inferiore al 2% del PIL dell’Unione. Parole grosse  soprattutto perché del piano il bilancio preventivo settennale non ha l’ambizione; esso è infatti uno schema distributivo di risorse, che risponde alle esigenze del momento. Adesso la priorità è la guerra, per cui centinaia di miliardi, compresi 100 solo per l’Ucraina affinché tenga caldo il fronte, sono allocati al riarmo. Alla guerra sono finalizzati anche i fondi destinati alle infrastrutture, perché gli investimenti devono adeguare strade, ponti e ferrovie al transito di mezzi pesanti. Se il futuro è la guerra che razza di sviluppo economico si può immaginare? Il riarmo degli anni Trenta in Germania e negli Stati Uniti diede impulso alla crescita perché si trattava di economie industrializzate. Oggi, dopo quasi cinquant’anni di neoliberismo e globalizzazione, con bilanci zavorrati dal debito e popolazioni in calo, è difficile che il riarmo abbia lo stesso effetto degli anni Trenta; è più probabile che esso acceleri l’impoverimento della classe operaia / media. Per la presidente della Commissione il futuro è la “grandeur”, un’UE che si allarga indefinitamente fino alla Russia compresa (una volta sconfitta e spezzettata): a questa “grandeur” Von der Leyen dà il nome di Global Europe. Non è un nome nuovo, né casuale: esso è stato inventato da due pataccari eccellenti, Blair e Brown per indicare all’UE il percorso opposto a quello dell’europeismo - è il percorso che, con l’allargamento, porta appunto alla guerra alla Russia. Intanto, come anticipato, anche Merz è andato a rendere omaggio ai pataccari che hanno ormai assunto una funzione pontificale. Dell’aria pre-bellica che tira in Germania parla Victor Grossman, un americano a Berlino (Est). Beda Romano, con un interessante reportage, ci porta invece in Danimarca per documentare la militarizzazione in corso. La puntata in Scandinavia pone immediatamente la domanda: come è possibile che quelle socialdemocrazie, un tempo isole di felicità (e di qualche angoscia), abbiano ceduto il campo a regimi guerrafondai come pochi? Una risposta convincente la si può trovare in un articolo che passa in rassegna i libri scritti sulla fine delle socialdemocrazie scandinave, ed è quella di Johan Alfonsson: le socialdemocrazie non hanno cambiato il sistema capitalistico di mercato, pertanto quando la fine del grande ciclo di Otto/Novecento, la globalizzazione e gli sviluppi tecnologici hanno sfibrato la classe operaia e le sue organizzazioni, esse sono entrate in crisi. Ciò che Alfonsson non dice è che il sistema capitalistico, in particolare nella sua forma estrema, neoliberistica, non può fare a meno della guerra e del debito (che in tedesco è Schuld, colpa, il senso di colpa che genera sottomissione).