Nello
scorrere lento della pellicola francese di Berlin-Jerusalem, del 1989,
diretta dal regista Gitai, l’occhio diviene complice, nell’immediato, di quel
connubio poetico-politico che si instaurò fra due grandi donne del primo
Novecento, entrambe frequentatrici del Cafè berlinese “Des Westens”, fulcro di
incontro delle avanguardie artistiche a cavallo fra Ottocento ed inizi del Ventesimo
secolo: da un lato, la poetessa bohémienne tedesca Else Lasker Schüler,
dall’altro, l’attivista e sionista russa Tania, intenta a dare vita al primo
collettivo agricolo, il Kibbutz, in terra promessa; entrambe accomunate
dall’appartenenza alla cultura ebraica e animate dal sogno ecumenico di
pacifica convivenza fra cristiani, arabi ed ebrei, quello stesso sogno esperantista che un
ventennio prima circa, il dottor Zamenhof si era auspicato, sedendosi a
tavolino, per dare alla luce la lingua della pace universale, appunto
l’Esperanto. Gli entusiasmi delle due intellettuali, tuttavia, presto si sarebbero
scontrati con il rigido e violento regime nazista a Berlino e con il disaccordo,
da parte dei sionisti, nei confronti dei popoli arabi e palestinesi intenti a
contendersi la terra di Gerusalemme. Di certo la stravaganza eccentrica della
Schüler non passò inosservata agli avventori ed intellettuali del cafè berlinese,
tanto quanto il suo profondo lirismo poetico e visionario, così apprezzato dall’autore
de La montagna incantata, Thomas Mann, il quale la definì “la più grande
poetessa lirica che la Germania avesse mai avuto”. Intrisa di simbolismo e metafore,
la poesia del “Principe Jussuf”, appellativo a cui la Schüler spesso ricorreva
per autografarsi, è un perpetuo desiderio di amore, un costante movimento verso
il proprio io più intimo e libero, scevro da vincoli politico-sociali. Weltflucht
(Fuga dal mondo), appartenente alla raccolta Hebräische Balladen und
andere Gedichte (Ballate ebraiche e altre poesie), e di cui vi
propongo traduzione, rappresenta, a mio avviso, la massima espressione poetica
di un audace e spirituale desiderio di libertà interiore, a tratti dai toni
adirati, quale riconciliazione con la parte più profonda di sé, per fuggire da
un mondo crudele, spietato, oppressivo, quello nazista, così come di tutti quei
regimi totalitaristi, per difendersi dagli inganni di una società alla mercè
della decadenza intellettuale che le aveva persino privata della propria
cittadinanza costringendola all’esilio.
Voglio nel mio Infinito far ritorno, già fiorisce la stagione autunnale della mia anima, forse, è troppo tardi per ritornare! O, io muoio sotto di voi! Voi mi soffocate. Vorrei tirare fili attorno a me per porre fine al disordine ingannandovi confondendovi In fuga verso me.