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martedì 5 agosto 2025
A TRIESTE IN PIAZZA UNITÀ D’ITALIA
Domani 6 agosto alle ore 18.30, l’Assemblea permanente contro
guerre e riarmo organizza
un presidio in Piazza Unità d'Italia a Trieste per ricordare l’olocausto nucleare in Giappone nel 1945 e
mobilitarsi contro i pericoli di un nuovo conflitto atomico oggi. In allegato il
volantino.
Esortiamo tutti e tutte alla partecipazione!
Coordinamento No Green Pass e Oltre
domenica 3 agosto 2025
GACCIONE POETA
di
Fulvio Papi
Come dice
il titolo di questa raccolta poetica di Angelo Gaccione: Una gioiosa fatica,
il percorso va dal 1964 ad oggi *, sono versi che accompagnano
l’autore per quasi mezzo secolo. Una dimensione temporale e una ritrosia
al pubblicare che fanno pensare che l’autore non abbia affatto programmato sé
stesso come “poeta di professione”, destinato quasi necessariamente a dare una nominazione
estetica ai suoi versi secondo il noto criterio per cui vi sono tante poetiche
quanti sono i poeti. Al contrario si potrebbe dire che all’orecchio educato al
suono poetico lo scrivere versi si è presentato come il solo modo per contenere
l’esperienza e la sensibilità, il dolore e la saggezza, la gioia e la morale,
in un lessico che prenda la strada della sua coerenza, dove le parole usuali si
trasfigurano e diventano emblemi che, una volta compiuti, come accade ad ogni
scrittura valida, sfuggiranno al suo autore per interrogare con apparente
dolcezza, il lento apparire della nostra esistenza.
Gaccione è autore che interviene
sul suo lavoro e divide il corso poetico secondo una serie di temi (le
“ritrovate”, le “appassionate”, le “straniere”, le “amorose”, ecc.) iniziativa
insolita che predilige il senso e la sua ripetizione, rispetto al segno
temporale che pure accompagna ogni poesia.
Il nostro poeta - lo voglia o no
- comprende così che il vivere appartiene a una serie di occasioni che gettano
la sensibilità in un sistema di relazioni che possono insistere e reiterarsi
persino, senza mai diventare una storia conchiusa. E quindi ogni volta una
certezza così forte che richiede il soccorso del dire poetico dell’occasione,
testimone di un’onda del tempo. Ritroviamo così i luoghi di una esistenza che,
fedele a sé stessa, ha attraversato il mondo.
Gaccione, dunque, seleziona
l’appartenenza delle sue poesie e, involontariamente, orienta il lettore che,
tuttavia, se solo un poco esperto, trova senza difficoltà nella fonte
d’esistenza della realtà poetica, rappresentata dall’energia vitale che investe
il valore verbale di ogni composizione che coinvolgono persone, luoghi,
emozioni, l’amata, immaginazioni e giudizi come modi dell’apparire di sé a sé
stesso. Non sarebbe difficile citare versi che appartengono alle diverse
stazioni del suo corso poetico e percepire le somiglianze nonostante la diversa
collocazione di luogo:
“Verranno altri passeri dopo
di me
a beccare il grano della vita
Nuove bocche suoneranno senza
timore
i nostri flauti”
(Monologo di Vera Rostov, 1977)
*
“Come sono belle le nuvole
viste da dietro le sbarre…
Non avevo mai amato il cielo
così intensamente”
(1997)
*
“Nuvole vaganti del vento di aprile
portateci la pioggia feconda
per lavare il selciato della
miseria”
(1977)
E non sarebbe nemmeno difficile
continuare con reperti anche più antichi per ritrovare struggenti memorie
dell’origine o lacerti divinizzati dell’ambiente naturale come se tra i solchi
della vita propria, la propria vita segreta e l’ordito dell’alterità - umana e
naturale - vi fosse un tramite che la passione del vivere ritrova e fa
definitivamente proprio. Del resto la stessa emozione accende la città della
propria dimora e il luogo d’origine nella splendida Calabria, e appare una
Milano così ricca qui nella poesia come povera (e il poeta lo sa bene) nei
nostri sguardi già consumati dal pensiero.
“Stupenda notte di Milano
bella per noi poeti
chi osa ancora oltraggiarti?
Dacci la tua musica che ci
appartiene
e i tuoi figli violenti
La notte è degli artisti
il giorno è dei mercanti
Mia amata-odiata città
prima che l’alba arrivi
avvolgimi fra i tuoi umori”
(1982)
Differenti le città percorse da
viaggi di lavoro o nelle vacanze: prevalgono le occasioni di uno sguardo
intelligente ma leggero perché distante dal circuito abituale della vita, e
tuttavia - lo sguardo - limita a qualche timbro storico e, contemporaneamente,
quasi un reperto del turista vagante.
Place
de la Concorde
“Annie mi fotografa sotto
l’obelisco
di Ludovico Filippo I
-Francorum rex-
dice la scritta
Proprio io
che non amo i re”
(Parigi, 1980)
L’esplorazione dei luoghi è anche
una prova di pietà per quell’umanità che bisogna cercare ai margini dove la
vita viene distrutta in un giogo euforico e devastante:
“Turchi e greci affollano i
Gasthauser
e la birra trabocca dai boccali
costa un marco il piacere al
sex-shop
Slavi e neri addentano wurste al
Winerwald
e gli italiani cantano
canzoni vecchie di vent’anni
prima di ammassarsi ubriachi
alle periferie”
(München, 1981)
È l’altro che sarà sempre altro
perché la scrittura dipinge, il sentimento affonda, ma le cose come sono
vincono ogni battaglia. L’aggettivo sociale che si può spendere con tristezza è
“lontano”. E così, forse perché il “vicino” è più semplice per il
lettore parziale quale io sono, e quindi senza giudizio preliminare ma solo con
la dolcezza dell’ascolto, preferisco il canzoniere d’amore. Qui la forza e la
felicità della vita - doni che non mancano mai - precipitano come
un’inarrestabile cascata del sentimento e della passione su un unico punto come
se in quegli occhi e in quel corpo si svelasse con un irriducibile “essere
proprio” il segreto essenziale dell’esistenza e la possibilità di una vita che
riconosce la profondità delle proprie radici:
“Avere una ragione per vivere
-tu dici-
Ecco. Io ne ho molte ma non è
facile.
Eppure la vita è bellissima
Specialmente se mi appare con i
tuoi occhi”
(1981)
*
“[…] E poi lasciami bere
il tuo fresco sorriso”.
(1987)
Potrei naturalmente continuare le
citazioni, ma nell’insieme è come se quel raggio d’amore con i suoi stili
cangianti che percorre tutta questa poesia, s’illuminasse di una luce diversa,
magari fosforescente, che con le altre illuminazioni non si può confondere. Ma
amore è anche l’ostinazione a ribellarsi al male, alla vita che non fiorisce
più e s’accascia come aspettasse, del resto invano, il giorno del giudizio.
Vale per le più antiche poesie del luogo natio, degli affetti che sanno di
radici e di terra, e s’addensa con nuovi equilibri narrativi per cogliere
sdegno e angoscia.
Tragicamente espressiva la
bellissima poesia per i bambini morti nella Scuola Numero Uno di Beslan durante
lo scontro tra i separatisti ceceni e i corpi speciali russi nel 2008, vi
appare un verso che chiude il lirismo con un suono crudo ed essenziale, attento
piuttosto a una “lezione di morale”.
Tra la linea più antica e le
occasioni sociali più vicine ai nostri giorni non leggerei la differenza tra
un’aura poetica e una differenza di senso. Gaccione mi sembra sempre lo stesso:
la poesia viene a lui come un’onda d’urto della realtà e la composizione
l’accoglie con le parole che dal profondo vengono a galla come da tempo attese:
“Oh sì Signori
avete ragione da vendere
è proprio uno sconcio
un’offesa al buon gusto
un oltraggio allo sguardo
di Signori compìti quali siete.
È come se un paesaggio butterato
stesse un po’ alla volta
invadendo un’oasi sublime di
bellezza
[…] avete fin troppo buon
cuore
a dire che si tratta di “cattivo
odore”
la verità è che puzzano
puzzano è la parola giusta
lo si può constatare se appena vi
sfiorano
[…]
(Cinquantanove versi, settembre
2010)
La poeticità qui nasce
dall’impatto violento delle parole con una referenza percettiva. Non è facile
un modo meno crudo per narrare fatti che travolgono il perimetro dell’io ed
evocano un’idea di umanità che nel suo apparente trionfo mette l’io in un
angolo solitario. Morale? Eppure il “critico di poesia” non dovrebbe
dimenticare i versi: “È come se un paesaggio butterato/ stesse
un po’ alla volta/ invadendo un’oasi sublime di bellezza”.
Vorrei terminare con una poesia
che disegna una storia con una grazia leggera:
“[…] Se fossi Raboni
mi basterebbe una scaglia, una
traccia
o forse solo un riflesso
Se fossi Fortini
mi farei greve come la pietra
in questa grigia luce lombarda
Se fossi Cucchi
mi attaccherei alla muta dignità
delle rovine
Se fossi Loi o Roversi
la mia poesia sarebbe pura
e la potrei appendere
all’arcobaleno del cielo
come un bucato pulito
Siccome sono solo un uomo
un uomo fin tropo normale
me ne sto come un fiore selvaggio
fra le crepe di un muro
e guardo la vita passare”
(Divagando, 1999)

La copertina del libro
All’uomo per cui la poesia per
tutta la vita è, con il ritmo del tempo, una sorpresa felice dell’animo, ci
credo. Al “fiore selvaggio” riservo il riconoscimento che gli è dovuto da ogni
petalo di serra. Ma il “guardare la vita” è solo un tasto armonioso con il
resto della composizione, come dire, che il piacere di un buon verso può anche
mentire.
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La copertina del libro |
[*Milano, aprile 2011]
COME ACQUISTARE IL LIBRO
Una
gioiosa fatica - 1964 – 2022
a cura di Giuseppe Langella
di Angelo
Gaccione,
Pagine 160
euro 16
è possibile acquistarlo
direttamente in libreria
Richiederlo alla
Casa Editrice:
La Scuola di
Pitagora Editrice
Via Monte di
Dio n. 14
80132 Napoli
Tel. 081 7646814 - fax al numero
081 7646814
o inviando una mail all'indirizzo
info@lascuoladipitagora.it
scuoladipitagora@pec.it
Ordinarlo su
Amazon
Telefonando a “Odissea” al numero 348 - 8760129
Il libro è
uscito nella Collana Fendinebbia
Laboratorio
di poesia civile diretto da Giuseppe Langella.
Contiene una
Ouverture di Franco Loi
Una Introduzione
di Tiziano Rossi
Una Post-fazione
di Fulvio Papi
CINEMA E CONSAPEVOLEZZA
di Luigi Mazzella
Humane, opera prima di Caitlin Cronenberg.
Non
è di certo un’umanità bella e felice quella che viene fuori da Humane,
il film di esordio alla regia di Caitlin Cronenberg, figlia del famoso regista
canadese David, autore di pellicole di forte impatto psicologico (detti dalla
critica di Body horror per la loro attenzione ai mutamenti del
corpo umano).
Caitlin
sposta il fulcro della sua attenzione indagatrice dal singolosoggetto alla
collettività umana, rappresentando il mondo di oggi, giunto, a suo dire, a
un livello tale di sovraffollamento da rendere il clima irrespirabile e sostanzialmente impossibile
per la sopravvivenza della specie umana.
La
narratrice non ci ricorda ciò che gli etologi hanno dimostrato essere esiziale
per i ratti; nulla ci dice, infatti, degli esperimenti scientifici che
hanno dimostrato che i topi immessi in uno spazio circoscritto, quando il
loro numero aumenta, si dilaniano reciprocamente senza freni.
Né
l’autrice aggiunge che in Occidente (in quella parte di mondo dove i
monoteismi religiosi e i fanatismi politici hanno seminato odio a piene mani
tra gli abitanti) l’autodistruzione collettiva è cominciata già prima del
sovraffollamento del Pianeta. Nel racconto fantasioso
della giovane regista, la situazione determinatasi per l’insipienza umana
costringe i governi di tutto il Pianeta a imporre l’eutanasia come mezzo
di controllo demografico: in altre parole si vede nella
scomparsa di viventi del tutto innocenti l’’unica possibile soluzione del
problema. Ciò, posso aggiungere, in coerenza con l’idea della morte
che aleggia e domina non solo i monoteismi mediorientali ma anche le
elucubrazioni dell’idealismo tedesco post-platonico di destra e di
sinistra.
L’autrice
omette di ricordarci che fuori dell’Occidente, in Cina, in assenza della
predicazione religiosa sulla “procreazione a gogò”, sul divieto di misure
anticoncezionali (i profilattici sono stati esclusi, in alto loco, anche
per i malati africani di AIDS) costantemente propagandata come dettato
divino da Alti Prelati ecclesiastici, preoccupati di
ingrossare l’esercito dei propri seguaci per combattere gli
infedeli, da ignoranti parroci di campagna e da beghine e bigotti di scarsa perspicacia
intellettuale, la proliferazione delle nascite era stata impedita incidendo
sulla natalità e non sulla morte.
Caitlin
Cronenberg non manca di individuare nella “sacra” istituzione della “famiglia”
e nelle relazioni che in essa si intessono la fonte di una insana competizione
individuale, di invidie interpersonali, di rancori a lungo covati. Il finale
grandguignolesco del film mostra con la sua ecatombe di congiunti questo
secondo assunto della regista.
Prima Domanda: È possibile
desumere che la giovane Cronenberg ritenga impossibile riportare
l’Occidente al pensiero libero e razionale (e, magari, anche migliore, dati i
millenni trascorsi e i progressi che la cultura scientifica, nonostante
gli ostacoli religiosi o ideologici, è riuscita comunque a compiere) della
civiltà greco-romana?
Seconda
domanda: È corretto pensare che il ritorno a una vita
personale e collettiva ispirata all’uso del raziocinio e all’esorcismo delle
credenze fantasiose non è tanto impedito e ostacolato dalla massa (che presto,
per la sua natura, si adegua a tutto) quanto dai cosiddetti
“intellettuali” che avendo costruito i cadreghini del loro potere su
una moltitudine di concetti farlocchi e taroccati (espressi con
dovizia di espressioni erudite e ricercate) incontrano difficoltà ad
abbandonare il loro comodo (e spesso ben remunerativo) angolino di “false
certezze” da “insegnare” agli altri?
BRESCIA E BOLOGNA STRAGI DI STATO
Hanno tramato in tanti, per anni. Pezzi interi di Stato
hanno fatto guerra ai propri cittadini ammazzando alla cieca innocenti di ogni
categoria sociale Servizi Segreti, Gladio, Massoneria, Cia, Nato, Fascisti, Neonazisti,
Partiti di destra e filoamericani, Mafiosi legati a filo doppio con apparati
criminali dello Stato italiano e con quelli di Washington.
E ancora siano ostaggi e servi della più guerrafondaia nazione che la storia del dopoguerra abbia partorito. Una nazione che ammazza i propri presidenti, che si allea con i peggiori regimi del mondo, con i criminali di ogni sorta, che calpesta il diritto di intere nazioni, che ha favorito il terrorismo internazionale, che ha tramato per assassinare la giovane e fragile democrazia italiana, e che con impudenza, una stampa corriva e dei partiti foraggiati, si ostiniamo a considerare la più matura democrazia al mondo!
POETI E TERRA
di
Anna Rutigliano

Fadwà Tuqan
Testimone
della Nakba (النكبة), la Catastrofe palestinese del 1948, che causò
drammaticamente l’espropriazione forzata di abitazioni di circa 700,000 residenti
e devastazioni di villaggi completamente rasi al suolo, a seguito della risoluzione
ONU 181 sulla partizione della Palestina e della dichiarazione d’indipendenza
dello Stato di Israele, da sempre, attivista impegnata, partecipando in prima
linea , circa vent’anni dopo, alla Guerra dei sei giorni, nota come Naksa
(النكسة), la Ricaduta, Fadwà Tūqān
( طوقا فدوى) rappresenta
una delle voci femminili più influenti, nel panorama internazionale della poesia
contemporanea, sul conflitto arabo-palestinese, le cui liriche impregnate di denso
amore verso la propria patria, Nablus, grande polo commerciale della
Cisgiordania, le valsero l’epiteto di “Madre della poesia palestinese” da parte
di un altrettanto importante poeta, suo connazionale, Mahmoud Darwish (محمود درويش). Persino il poeta
di Modica, Salvatore Quasimodo, in un incontro durante la Conferenza
Internazionale sulla Pace, tenutasi a Stoccolma nel 1959, non poté resistere
alla bellezza della profondità e della luce che gli occhi della Tūqān sapevano
profondere. Di rimando, la poetessa gli
dedicò una lirica in cui ribadiva il suo attaccamento alle radici palestinesi:
“Io, poeta mio, ho nella mia cara patria un innamorato che attende il mio
ritorno…Perdona o caro, l’orgoglio del mio cuore al sentirti bisbigliare
dolcemente: i tuoi occhi sono profondi e tu sei bella”. Ma Fadwà Tūqān
è anche la voce di protesta e resistenza di tutte le donne oppresse dalle
regole di una società rigidamente conservatrice, lei che aveva patito l’austera
educazione di suo padre costringendola ad abbandonare gli studi: suo fratello
Ibrahim la inizierà alla poesia quale spazio di riscatto intellettuale raggiungendo
e scuotendo i cuori di ogni angolo terrestre. Ed è proprio la terra l’emblema
principale dei versi liberi della lirica “Mi basta rimanere
nell’abbraccio” (كفاني أظل بحضنها), di cui
vi riporto la personale interpretazione, avendo attinto dal testo fonte in
lingua araba e avendolo comparato con la versione in inglese pubblicata dal giornale libero Palestine Today,
Free Journal and Lokesh Tripathi. Tutta l’umiltà della poetessa di Nablus è
racchiusa nella duplice reiterazione del “mi basta” con cui si apre e si
chiude la lirica; il suo è un dolore disteso, umile, nonostante la dignità violata
in quanto essere umano appartenente al popolo palestinese; una umiltà che
germoglia dalle radici stesse del suolo e che desidera tramutarsi in semplice
fiore, radicato alla propria terra in un eterno abbraccio.

Mi
basta rimanere nell’abbraccio
Mi
basta morire sulla mia terra
esservi
lì sepolta,
impastarmi
e perire nel suo suolo fecondo,
per
poi rinascere erba sulla mia terra,
per
poi rinascere fiore
sgualcito
dal palmo infantile di un bimbo lì cresciuto.
Mi
basta rimanere nell’abbraccio del mio paese
Polvere
Erba
Fiore
È
proprio nella scrittura poetica che Fadwà Tūqān riscopre il luogo intimo e
incontaminato di realizzazione dell’affetto paterno negato, incarnato
nell’immagine della patria e del fiore in essa germogliato, simile alla
ginestra leopardiana, simbolo di delicata speranza in grado di sopravvivere alle
rovine naturali e artificiali.
In
ultima analisi, durante l’atto traduttivo, mi ha destato stupore l’assonanza
linguistica fra la parola araba ard (أرض ) e quella inglese earth, a voler ribadire
sul piano semantico, quanto da Oriente ad Occidente e viceversa, la terra sia
un diritto di tutti da non violarsi assolutamente, come sancito, settantasette
anni fa, nell’articolo 11 della
risoluzione ONU 194.
A
tal proposito si fanno quanto mai attuali e urgenti i versi del nostro amico
poeta Zaccaria Gallo, tratti dalla raccolta: Come lumaca amante di ferula:
“purché una piccola parola spoglia da una pena ci tolga con sollievo il
sangue nel deserto…” (la Pace!).
IN VERSI
di Zaccaria Gallo
Luce su altra proda
La tua luce su altra proda
s’avvolge alle dita del vento
corde in attesa della schiusa
sul colore dei veli grato
d’un promesso risveglio
è già dono anche se insicura
giungerà la chiama
lasceremo alle onde dell’aurora
il manto che nella notte
ci ha difeso dal sanguinare dei desideri
dagli ininterrotti baci della malinconia
e sarà solo nostro il volo
nella sempre sognata libertà
LA POESIA
di Laura Margherita Volante
Brusio d’autunno
Le foglie arrossate si
disperdono nel vento
inseguendo i sogni
della giovinezza.
I passi tra i vigneti
dolce brusio
di chi si ferma nel
carpire il dolciore
di acini grassi
dorati di sole.
È la vita che ubriaca
di illusioni canta
note di sapori e profumi.
Il brusio d’autunno
con le foglie arrossate
nel vento
per farne corona
sulla tua candida chioma.
I passi incerti ora sulle
zolle assetate
ne bevono il succo
fruttato d’ambrosia
per giungere a sera
ebbre di memorie e
di luce.
È la luna che
parla con un sospiro...
Forse... un incanto.
CINEMA
di Marco
Sbrana
Quando Godot
è arrivato, non l’abbiamo riconosciuto. Anomalisa di Charlie Kaufman.
Il cinema di Charlie Kaufman è indagine sulla
stortura del postmodernismo. Studiare il trauma dell’individuo d’oggi è,
innanzitutto, formulare una teoria linguistica. Nell’impossibilità di
esprimere, chiese un intervistatore a Samuel Beckett, cosa resta all’artista?
Il dovere di esprimere, rispose l’autore. Ma come? Joyce ci aveva già pensato.
Studiare ciò che turba l’individuo contemporaneo è elaborare un registro, un
tessuto, un discorso che sia all’altezza della complessità. Franto com’è l’individuo,
il contenitore in cui viene immesso artisticamente non può che essere
frantumato altrettanto. Un linguaggio lineare - già lo aveva intuito Joyce - è
insufficiente. Così come si spezza l’individuo (diciamo il contenuto) si spezza
(si deve spezzare) la forma. David Lynch lo sapeva; lo sa Kaufman.

Charlie Kaufman
