GACCIONE POETA
di
Fulvio Papi
Come dice
il titolo di questa raccolta poetica di Angelo Gaccione: Una gioiosa fatica,
il percorso va dal 1964 ad oggi *, sono versi che accompagnano
l’autore per quasi mezzo secolo. Una dimensione temporale e una ritrosia
al pubblicare che fanno pensare che l’autore non abbia affatto programmato sé
stesso come “poeta di professione”, destinato quasi necessariamente a dare una nominazione
estetica ai suoi versi secondo il noto criterio per cui vi sono tante poetiche
quanti sono i poeti. Al contrario si potrebbe dire che all’orecchio educato al
suono poetico lo scrivere versi si è presentato come il solo modo per contenere
l’esperienza e la sensibilità, il dolore e la saggezza, la gioia e la morale,
in un lessico che prenda la strada della sua coerenza, dove le parole usuali si
trasfigurano e diventano emblemi che, una volta compiuti, come accade ad ogni
scrittura valida, sfuggiranno al suo autore per interrogare con apparente
dolcezza, il lento apparire della nostra esistenza.
Gaccione è autore che interviene
sul suo lavoro e divide il corso poetico secondo una serie di temi (le
“ritrovate”, le “appassionate”, le “straniere”, le “amorose”, ecc.) iniziativa
insolita che predilige il senso e la sua ripetizione, rispetto al segno
temporale che pure accompagna ogni poesia.
Il nostro poeta - lo voglia o no
- comprende così che il vivere appartiene a una serie di occasioni che gettano
la sensibilità in un sistema di relazioni che possono insistere e reiterarsi
persino, senza mai diventare una storia conchiusa. E quindi ogni volta una
certezza così forte che richiede il soccorso del dire poetico dell’occasione,
testimone di un’onda del tempo. Ritroviamo così i luoghi di una esistenza che,
fedele a sé stessa, ha attraversato il mondo.
Gaccione, dunque, seleziona
l’appartenenza delle sue poesie e, involontariamente, orienta il lettore che,
tuttavia, se solo un poco esperto, trova senza difficoltà nella fonte
d’esistenza della realtà poetica, rappresentata dall’energia vitale che investe
il valore verbale di ogni composizione che coinvolgono persone, luoghi,
emozioni, l’amata, immaginazioni e giudizi come modi dell’apparire di sé a sé
stesso. Non sarebbe difficile citare versi che appartengono alle diverse
stazioni del suo corso poetico e percepire le somiglianze nonostante la diversa
collocazione di luogo:
“Verranno altri passeri dopo
di me
a beccare il grano della vita
Nuove bocche suoneranno senza
timore
i nostri flauti”
(Monologo di Vera Rostov, 1977)
*
“Come sono belle le nuvole
viste da dietro le sbarre…
Non avevo mai amato il cielo
così intensamente”
(1997)
*
“Nuvole vaganti del vento di aprile
portateci la pioggia feconda
per lavare il selciato della
miseria”
(1977)
E non sarebbe nemmeno difficile
continuare con reperti anche più antichi per ritrovare struggenti memorie
dell’origine o lacerti divinizzati dell’ambiente naturale come se tra i solchi
della vita propria, la propria vita segreta e l’ordito dell’alterità - umana e
naturale - vi fosse un tramite che la passione del vivere ritrova e fa
definitivamente proprio. Del resto la stessa emozione accende la città della
propria dimora e il luogo d’origine nella splendida Calabria, e appare una
Milano così ricca qui nella poesia come povera (e il poeta lo sa bene) nei
nostri sguardi già consumati dal pensiero.
“Stupenda notte di Milano
bella per noi poeti
chi osa ancora oltraggiarti?
Dacci la tua musica che ci
appartiene
e i tuoi figli violenti
La notte è degli artisti
il giorno è dei mercanti
Mia amata-odiata città
prima che l’alba arrivi
avvolgimi fra i tuoi umori”
(1982)
Differenti le città percorse da
viaggi di lavoro o nelle vacanze: prevalgono le occasioni di uno sguardo
intelligente ma leggero perché distante dal circuito abituale della vita, e
tuttavia - lo sguardo - limita a qualche timbro storico e, contemporaneamente,
quasi un reperto del turista vagante.
Place
de la Concorde
“Annie mi fotografa sotto
l’obelisco
di Ludovico Filippo I
-Francorum rex-
dice la scritta
Proprio io
che non amo i re”
(Parigi, 1980)
L’esplorazione dei luoghi è anche
una prova di pietà per quell’umanità che bisogna cercare ai margini dove la
vita viene distrutta in un giogo euforico e devastante:
“Turchi e greci affollano i
Gasthauser
e la birra trabocca dai boccali
costa un marco il piacere al
sex-shop
Slavi e neri addentano wurste al
Winerwald
e gli italiani cantano
canzoni vecchie di vent’anni
prima di ammassarsi ubriachi
alle periferie”
(München, 1981)
È l’altro che sarà sempre altro
perché la scrittura dipinge, il sentimento affonda, ma le cose come sono
vincono ogni battaglia. L’aggettivo sociale che si può spendere con tristezza è
“lontano”. E così, forse perché il “vicino” è più semplice per il
lettore parziale quale io sono, e quindi senza giudizio preliminare ma solo con
la dolcezza dell’ascolto, preferisco il canzoniere d’amore. Qui la forza e la
felicità della vita - doni che non mancano mai - precipitano come
un’inarrestabile cascata del sentimento e della passione su un unico punto come
se in quegli occhi e in quel corpo si svelasse con un irriducibile “essere
proprio” il segreto essenziale dell’esistenza e la possibilità di una vita che
riconosce la profondità delle proprie radici:
“Avere una ragione per vivere
-tu dici-
Ecco. Io ne ho molte ma non è
facile.
Eppure la vita è bellissima
Specialmente se mi appare con i
tuoi occhi”
(1981)
*
“[…] E poi lasciami bere
il tuo fresco sorriso”.
(1987)
Potrei naturalmente continuare le
citazioni, ma nell’insieme è come se quel raggio d’amore con i suoi stili
cangianti che percorre tutta questa poesia, s’illuminasse di una luce diversa,
magari fosforescente, che con le altre illuminazioni non si può confondere. Ma
amore è anche l’ostinazione a ribellarsi al male, alla vita che non fiorisce
più e s’accascia come aspettasse, del resto invano, il giorno del giudizio.
Vale per le più antiche poesie del luogo natio, degli affetti che sanno di
radici e di terra, e s’addensa con nuovi equilibri narrativi per cogliere
sdegno e angoscia.
Tragicamente espressiva la
bellissima poesia per i bambini morti nella Scuola Numero Uno di Beslan durante
lo scontro tra i separatisti ceceni e i corpi speciali russi nel 2008, vi
appare un verso che chiude il lirismo con un suono crudo ed essenziale, attento
piuttosto a una “lezione di morale”.
Tra la linea più antica e le
occasioni sociali più vicine ai nostri giorni non leggerei la differenza tra
un’aura poetica e una differenza di senso. Gaccione mi sembra sempre lo stesso:
la poesia viene a lui come un’onda d’urto della realtà e la composizione
l’accoglie con le parole che dal profondo vengono a galla come da tempo attese:
“Oh sì Signori
avete ragione da vendere
è proprio uno sconcio
un’offesa al buon gusto
un oltraggio allo sguardo
di Signori compìti quali siete.
È come se un paesaggio butterato
stesse un po’ alla volta
invadendo un’oasi sublime di
bellezza
[…] avete fin troppo buon
cuore
a dire che si tratta di “cattivo
odore”
la verità è che puzzano
puzzano è la parola giusta
lo si può constatare se appena vi
sfiorano
[…]
(Cinquantanove versi, settembre
2010)
La poeticità qui nasce
dall’impatto violento delle parole con una referenza percettiva. Non è facile
un modo meno crudo per narrare fatti che travolgono il perimetro dell’io ed
evocano un’idea di umanità che nel suo apparente trionfo mette l’io in un
angolo solitario. Morale? Eppure il “critico di poesia” non dovrebbe
dimenticare i versi: “È come se un paesaggio butterato/ stesse
un po’ alla volta/ invadendo un’oasi sublime di bellezza”.
Vorrei terminare con una poesia
che disegna una storia con una grazia leggera:
“[…] Se fossi Raboni
mi basterebbe una scaglia, una
traccia
o forse solo un riflesso
Se fossi Fortini
mi farei greve come la pietra
in questa grigia luce lombarda
Se fossi Cucchi
mi attaccherei alla muta dignità
delle rovine
Se fossi Loi o Roversi
la mia poesia sarebbe pura
e la potrei appendere
all’arcobaleno del cielo
come un bucato pulito
Siccome sono solo un uomo
un uomo fin tropo normale
me ne sto come un fiore selvaggio
fra le crepe di un muro
e guardo la vita passare”
(Divagando, 1999)

La copertina del libro
All’uomo per cui la poesia per
tutta la vita è, con il ritmo del tempo, una sorpresa felice dell’animo, ci
credo. Al “fiore selvaggio” riservo il riconoscimento che gli è dovuto da ogni
petalo di serra. Ma il “guardare la vita” è solo un tasto armonioso con il
resto della composizione, come dire, che il piacere di un buon verso può anche
mentire.
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La copertina del libro |
[*Milano, aprile 2011]
COME ACQUISTARE IL LIBRO
Una
gioiosa fatica - 1964 – 2022
a cura di Giuseppe Langella
di Angelo
Gaccione,
Pagine 160
euro 16
è possibile acquistarlo
direttamente in libreria
Richiederlo alla
Casa Editrice:
La Scuola di
Pitagora Editrice
Via Monte di
Dio n. 14
80132 Napoli
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Il libro è
uscito nella Collana Fendinebbia
Laboratorio
di poesia civile diretto da Giuseppe Langella.
Contiene una
Ouverture di Franco Loi
Una Introduzione
di Tiziano Rossi
Una Post-fazione
di Fulvio Papi