UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 3 agosto 2025

GACCIONE POETA
di Fulvio Papi



Come dice il titolo di questa raccolta poetica di Angelo Gaccione: Una gioiosa fatica, il percorso va dal 1964 ad oggi *, sono versi che accompagnano l’autore per quasi mezzo secolo. Una dimensione temporale e una ritrosia al pubblicare che fanno pensare che l’autore non abbia affatto programmato sé stesso come “poeta di professione”, destinato quasi necessariamente a dare una nominazione estetica ai suoi versi secondo il noto criterio per cui vi sono tante poetiche quanti sono i poeti. Al contrario si potrebbe dire che all’orecchio educato al suono poetico lo scrivere versi si è presentato come il solo modo per contenere l’esperienza e la sensibilità, il dolore e la saggezza, la gioia e la morale, in un lessico che prenda la strada della sua coerenza, dove le parole usuali si trasfigurano e diventano emblemi che, una volta compiuti, come accade ad ogni scrittura valida, sfuggiranno al suo autore per interrogare con apparente dolcezza, il lento apparire della nostra esistenza.
Gaccione è autore che interviene sul suo lavoro e divide il corso poetico secondo una serie di temi (le “ritrovate”, le “appassionate”, le “straniere”, le “amorose”, ecc.) iniziativa insolita che predilige il senso e la sua ripetizione, rispetto al segno temporale che pure accompagna ogni poesia.
Il nostro poeta - lo voglia o no - comprende così che il vivere appartiene a una serie di occasioni che gettano la sensibilità in un sistema di relazioni che possono insistere e reiterarsi persino, senza mai diventare una storia conchiusa. E quindi ogni volta una certezza così forte che richiede il soccorso del dire poetico dell’occasione, testimone di un’onda del tempo. Ritroviamo così i luoghi di una esistenza che, fedele a sé stessa, ha attraversato il mondo.
Gaccione, dunque, seleziona l’appartenenza delle sue poesie e, involontariamente, orienta il lettore che, tuttavia, se solo un poco esperto, trova senza difficoltà nella fonte d’esistenza della realtà poetica, rappresentata dall’energia vitale che investe il valore verbale di ogni composizione che coinvolgono persone, luoghi, emozioni, l’amata, immaginazioni e giudizi come modi dell’apparire di sé a sé stesso. Non sarebbe difficile citare versi che appartengono alle diverse stazioni del suo corso poetico e percepire le somiglianze nonostante la diversa collocazione di luogo:
 
Verranno altri passeri dopo di me
a beccare il grano della vita
Nuove bocche suoneranno senza timore
 i nostri flauti
(Monologo di Vera Rostov, 1977)
 
*
Come sono belle le nuvole
 viste da dietro le sbarre…
 Non avevo mai amato il cielo
così intensamente
(1997)
 
*
 Nuvole vaganti del vento di aprile
 portateci la pioggia feconda 
per lavare il selciato della miseria
(1977)
                                     
 
E non sarebbe nemmeno difficile continuare con reperti anche più antichi per ritrovare struggenti memorie dell’origine o lacerti divinizzati dell’ambiente naturale come se tra i solchi della vita propria, la propria vita segreta e l’ordito dell’alterità - umana e naturale - vi fosse un tramite che la passione del vivere ritrova e fa definitivamente proprio. Del resto la stessa emozione accende la città della propria dimora e il luogo d’origine nella splendida Calabria, e appare una Milano così ricca qui nella poesia come povera (e il poeta lo sa bene) nei nostri sguardi già consumati dal pensiero.
 
Stupenda notte di Milano
bella per noi poeti
chi osa ancora oltraggiarti?
Dacci la tua musica che ci appartiene
e i tuoi figli violenti
La notte è degli artisti
il giorno è dei mercanti
Mia amata-odiata città
prima che l’alba arrivi
avvolgimi fra i tuoi umori 
(1982)
 
Differenti le città percorse da viaggi di lavoro o nelle vacanze: prevalgono le occasioni di uno sguardo intelligente ma leggero perché distante dal circuito abituale della vita, e tuttavia - lo sguardo - limita a qualche timbro storico e, contemporaneamente, quasi un reperto del turista vagante.
 
Place de la Concorde
 
Annie mi fotografa sotto l’obelisco
di Ludovico Filippo I
-Francorum rex-
dice la scritta
Proprio io
che non amo i re 
(Parigi, 1980)
 
 
L’esplorazione dei luoghi è anche una prova di pietà per quell’umanità che bisogna cercare ai margini dove la vita viene distrutta in un giogo euforico e devastante:
 
Turchi e greci affollano i Gasthauser
e la birra trabocca dai boccali
costa un marco il piacere al sex-shop
Slavi e neri addentano wurste al Winerwald
e gli italiani cantano
canzoni vecchie di vent’anni
prima di ammassarsi ubriachi
alle periferie” 

(München, 1981)
 

È l’altro che sarà sempre altro perché la scrittura dipinge, il sentimento affonda, ma le cose come sono vincono ogni battaglia. L’aggettivo sociale che si può spendere con tristezza è “lontano”. E così, forse perché il “vicino” è più semplice per il lettore parziale quale io sono, e quindi senza giudizio preliminare ma solo con la dolcezza dell’ascolto, preferisco il canzoniere d’amore. Qui la forza e la felicità della vita - doni che non mancano mai - precipitano come un’inarrestabile cascata del sentimento e della passione su un unico punto come se in quegli occhi e in quel corpo si svelasse con un irriducibile “essere proprio” il segreto essenziale dell’esistenza e la possibilità di una vita che riconosce la profondità delle proprie radici:
 
Avere una ragione per vivere
-tu dici-
Ecco. Io ne ho molte ma non è facile.
Eppure la vita è bellissima
Specialmente se mi appare con i tuoi occhi
(1981)
 
*
“[…] E poi lasciami bere
il tuo fresco sorriso”.
(1987)
 
Potrei naturalmente continuare le citazioni, ma nell’insieme è come se quel raggio d’amore con i suoi stili cangianti che percorre tutta questa poesia, s’illuminasse di una luce diversa, magari fosforescente, che con le altre illuminazioni non si può confondere. Ma amore è anche l’ostinazione a ribellarsi al male, alla vita che non fiorisce più e s’accascia come aspettasse, del resto invano, il giorno del giudizio. Vale per le più antiche poesie del luogo natio, degli affetti che sanno di radici e di terra, e s’addensa con nuovi equilibri narrativi per cogliere sdegno e angoscia.
Tragicamente espressiva la bellissima poesia per i bambini morti nella Scuola Numero Uno di Beslan durante lo scontro tra i separatisti ceceni e i corpi speciali russi nel 2008, vi appare un verso che chiude il lirismo con un suono crudo ed essenziale, attento piuttosto a una “lezione di morale”.


 
Tra la linea più antica e le occasioni sociali più vicine ai nostri giorni non leggerei la differenza tra un’aura poetica e una differenza di senso. Gaccione mi sembra sempre lo stesso: la poesia viene a lui come un’onda d’urto della realtà e la composizione l’accoglie con le parole che dal profondo vengono a galla come da tempo attese:
 
Oh sì Signori
avete ragione da vendere
è proprio uno sconcio
un’offesa al buon gusto
un oltraggio allo sguardo
di Signori compìti quali siete.
È come se un paesaggio butterato
stesse un po’ alla volta
invadendo un’oasi sublime di bellezza
[…] avete fin troppo buon cuore
a dire che si tratta di cattivo odore
la verità è che puzzano
puzzano è la parola giusta
lo si può constatare se appena vi sfiorano
[…]
(Cinquantanove versi, settembre 2010)
 
La poeticità qui nasce dall’impatto violento delle parole con una referenza percettiva. Non è facile un modo meno crudo per narrare fatti che travolgono il perimetro dell’io ed evocano un’idea di umanità che nel suo apparente trionfo mette l’io in un angolo solitario. Morale? Eppure il “critico di poesia” non dovrebbe dimenticare i versi: “È come se un paesaggio butterato/ stesse un po’ alla volta/ invadendo un’oasi sublime di bellezza”.
Vorrei terminare con una poesia che disegna una storia con una grazia leggera:
 
“[…] Se fossi Raboni
mi basterebbe una scaglia, una traccia
o forse solo un riflesso
 
Se fossi Fortini
mi farei greve come la pietra
in questa grigia luce lombarda
 
Se fossi Cucchi
mi attaccherei alla muta dignità
delle rovine  
 
Se fossi Loi o Roversi
la mia poesia sarebbe pura
e la potrei appendere all’arcobaleno del cielo
come un bucato pulito
 
Siccome sono solo un uomo
un uomo fin tropo normale
me ne sto come un fiore selvaggio
fra le crepe di un muro
e guardo la vita passare
(Divagando, 1999)
 
La copertina del libro

All’uomo per cui la poesia per tutta la vita è, con il ritmo del tempo, una sorpresa felice dell’animo, ci credo. Al “fiore selvaggio” riservo il riconoscimento che gli è dovuto da ogni petalo di serra. Ma il “guardare la vita” è solo un tasto armonioso con il resto della composizione, come dire, che il piacere di un buon verso può anche mentire. 

[*Milano, aprile 2011]                                                                                                                   

COME ACQUISTARE IL LIBRO

Una gioiosa fatica - 1964 – 2022

a cura di Giuseppe Langella



di Angelo Gaccione,

Pagine 160 euro 16

è possibile acquistarlo direttamente in libreria

Richiederlo alla Casa Editrice:

La Scuola di Pitagora Editrice

Via Monte di Dio n. 14

80132 Napoli

Tel. 081 7646814 - fax al numero 081 7646814

o inviando una mail all'indirizzo

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Telefonando a “Odissea” al numero 348 - 8760129 

Il libro è uscito nella Collana Fendinebbia

Laboratorio di poesia civile diretto da Giuseppe Langella.

Contiene una Ouverture di Franco Loi

Una Introduzione di Tiziano Rossi

Una Post-fazione di Fulvio Papi

 

CINEMA E CONSAPEVOLEZZA 
di Luigi Mazzella



Humane, opera prima di Caitlin Cronenberg.
 
Non è di certo un’umanità bella e felice quella che viene fuori da Humane, il film di esordio alla regia di Caitlin Cronenberg, figlia del famoso regista canadese David, autore di pellicole di forte impatto psicologico (detti dalla critica di Body horror per la loro attenzione ai mutamenti del corpo umano).
Caitlin sposta il fulcro della sua attenzione indagatrice dal singolosoggetto alla collettività umana, rappresentando il mondo di oggi, giunto, a suo dire, a un livello tale di sovraffollamento da rendere il clima irrespirabile e sostanzialmente impossibile per la sopravvivenza della specie umana. 
La narratrice non ci ricorda ciò che gli etologi hanno dimostrato essere esiziale per i ratti; nulla ci dice, infatti, degli esperimenti scientifici che hanno dimostrato che i topi immessi in uno spazio circoscritto, quando il loro numero aumenta, si dilaniano reciprocamente senza freni. 
Né l’autrice aggiunge che in Occidente (in quella parte di mondo dove i monoteismi religiosi e i fanatismi politici hanno seminato odio a piene mani tra gli abitanti) l’autodistruzione collettiva è cominciata già prima del sovraffollamento del Pianeta. Nel racconto fantasioso della giovane regista, la situazione determinatasi per l’insipienza umana costringe i governi di tutto il Pianeta a imporre l’eutanasia come mezzo di controllo demografico: in altre parole si vede nella scomparsa di viventi del tutto innocenti l’’unica possibile soluzione del problema. Ciò, posso aggiungere, in coerenza con l’idea della morte che aleggia e domina non solo i monoteismi mediorientali ma anche le elucubrazioni dell’idealismo tedesco post-platonico di destra e di sinistra.
L’autrice omette di ricordarci che fuori dell’Occidente, in Cina, in assenza della predicazione religiosa sulla “procreazione a gogò”, sul divieto di misure anticoncezionali (i profilattici sono stati esclusi, in alto loco, anche per i malati africani di AIDS) costantemente propagandata come dettato divino   da Alti Prelati ecclesiastici, preoccupati di ingrossare l’esercito dei propri seguaci per combattere  gli infedeli, da ignoranti parroci di campagna e da beghine e bigotti di scarsa perspicacia intellettuale, la proliferazione delle nascite era stata impedita incidendo sulla natalità e non sulla morte.
Caitlin Cronenberg non manca di individuare nella “sacra” istituzione della “famiglia” e nelle relazioni che in essa si intessono la fonte di una insana competizione individuale, di invidie interpersonali, di rancori a lungo covati. Il finale grandguignolesco del film mostra con la sua ecatombe di congiunti questo secondo assunto della regista.



Prima Domanda: È possibile desumere che la giovane Cronenberg ritenga impossibile riportare l’Occidente al pensiero libero e razionale (e, magari, anche migliore, dati i millenni trascorsi e i progressi che la cultura scientifica, nonostante gli ostacoli religiosi o ideologici, è riuscita comunque a compiere) della civiltà greco-romana? 



Seconda domanda: È corretto pensare che il ritorno a una vita personale e collettiva ispirata all’uso del raziocinio e all’esorcismo delle credenze fantasiose non è tanto impedito e ostacolato dalla massa (che presto, per la sua natura,  si adegua a tutto) quanto dai cosiddetti “intellettuali” che avendo costruito i cadreghini del loro potere su una  moltitudine di concetti farlocchi e taroccati (espressi con dovizia di espressioni erudite e ricercate) incontrano difficoltà ad abbandonare il loro comodo (e spesso ben remunerativo) angolino di “false certezze” da “insegnare” agli altri?

 

BRESCIA E BOLOGNA STRAGI DI STATO



Hanno tramato in tanti, per anni. Pezzi interi di Stato hanno fatto guerra ai propri cittadini ammazzando alla cieca innocenti di ogni categoria sociale Servizi Segreti, Gladio, Massoneria, Cia, Nato, Fascisti, Neonazisti, Partiti di destra e filoamericani, Mafiosi legati a filo doppio con apparati criminali dello Stato italiano e con quelli di Washington. 



E ancora siano ostaggi e servi della più guerrafondaia nazione che la storia del dopoguerra abbia partorito. Una nazione che ammazza i propri presidenti, che si allea con i peggiori regimi del mondo, con i criminali di ogni sorta, che calpesta il diritto di intere nazioni, che ha favorito il terrorismo internazionale, che ha tramato per assassinare la giovane e fragile democrazia italiana, e che con impudenza, una stampa corriva e dei partiti foraggiati, si ostiniamo a considerare la più matura democrazia al mondo! 

POETI E TERRA
di Anna Rutigliano


Fadwà Tuqan
 
Testimone della Nakba (النكبة), la Catastrofe palestinese del 1948, che causò drammaticamente l’espropriazione forzata di abitazioni di circa 700,000 residenti e devastazioni di villaggi completamente rasi al suolo, a seguito della risoluzione ONU 181 sulla partizione della Palestina e della dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele, da sempre, attivista impegnata, partecipando in prima linea , circa vent’anni dopo, alla Guerra dei sei giorni, nota come Naksa (النكسة), la Ricaduta, Fadwà Tūqān ( طوقا فدوى) rappresenta una delle voci femminili più influenti, nel panorama internazionale della poesia contemporanea, sul conflitto arabo-palestinese, le cui liriche impregnate di denso amore verso la propria patria, Nablus, grande polo commerciale della Cisgiordania, le valsero l’epiteto di “Madre della poesia palestinese” da parte di un altrettanto importante poeta, suo connazionale, Mahmoud Darwish (محمود درويش). Persino il poeta di Modica, Salvatore Quasimodo, in un incontro durante la Conferenza Internazionale sulla Pace, tenutasi a Stoccolma nel 1959, non poté resistere alla bellezza della profondità e della luce che gli occhi della Tūqān sapevano profondere.  Di rimando, la poetessa gli dedicò una lirica in cui ribadiva il suo attaccamento alle radici palestinesi: “Io, poeta mio, ho nella mia cara patria un innamorato che attende il mio ritorno…Perdona o caro, l’orgoglio del mio cuore al sentirti bisbigliare dolcemente: i tuoi occhi sono profondi e tu sei bella”. Ma Fadwà Tūqān è anche la voce di protesta e resistenza di tutte le donne oppresse dalle regole di una società rigidamente conservatrice, lei che aveva patito l’austera educazione di suo padre costringendola ad abbandonare gli studi: suo fratello Ibrahim la inizierà alla poesia quale spazio di riscatto intellettuale raggiungendo e scuotendo i cuori di ogni angolo terrestre. Ed è proprio la terra l’emblema principale dei versi liberi della lirica “Mi basta rimanere nell’abbraccio” (كفاني أظل بحضنها), di cui vi riporto la personale interpretazione, avendo attinto dal testo fonte in lingua araba e avendolo comparato con la versione in inglese pubblicata dal giornale libero Palestine Today, Free Journal and Lokesh Tripathi. Tutta l’umiltà della poetessa di Nablus è racchiusa nella duplice reiterazione del “mi basta” con cui si apre e si chiude la lirica; il suo è un dolore disteso, umile, nonostante la dignità violata in quanto essere umano appartenente al popolo palestinese; una umiltà che germoglia dalle radici stesse del suolo e che desidera tramutarsi in semplice fiore, radicato alla propria terra in un eterno abbraccio.


 
Mi basta rimanere nell’abbraccio

Mi basta morire sulla mia terra
esservi lì sepolta,
impastarmi e perire nel suo suolo fecondo,
per poi rinascere erba sulla mia terra,
per poi rinascere fiore
sgualcito dal palmo infantile di un bimbo lì cresciuto.
Mi basta rimanere nell’abbraccio del mio paese
Polvere
Erba
Fiore
 
È proprio nella scrittura poetica che Fadwà Tūqān riscopre il luogo intimo e incontaminato di realizzazione dell’affetto paterno negato, incarnato nell’immagine della patria e del fiore in essa germogliato, simile alla ginestra leopardiana, simbolo di delicata speranza in grado di sopravvivere alle rovine naturali e artificiali.
In ultima analisi, durante l’atto traduttivo, mi ha destato stupore l’assonanza linguistica fra la parola araba ard (أرض ) e quella inglese earth, a voler ribadire sul piano semantico, quanto da Oriente ad Occidente e viceversa, la terra sia un diritto di tutti da non violarsi assolutamente, come sancito, settantasette anni fa, nell’articolo 11  della risoluzione ONU 194.
A tal proposito si fanno quanto mai attuali e urgenti i versi del nostro amico poeta Zaccaria Gallo, tratti dalla raccolta: Come lumaca amante di ferula: “purché una piccola parola spoglia da una pena ci tolga con sollievo il sangue nel deserto…” (la Pace!).

 

 

IN VERSI
di Zaccaria Gallo
 


Luce su altra proda   
  
La tua luce su altra proda
s’avvolge alle dita del vento
corde in attesa della schiusa
 
sul colore dei veli grato
d’un promesso risveglio
è già dono anche se insicura
 
giungerà la chiama
 
lasceremo alle onde dell’aurora
il manto che nella notte
ci ha difeso dal sanguinare dei desideri
 
dagli ininterrotti baci della malinconia
e sarà solo nostro il volo
nella sempre sognata libertà

 

LA POESIA
di Laura Margherita Volante 


 
Brusio d’autunno 
 
Le foglie arrossate si 
disperdono nel vento
inseguendo i sogni 
della giovinezza.
 
I passi tra i vigneti 
dolce brusio 
di chi si ferma nel
carpire il dolciore
di acini grassi 
dorati di sole.
 
È la vita che ubriaca 
di illusioni canta 
note di sapori e profumi.
 
Il brusio d’autunno 
con le foglie arrossate
nel vento 
per farne corona 
sulla tua candida chioma.
 
I passi incerti ora sulle
zolle assetate 
ne bevono il succo
fruttato d’ambrosia 
per giungere a sera 
ebbre di memorie e 
di luce.
 
È la luna che 
parla con un sospiro...
 
Forse... un incanto.

  

CINEMA
di Marco Sbrana
 


Quando Godot è arrivato, non l’abbiamo riconosciuto. Anomalisa di Charlie Kaufman.
 
Il cinema di Charlie Kaufman è indagine sulla stortura del postmodernismo. Studiare il trauma dell’individuo d’oggi è, innanzitutto, formulare una teoria linguistica. Nell’impossibilità di esprimere, chiese un intervistatore a Samuel Beckett, cosa resta all’artista? Il dovere di esprimere, rispose l’autore. Ma come? Joyce ci aveva già pensato. Studiare ciò che turba l’individuo contemporaneo è elaborare un registro, un tessuto, un discorso che sia all’altezza della complessità. Franto com’è l’individuo, il contenitore in cui viene immesso artisticamente non può che essere frantumato altrettanto. Un linguaggio lineare - già lo aveva intuito Joyce - è insufficiente. Così come si spezza l’individuo (diciamo il contenuto) si spezza (si deve spezzare) la forma. David Lynch lo sapeva; lo sa Kaufman.


Charlie Kaufman

L’alterità e la penuria esistenziale (Essere John Malkovich); la fragilità del soggetto spossessato (Il ladro di orchidee); l’apres-coup lacaniano e l’impossibilità di dirsi (Synecdoche New York) e, nel film qui trattato, Anomalisa, la solitudine.
Atipico film di animazione girato in stop-motion, Anomalisa si apre col buio e con voci sovrapposte, un chiacchiericcio insignificante, il trambusto delle genti, il “si” heideggeriano. E poi lo svelamento. Siamo in un mondo di burattini, è un film animato. Michael, il protagonista, sta recandosi a Cincinnati per tenere una conferenza, fresco del successo del suo manuale su come incrementare la produttività dei servizi clienti.



Depressione urbana, urbana nevrosi. La prima sezione di Anomalisa è quasi completamente ironia, di quella aspra che ricorda il Woody Allen degli anni Settanta. È un umorismo di goffaggine kafkiana, beckettiana, di impedimenti, di burocrazia, di incomunicabilità, di impossibilità nel costruire ponti comunicativi (per esempio col tassinaro). Echi, pure, dei Coen, in particolare A serious man. L’incepparsi delle relazioni, il ridicolo, il grottesco. Si profila la melancolia, ma Kaufman si mantiene su un registro ironico, per introdurci in un mondo di strutturali insufficienze.
Dopo il taxi (“Si può fumare?” chiede Michael. “Non vede il cartello?” è il tassinaro. HO L’ASMA, cita il cartello) e dopo l’hotel (conversazioni altrettanto goffe), Michael siede, stravolto non già dal viaggio ma dal pensiero ricorsivo della sua vecchia amante Bella, che gli compare alla stregua di Banqo, e che vive a Cincinnati. La pensa spesso, ultimamente, le dice al telefono, dopo che non le ha inviato, in undici anni, una cartolina che fosse una e - soprattutto - dopo essersi costruito una famiglia. Sì, perché il nostro burattino Michael è sposato e ha un figlio. Ma non è uno che si faccia pagare per tradire. Perché l’animazione? Perché i modellini, i fantocci? Perché i fantocci non hanno (hanno perso) l’anima. Bella e Michael al bar dell’hotel, poi. Bevono, brindano. E Michael la invita in camera sua. Bella è scioccata: undici anni di niente, e poi vuole scopare? Il primo cedimento di Michael: “Potrei avere dei problemi psicologici!” urla. Ce li ha. È la depressione, è l’ansia, il respiro ansante, l’affanno di questo tempo. Poco prima, Michael si è specchiato e ha notato che il suo volto è fatto di plastica, che non è carne: si è proprio tolto la mascella, a svelare ingranaggi meccanici. Ecco il soggetto, ecco il motivo dell’animazione: il soggetto scopre di non esserci più. Il soggetto postmoderno - qui la differenza con Joyce - non è agente neppure nella dimensione del pensiero; è un contenitore, il soggetto postmoderno, è il bersaglio del costante assedio del mondo, assedio di dati, informazioni, colori, suoni che nulla dicono (“sound and fury signifying nothing”, come diceva Macbeth). Non è soggetto, è vetro che assorbe sole, e i raggi del sole di oggi sono scorie di un mondo ipersaturo.



E, ubriaco, Michael si reca a comprare un giocattolo per il figlio. Poco importa che sia una bambola sessuale che spruzza sperma. È la sbronza, la sbronza ci induce all’errore.
“Mi sento maledettamente solo”, così Michael.
Lo è, maledettamente, completamente.
Lisa è un’ammiratrice del lavoro di Michael. Bruttina, goffa, infelice, bambinesca nel suo entusiasmo per le piccolezze. Finiscono a letto. Lisa ha una cicatrice sul volto, che nasconde con i lunghi capelli. Invidia, Lisa, tutti coloro che riescono ad essere se stessi. Buon per loro. Ma Michael direbbe a Lisa: Buon per te, com’è Michael incerto sul suo sé.
Timidezza, pudore sacro, direbbe Cioran. È la fragilità di Lisa che fa pensare a Michael di aver trovato qualcosa di pulito, la pace, un rapporto veramente significativo, un antidoto alla penuria. Quanto condividono i due! Il desiderio di svegliarsi ed essere qualcun altro; l’identità fratturata. Anomalisa. Ecco la crasi. Perché lo è, Lisa, un’anomalia: Michael - tempo una notte di sesso - si convince che Lisa possa farlo evadere dalla macchina, dalla catena di montaggio relazionale di deleuziana memoria.



Nell’incubo, Michael scopriva i macchinari dietro la pelle sua e degli abitanti del suo mondo. Incubo epifanico, ma subito a incubo liquidato una volta che si è fatto giorno. E poi, qualcosa si rompe. L’incanto della notte muore. Fastidio, per Michael. Perché la quotidianità non eguaglia lo splendore di una notte estatica. E parlare con la bocca aperta, Lisa, fa proprio schifo. Si conoscono da un giorno, vogliono scappare insieme, e già il nostro - perfettamente uomo, o meglio, maschio - la mortifica.
Durante la conferenza, Michael crolla. E non parla del servizio clienti; parla della sua solitudine. La macchina della depressione ha soverchiato tutto e ogni slancio ha soppresso. Non si sfugge, così Deleuze, alla macchina. In conferenza, Michael si lancia anche in un’invettiva contro l’America.



Sì, crollo nervoso.
Nel finale, Michael rincasa. Di nuovo la stessa muraglia cui inchinarsi (Céline). E Lisa che scrive una lettera: è grata del tempo speso insieme. Sa, Michael, cosa significa “Anomalisa”? Divinità dei cieli, significa.
Film sociale che analizza il singolo per dire di noi tutti, per tradurci le nevrosi, l’opera animata di Kaufman finisce con l’attesa di un (God)ot che arriva. Anzi, è arrivato, era Lisa.
Godot era lì, ma non siamo stati in grado - compressi com’eravamo dagli ingranaggi della macchina - di vederlo, di riconoscerlo, di volergli bene.

A BORMIO PER GAZA



Auditorium del Liceo Alberti sabato 16 agosto ore 18. Con Roberta e Guido De Monticelli.

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