Amour di
Michael Haneke – La cura e la casa Film
del 2012, Palma d’Oro a Cannes, Amour di Michael Haneke si apre - ed è
un dettaglio vitale all’economia del testo - con l’irruzione in casa dei vigili
del fuoco. Trovano sprangata la porta, trovano le finestre aperte, trovano il
cadavere di un’anziana. Ricoperto di fiori. Segue
poi il film. Interno. Macchina da presa in campo largo. Il frontale del
pubblico di un teatro. Come a dire - metatestualmente: Questa sarà una tragedia.
Amour crea infatti un codice di segni sussurrati. Si tratta di un film
minimalista, che sottrae, continua a sottrarre, anche laddove un cineasta
inesperto - quale non è affatto Haneke - avrebbe esagerato virando verso il
melò. In Amour il segno è delicatezza. È la
storia di una coppia anziana - Georges e Anne - che si trova a far fronte alla
malattia degenerativa di Anne. Che ha il primo cedimento quando si imbambola,
seduta a colazione, e che non ricorda - cessato il momento di panico - di
essersi imbambolata.
Tutte
le inquadrature di Amour sono in interno. Mura soffocanti, stranianti.
La macchina da presa è fissa, ne scaturiscono lunghi piani sequenza che donano
alla forma del film l’attributo della compostezza, oltre che essere riflettori
puntati sui due giganti, due corpi attoriali smunti dalla vecchiaia,
claudicanti e affaticati, quali Trintignant e Riva. La regia risulta imperiosa,
perché rigida, e originale nella scelta dei punti di macchina. Punti macchina
che riescono, anche nei momenti di maggiore intensità emotiva, a non risultare
didascalici. Haneke colloca sempre la cinepresa in punti inaspettati, spesso
inquadrando di tre quarti i volti, senza mai dare in pasto al pubblico la
volgarità - perché nel suo caso di volgarità si tratterebbe - di un primo piano.
E certo avrebbe potuto farne uso, con un attore come Trintignant, ma Haneke
sceglie sempre di far partecipare attivamente il pubblico alla tragedia
rappresentata, di lasciare allo spettatore spazio per l’intuizione. E sul piano
della regia e sul piano della sceneggiatura, che è criptica nella sua
delicatezza, onirica nel suo minimalismo. “Promettimi
che non mi porterai mai più in ospedale”. E Georges promette. È la condanna,
questa: perché se Anne non finirà in ospedale, toccherà al marito prendersi cura
di lei. In bagno rimetterle le mutande, aiutarla nella motilità degli arti
anchilosati, imboccarla, darle da bere. E l’amore diventa cura, la cura diventa
assistenza. Un’improvvisata assistenza, si intende: quella di un marito che non
può accettare la reclusione del suo amore, e che sceglierà la fine per entrambi
piuttosto che la cesura e la solitudine. Anne sa che può solo peggiorare
nonostante i commoventi sforzi di Georges, e decide di non volersi più accanire
contro il corpo che cede.
La
casa è il terzo protagonista del film. Tutti vi entrano, e l’esterno non viene
mai mostrato. Tutto si consuma nell’unità di luogo, e nell’abitazione
riecheggia il dolore della coppia, negli arabeschi della tappezzeria, nella
claustrofobia delle mura via via più strette. Via via ma con lentezza, una
lentezza che restituisce l’avanzare dell’inesorabile. Amour è un
film sul corpo. E, tornando alla questione della delicatezza segnica, la figlia
di Georges e Anne è proprio sul corpo che si concentra: l’amore dei suoi
genitori, dice, era garantito dagli amplessi sessuali che le capitava di
origliare. Tale era il sigillo dell’amore. L’anima, così sembra dire Haneke, è
incastrata nel corpo, non c’è scissione. L’unico
momento in cui si esce dalla casa - prigione e ricordo, luogo della tragedia e
degli ultimi atti d’amore - è il sogno di Georges, durante il quale, però, non
si riversa che sul pianerottolo (di nuovo in interna, dunque, lavora Haneke),
che nel sogno è allagato. Tra
infiniti silenzi che preludono alla fine annunciata dal flashforward di
apertura, gli sforzi fisici, il letto bagnato di urina, l’afasia e il delirio
di una mente, quella di Anne, che crolla e non (si) riconosce più, in una
desolante e chiusa epopea del declino che non si concede neppure un flashback,
neppure un racconto di eventi condivisi in passato dalla coppia. La vita intera
si riduce al suo triste compiersi. Non c’è spazio per la rassicurazione del
passato o per backstory che portino colore: il grigiore delle vite che
finiscono è restituito da Haneke con purezza, e quanto serve allo spettatore
per credere all’amore tra Georges e Anne, uno dei pochi punti del contratto,
del patto autore-lettore, è dato dall’ostinazione della cura.
Cura
che Anne inizia a rifiutare, come quando sputa l’acqua che Georges le porge da
un bicchiere con cannuccia. E
Trintignant resta composto malgrado lo schiaffo che dà a sua moglie. Nessuno
slancio melodrammatico. Perché il personaggio, incaricato di sovrintendere, non
può permettersi di trasecolare. Non fa mai la vittima, non fa mai l’eroe; con
rigidità adempie un mandato e rende tale mandato l’assoluto della sua vita.
Fino all’atto di estrema pietà: l’omicidio di Anne per soffocamento tramite un
cuscino. Dopo
l’atto, Georges sembra voler mummificare Anne restituendole bellezza,
adornandola di fiori, infilandole un bel vestito, una maschera che smentisca la
decadenza di cui finora è e siamo stati testimoni. Poi
Georges immagina di uscire di casa. Finale ad anello. Anne è rinsavita:
cammina, parla, è bella. Stacco: la figlia spaesata nella casa vuota. Titoli di
coda. Si
chiude con l’immaginata fuga il film che è anche un trattato di ontologia delle
case che ci abitano e che abitiamo, che promanano l’odore delle nostre vite. La
casa, ora, è spoglia e la figlia di Georges e Anne è spaesata, perché attende
un padre che non tornerà, e quindi la carica semantica della casa è
momentaneamente neutra. Non è importante scoprire se Georges si sia
suicidato o meno, né decifrare la scena in cui cattura il piccione entrato in
casa dal cortile, dal momento che si sa, grazie al registro linguistico di
codici sussurrati, che Georges non farà (perché non può, e come potrebbe?)
ritorno. Molto
probabile che la lettera che scrive nel finale sia una lettera d’addio;
probabile e, a mio avviso, irrilevante, com’è Amour un film che va al
nocciolo duro, che non chiede la decodifica totale, ma solo la ricezione delle
informazioni primarie per comprendere gli sviluppi. Proprio
per come Haneke ha inquadrato la casa lungo tutto il film, sappiamo che Georges
non tornerà. Nella casa solo si entra; se si esce è (forse) per sempre.