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domenica 21 settembre 2025

INCONTRI
di Maurizio Minchella



Conversazione con Roberto Longoni
 
Il sorriso da ragazzo (degli anni ’80) fa il paio con lo sguardo limpido, scanzonato e al tempo stesso disarcionato dalla realtà, come quello di uno dei protagonisti del suo romanzo. A incontrare per la prima volta Roberto Longoni, si ha l’impressione di ritrovare un vecchio amico. Eppure. Eppure, a tratti gli affiora un’ombra negli occhi, quasi una traccia del malditerra di cui scrive, e così ci si ritrova a chiedersi dove si debba andare a rincorrerlo. Malditerra (Arca Edizioni, 368 pagg., 19 euro) è il romanzo d’esordio di Longoni, cronista di lungo corso della “Gazzetta di Parma”, oltre che collaboratore di “Panorama Travel” e autore di racconti e della biografia “Con le spalle al muro. Una vita tra terra e cielo” (Berti editrice).
 
Che cos’è il malditerra?
 
“In senso tecnico è il mal di mare senza mare. Può prenderti quando sbarchi da una lunga navigazione: ti sei abituato al rollio sulle onde e all’improvviso ti ritrovi instabile sul suolo immobile. Quello di cui parlo io nel romanzo è soprattutto un senso di inadeguatezza al mondo degli altri”.
 
È il disagio di cui soffre Quello della barca?
 
“Già. Lui si è lasciato alle spalle la terraferma - con i suoi agi e le sue regole - per vivere su una barca a vela, con lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte e la mente intenta a sognare. A riva è impacciato, in alto mare è come se volasse, come l’albatro di Baudelaire”.
 
La sua è una scrittura quasi classica, quali sono i suoi punti di riferimento?
 
“Sento molto vicini gli scrittori americani: da Hemingway a Salter. La lettura de Il grande Gatsby di Fitzgerald mi folgorò da ragazzo. E così Viaggio al termine della notte di Céline. Amo la scrittura asciutta e lirica al tempo stesso”.
 
Come definirebbe Malditerra?
 
“Stento a farlo, perché alla trama principale se ne affiancano altre, sovrapponendo suggestioni. È un romanzo generazionale, innanzitutto, che ha per protagonisti i ventenni degli anni ’80, come me”.
 
La generazione che l’oste filosofo Pinin-Brunello definisce inutile?
 
“I giudizi dei vecchi sono sempre piuttosto severi nei confronti di chi segue. A ‘inutile’ andrebbero affiancati altri aggettivi, innanzitutto ‘fortunata’. In ogni caso, fu la prima generazione a non voler cambiare il mondo, a non avere voglia di lottare. Fu allora che al pronome ‘noi’ cominciò a sostituirsi l’‘io’. Rispetto alle generazioni precedenti aveva obiettivi ben più realizzabili: per primo, quello di godersela. Anche se poi si è sempre bravi a complicarsi l’esistenza”.
 
Forse non voleva cambiare il mondo perché quello sembrava il migliore possibile…
 
“Non so se ce ne fosse la piena consapevolezza. Soprattutto da giovani si fatica a mettere subito a fuoco la propria felicità: che gli anni 80 e 90 siano stati i più felici dell’ultimo periodo lo abbiamo stabilito in seguito, facendo dei confronti. E ora tutti vorrebbero essere stati ventenni negli anni 80. In realtà, chi come me da bambino si era confrontato con gli anni di piombo voleva respirare, andare oltre tutta quella violenza. C’era quasi l’obbligo di divertirsi, e - può sembrare assurdo - anche questo finì per generare ansia. E spinte autodistruttive”.
 
A livello collettivo si voleva anche andare oltre l’angoscia della guerra nucleare...
 
“Un rischio allora più remoto di quanto non sia oggi. Molti videro il crollo del Muro di Berlino come l’apertura delle porte del paradiso. Di certo fu più facile pensarlo per chi varcava la frontiera da est… Si parlò anche della fine della Storia. Come se l’uomo potesse smettere di dare il peggio di sé”.

 
Per questo in Malditerra il passato fa sentire forte la propria presenza? Il sogno è collegato a una spedizione organizzata nel Medioevo...
 
“Forse è così. Quella dei fratelli Vivaldi, scomparsi nel nulla dopo essere partiti con due navi da Genova per raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa, è una storia che mi ha affascinato fin da bambino. Ancora oggi mi chiedo che fine abbiano fatto”.
 
Inghiottiti da una tempesta?
 
“O forse anche no”.
 
Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

“L’ansia autodistruttiva di cui ho appena detto l’ho vista anch’io da vicino. Ho visto intossicarsi un mondo e ho perso amici e conoscenti. Anche gli amori descritti nella storia sono in parte ricordi di qualcosa che ho vissuto”.
 
Come è cambiato il valore dell’amicizia da allora?
 
“Allora si usava il termine con molta più parsimonia. Oggi, per avere migliaia di amici basta poter contare su profili social molto attivi. Siamo alle algoamicizie. Ma la vera condivisione è un’altra. I rapporti profondi esistono ancora, anche se distratti dall’assediante rumore di fondo dei social. Anche l’amore ne risente: è sempre più difficile vivere momenti di vera intimità”.
 
Malditerra è anche, forse soprattutto, un romanzo d’amore. I personaggi femminili sono rappresentati con sfaccettature molto diverse. Quale di questi vorrebbe al suo fianco?
 
“Più che al mio fianco, sono un po’ tutti dentro di me, anche se alcuni vengono dalla vita reale. Mi piace molto Nicole, con tutte le sue cicatrici e la sua trasformazione”.
 
Esiste davvero?
 
“Per certi versi, un po’ sono io”.