Di spalle al mondo Con Di
spalle a questo mondo, Wanda Marasco consegna al lettore un’opera che va
ben oltre la narrazione storica: è un attraversamento poetico e filosofico
dell’umano, un romanzo che interroga la coscienza più che raccontare un’epoca.
Ambientato nella Napoli ottocentesca, segnata da tensioni sociali, guerre e
trasformazioni scientifiche, il libro prende le mosse dalla figura reale di
Ferdinando Palasciano - medico, patriota, precursore dell’idea di neutralità
nella cura dei feriti - per costruire un’opera che fonde documentazione e
visionarietà, ricerca archivistica e tensione lirica. Marasco non si limita a
restituire vita a un personaggio storico dimenticato: lo trasfigura, lo sottrae
alla retorica celebrativa e ne fa un emblema inquieto della responsabilità
etica. Palasciano è un medico, sì, ma anche un uomo costantemente esposto
all’abisso che tenta di contenere. La sua figura oscilla tra scienza e
compassione, tra ragione e disordine, tra il mondo esterno e una ferita
interiore mai del tutto rimarginata. La scrittura, densa e ipnotica, accompagna
questa ambivalenza. Come già nei precedenti lavori di Marasco, in particolare
ne La compagnia delle anime finte, finalista allo Strega nel 2017, il
linguaggio si fa protagonista: non semplice veicolo, ma materia viva che plasma
la realtà. Il romanzo non si legge, si attraversa - come una febbre, come un
sogno che confonde i confini della veglia. È una lingua che disorienta e al tempo
stesso richiama, costruita su frasi spiraliformi, lente, talvolta interrotte,
dove ogni parola sembra scelta per peso più che per funzione. Storia e visione: un romanzo
verticale In un panorama narrativo spesso
segnato da un minimalismo psicologico o da una cronaca del presente che tende a
sbiadire il contesto, Di spalle a questo mondo si distingue per una
verticalità che affonda nella materia viva dell’esistenza. Non è solo la storia
di un medico, né solo quella di una città. È il tentativo di restituire alla
letteratura la sua funzione originaria: fare i conti con l’enigma della
sofferenza, restituire voce a chi non ne ha, portare alla luce ciò che il tempo
tende a seppellire. Il titolo stesso è una dichiarazione poetica e politica:
essere “di spalle al mondo” non significa fuggire, ma rifiutare le logiche
dominanti. È una posizione etica, quella di chi si volta verso ciò che viene
escluso: la follia, il dolore, l’abbandono. Palasciano non si conforma, ma si
espone. E in questa esposizione senza protezione, Marasco individua la traccia
più autentica dell’umano. Follia come verità: l’abisso che
cura Uno dei temi portanti del romanzo
è la follia, trattata non come devianza clinica, ma come modalità alternativa
del conoscere. La malattia mentale non è qui una patologia da correggere, ma
uno spazio da abitare, una lente che deforma e, proprio per questo, rivela. Marasco
sembra accogliere, in filigrana, l’eredità di pensatori come Foucault o Artaud:
l’idea che nella follia si nasconda una verità non accessibile alla ragione
cartesiana. Palasciano, pur da medico, non è immune da questo contagio. La sua
mente, attraversata dal dolore altrui, rischia a tratti di perdere
l’orientamento. Ma proprio questo rischio lo rende più umano, più vero. C’è una tensione costante nel
romanzo tra razionalità e delirio, tra medicina e poesia, tra diagnosi e
ascolto. In questo senso, Marasco mette in discussione anche i limiti della
scienza, o meglio, ne reclama un uso etico, capace di farsi carico non solo del
corpo, ma della totalità dell’essere. Curare, nel mondo di Palasciano, non è
un’azione neutra, ma un atto di responsabilità radicale, che non conosce
confini di appartenenza, ideologia o identità.
Amore e alterità: Olga come
enigma e specchio A specchiare e al tempo stesso disorientare
Palasciano è la figura di Olga Pavlova Vavilov: nobildonna immaginaria,
dall’identità sfuggente, la cui presenza nel romanzo assume una funzione
archetipica. È l’altro irriducibile, la voce che non si lascia tradurre, il
corpo che porta in sé una differenza inassimilabile. La loro relazione è
segnata da distanza, incomprensione, silenzio – eppure, in questa
incomunicabilità si genera una forma di amore non possessivo, non simbiotico,
ma etico. Amare, per Marasco, non significa necessariamente capire. Significa
restare. Essere accanto all’altro anche quando non parla la nostra lingua,
anche quando il suo dolore ci è estraneo. È una visione dell’amore che risuona
con il pensiero di Emmanuel Lévinas: una responsabilità infinita, non
contrattuale, non calcolata. E forse è proprio in questo legame spezzato, in
questa tensione mai pacificata, che si misura la profondità del romanzo. Napoli: luogo dell’anima,
città-soglia La Napoli che emerge da queste
pagine è lontana da ogni folklore. È una città sospesa tra corpo e spirito, tra
le voci dei vivi e quelle dei morti, attraversata da febbre, spettri, silenzi.
Una città dell’anima più che della geografia. Come già in La compagnia delle
anime finte, Marasco costruisce uno spazio narrativo che è anche spazio
interiore: i vicoli, gli ospedali, le case nobiliari sono scenari visionari,
luoghi in cui la materia si sfalda e lascia affiorare il simbolico. Questa
Napoli non è mai sfondo, ma personaggio. È essa stessa corpo malato, memoria
ferita, eco di un passato che non si lascia seppellire. E nel corpo della città
si riflette quello di Palasciano: anch’esso percorso da linee di frattura, da
ombre, da tracce di un dolore non archiviabile. La letteratura come atto di cura Il vero cuore del romanzo, però,
è forse proprio questo: l’idea che narrare possa essere una forma di cura. Non
solo per chi legge, ma per chi scrive, e per chi è narrato. Marasco costruisce
un romanzo che non consola ma accompagna; che non semplifica ma accoglie la
complessità; che non elude il dolore ma lo ascolta. E in questo gesto narrativo
risiede un atto profondamente politico, nel senso più alto: dare parola
all’escluso, visibilità all’invisibile, forma a ciò che la storia tende a
dimenticare. Anche per questo, la scrittura stessa si fa atto di resistenza. In
un’epoca dominata dalla velocità, dall’intrattenimento facile, dalla
spettacolarizzazione del dolore, Marasco sceglie l’opposto: una lingua
difficile, lenta, musicale. Una prosa che chiede attenzione, che non si lascia
divorare, ma obbliga a rallentare, a restare. E in questo “restare” si consuma,
forse, l’unica forma possibile di fedeltà al reale. Conclusione: una voce necessaria Con Di spalle a questo mondo,
Wanda Marasco conferma la sua voce come una delle più intense, coraggiose e necessarie
della narrativa italiana contemporanea. Il suo romanzo non vuole piacere, ma
scuotere. Non cerca la bellezza levigata, ma la verità che ferisce e guarisce
insieme. In un momento storico in cui la narrativa spesso smarrisce la propria
funzione di coscienza, Di spalle aquesto mondo ricorda che
scrivere può ancora essere un atto etico. E che la letteratura, quando è
autentica, si volta non verso il potere, ma verso chi resta indietro.