Abbiamo
scoperto il segreto del mondo - Le città di pianura di Francesco Sossai. Nel
finale de La dolce vita di Federico Fellini, Mastroianni accorre e la
spiaggia è in delirio, perché morto a riva è stato trovato un mostro, una non
meglio identificata creatura marina. Mastroianni si volta, poi, e, dall’altra
parte di una conca dove l’acqua ristagna, una bambina, già vista in precedenza
ma con la quale aveva scambiato poche battute, urla qualcosa di
incomprensibile. Mastroianni tenta di decifrare le parole della ragazzetta; non
riesce, com’è il vento non brezza ma burrasca, tanto forte da tappare le
orecchie, e le bocche tappare. Alza le mani, Mastroianni, nella resa: no, non
capisce. Stacco sulla bambina, che ha detto, che non è stata capita, che guarda
in macchina. E così finisce il film. Questo
espediente (un personaggio che dice ma il cui dire non giunge a destinazione) è
usato più volte ne Le città di pianura di Francesco Sossai, quest’anno
presentato a Cannes nella sezione Un certain regard. Il
segreto del mondo, di questo parla il film. La sua indecidibilità; la
possibilità che non esista; la possibilità di pervenirvi solo per poi farselo
scappare; la tendenza di questo segreto a rimanere sulla punta della lingua come
i sogni che il risveglio uccide.
Finestre,
case, case belle. Doriano dirà che prima non era così; prima, guardando le
finestre delle case degli altri, pensava che in quelle case ci sarebbe entrato,
laddove adesso è un disilluso Io non ci entrerò mai. Chitarra
acustica. Sequenza di finestre. Stacco. Inizio del film. Doriano e Carlobianchi
(a un certo punto chiamato “Charlie – White” da Doriano, momento che ha fatto
ridere la sala) dormono in una macchina parcheggiata alla bell’e meglio. E una
voce fuori campo ci racconta la leggenda metropolitana di Primo. Il suo ultimo
giorno di fabbrica, si racconta, ricevette la visita del padrone dei padroni,
il quale gli regalò un Rolex. Il quale padrone poi si allontanò per tornare
all’elicottero che alla fabbrica lo aveva condotto, per poi dire qualcosa che, stando
alla mimica, Primo avrebbe dovuto ricordare. Ma come fare? Primo non sentì le
parole (la Parola), perché soverchiante su tutti i suoni era il rombo
dell’elicottero. Doriano
e Carlobianchi esordiscono così: hanno scoperto qualcosa di importantissimo
sulla vita; non se lo ricordano. Eugenio “Genio” sta arrivando all’aeroporto.
Quale? Treviso o Venezia? Non lo sanno; poco importa, andranno a prenderlo (“Ma
dove andiamo?” è Kerouac. “Andiamo!”) Si
aggiunge all’epopea Filippo Scotti, nato da Sorrentino (È stata la mano di
Dio) e visto di recente al lavoro per Avati. Perché
“non possono non bere l’ultima”.
Lo
incontrano, Scotti, alla festa notturna per la neolaureata Giulia. Per cui
Scotti smania. Ma domani ha revisione, vorrebbe tornare a casa. Al ritrovo
(seguendo il Dotto-o-re, Dotto-o-re) Carlobianchi e Doriano lo portano
quasi di forza in un tipico locale veneto con musica dal vivo. E, quando Scotti
scappa, i due lo prendono con loro; gli faranno da cicerone tra i luoghi del
rimpianto. O forse sarà Filippo Scotti, giovane giovane, così giovane, a fare
loro da guida. I once
had a girl, dicevano i Beatles, or should I say she once had me. Perché
“non c’è mai un’altra volta” (una delle tante sentenze adorabili del film). Le
città di pianura segue le peripezie dei tre. Il loro movimento nel dolore
del ritorno ai tempi andati in cui “Genio” era tutto per loro, prima che
scappasse in Argentina dopo le indagini su di lui per associazione a
delinquere. Sì, criminale; e criminali anche Doriano e Carlobianchi: spaccio
illegale di occhiali che rubavano dalla catena di montaggio. Ma, in
prescrizione il reato, “Genio” può tornare. Sbaglieranno aeroporto; deluderanno
“Genio”, convinto di poter ritrovare il tesoro nascosto, ricavato della
delinquenza; visiteranno un’osteria derelitta, teatro un tempo della levità
prandiale; vedranno la tomba di Brion, su suggerimento del colto studente di
architettura (Scotti), sempre differendo la fine del film con il pretesto di
dover “bere l’ultima”, sempre avendo sulla bocca il segreto del mondo, colto e
scordato. Del mondo o del vostro mondo? chiede Filippo Scotti E che
differenza c’è?
Bambini
cresciuti, “troppo vecchi per crescere”, ad avviso del padre, Carlobianchi fa
la “bella vita”. Ma non è vero; la loro è una vita di merda, tutto il film ci
grava addosso col peso del rimpianto, della vita scialacquata, con l’esosa
vecchiezza che si approssima, preparazione di una lotta impari, epica senza
epos, senza armi se non l’arma della resa fatalistica. Filippo
Scotti dice della tomba di Brion che il marmo rimanda alla pesantezza della
morte e che gli spazi vuoti sono invece “leggerezza quasi eterea”. Le
città di pianura è ciò che Parigi era per Walter Benjamin: fantasmagoria
allegorica di qualcos’altro. Sossai riesce in primis nell’impresa seguente: fa
sì che tutto quello che viene mostrato rimandi ad altro. Vediamo l’inane ma,
tramite codici che sono quelli del cinema (ora una sentenza spiazzante e spesso
paradossale, sempre ironica; ora la chitarra acustica, così malinconica, che ci
fa provare nostalgia per vite neppure nostre), abbiamo la sensazione che il
vero oggetto del film si trovi nel metafisico, diciamo nel logos. Che insomma Le
città di pianura sia l’incarnazione di quel segreto che Doriano e
Carlobianchi hanno scordato, e che affiora negli eventi e negli agiti e in ciò
che subiscono. E nei ricordi. Film
della e sulla provincia, che è allegoria del diroccamento del mondo, Le
città di pianura è permeato da malinconia disillusa e fatalismo. Epicurei,
i due amici, ma alla rovescia, perch nella sfrenatezza con cui si procurano
piacere, sanno invero che quel piacere è passatempo per non pensare
(imperativo. Imperativo: non pensare) alla morte che avanza e al rimpianto che
li segue. Cosa
rimane se non un riso strano, quando si sa che si è sprecata la vita? Forse
una parola che redime, udita, intesa, poi dimenticata.
È il
tramonto di una generazione, Carlobianchi e Doriano sono emblemi del tramonto
che non vogliono, questa la missione, che Filippo Scotti faccia i loro stessi
errori. Il
quotidiano come epica, la birra, il locale, il dialetto, la provincia. Inanità,
forse, credo sola apparente inanità, quella della trama, uno show che è
pretesto di un tell che, appunto, non si riesce a dire: perché
l’elicottero sovrasta col suo rumore; perché il treno in cui Filippo Scotti è
entrato ha ormai chiuso le porte o perché, così il finale, i titoli di coda,
con il loro silenzio, interrompono la conversazione proprio quando il segreto,
quel segreto, viene ricordato. La
risposta c’è, forse; ma a che domanda? Esiste la domanda? Si
possono (Wittgenstein) dire proposizioni di senso? O quel segreto pertiene al
“ciò di cui non si può parlare”? E poi Godel: “Non fossi qui, non mi chiederei
perché sono qui”. Intelligente,
Sossai: differire (all’infinito, in un certo senso) il senso. La domanda sta al
ricettore. Un’idea
ce la si può fare.
Carlo
Sini parla dell’essere generalizzato, il “si” che dice nonostante gli esseri
parlanti. La lingua è tessuto autonomo che parla tramite i soggetti, ma il “si”
generalizzato dice la comunanza, e l’unica comunanza è l’evento che, appunto,
unisce, lungi dall’essere, come voleva Heidegger, l’accadere più privato, e
questo dire comune è sempre, dice Sini, la morte, con allegata la (sola) legge
del Non dare la morte. Che Le
città di pianura parli di morte, ossia che la morte sia il segreto
scoperto, l’unico scopribile da un certo punto di vista, è possibile e
irrilevante. Possibile per via di quel che dice Scotti sulla tomba di Brion
(marmo, morte; leggerezza eterea, dissolutezza di Doriano e Carlobianchi) ed è
possibile per il discorso sul Veneto come regione fantasma che presto, per via
dei danni ambientali, sarà un’infrastruttura, dove le città di pianura (che
sono sole, balenanti, barcollanti), scemeranno. Ma è
parere di chi scrive che un film mai sia rebus. Se fa scaturire domande, ha
vinto. Le città di pianura è un motore, un grande motore di domande che
sopravvive ai titoli di coda.