Legge,
hybris e animalità su As bestas di Rodrigo Sorogoyen.
Nelle
montagne spagnole in cui si ambienterà la vicenda, era tradizione locale
strappare la criniera ai cavalli con l’ausilio delle sole proprie forze, a mani
nude. E, subito dopo questa notizia storica, ha inizio l’opera di Sorogoyen,
presentata nel 2022 a Cannes. Una coppia francese si è stabilita in un quasi
abbandonato villaggio spagnolo. Si è esposta, andando contro la tendenza dei
locali, che volevano vendere le terre a un’azienda eolica norvegese, sperando,
con il ricavato, in una vita migliore, resa impossibile dai progetti dei due,
che diventano bersaglio di una persecuzione da parte di due fratelli del luogo.
I quali fratelli, inizialmente, rovinano il raccolto della coppia tramite due
batterie poste nel pozzo che alimenta il terreno. E questo evento, quando viene
inquadrato, ha l’aria di essere non plus ultra. Non lo è: Antoine, il
protagonista, verrà soffocato, tenuto fermo da entrambi i fratelli, com’è lui
un uomo estremamente massiccio, alla stessa stregua dei cavalli che vediamo,
nella sequenza iniziale al ralenti, venire trattenuti. Sin
dalla prima sequenza - e anche dal titolo - Sorogoyen evidenzia uno dei nuclei
tematici portanti del film: il concetto di bestialità, che nel corso della
narrazione si declinerà in modi affatto differenti.
As bestas
è un
film di domande insolute. Netto, preciso, una sorta thriller rurale che vede,
nell’epilogo tragico della persecuzione, non lo scioglimento dei nodi ma la
creazione di inedite difficoltà per la moglie di Antoine, Olga, rimasta sola. A
dire di lei, lui volevano morto mentre lei non rischiava. Ma la sua infinita
solitudine non gode di placidità; vive anzi l’oppressione del paese tutto, per
essere “moglie di” quello che ha impedito la vendita dei terreni. È più volte
esplicitato che, con il ricavato, nessuno avrebbe potuto cambiare vita. E più
volte si cita la Storia. Viene attribuita a Napoleone una frase in prossimità
del tentativo di invasione della Spagna: “Gli spagnoli sono degli idioti del
cazzo”. È
insomma un film di territori. Non solo quelli filmati - che circondano di ameno
(scelta che ricorda Midsommar di Ari Aster) il crescendo di barbarie -
ma anche quelli respirati, quelli della storia privata dei singoli personaggi. Ma
è anche, As bestas, un film di paradossi (il più grande dei quali si
rivelerà essere quello della Legge). Sì, perché se, da una parte, gli indigeni
sono ovviamente legati a quel villaggio, nulla fanno per mantenerlo vivo; gli
unici che agiscono - rifiutando la proposta dell’azienda norvegese - sono
Antoine e Olga, che mirano alla ristrutturazione delle case derelitte perché
possano un giorno ospitare nuove persone (attività parallela a quella
dell’orto).
Si
scontrano due griglie valoriali. Quella che, in teoria, provenendo la coppia
francese dalla metropoli, si presupporrebbe (con pregiudizio, sì) essere
materialista, è in realtà quella a cui il denaro importa poco; gli indigeni,
che dovrebbero essere legati alla terra, non vedono l’ora di venderla. Sorogoyen
è astuto nel porci Antoine e Olga immediatamente come vittime per cui
parteggiare, salvo poi lasciar trasparire le ragioni dei “buzzurri di
montagna”. Che, dice il fratello maggiore, uno dei due assassini, hanno
condotto una vita a spezzarsi la schiena e, giunta l’occasione per liberarsi
dello sforzo senza ricavato alcuno se non una sbronza quotidiana a buon
mercato, si vedono strappato il sogno da un altro sogno. Il sogno di chi ha
meno diritto a sognare, cioè la coppia francese, stabilitasi lì da due anni
soltanto, e che pure - nella trattativa con l’azienda norvegese - è diventata
ago della bilancia. Ed è
un nuovo paradosso: è vero che, indipendentemente dal tempo in cui mi trovo in
un luogo, i miei diritti sono identici a quelli di chi nel luogo vi è nato, ma
questo è il modo giusto di vederla. Il film propone - fin dall’inizio -
un’altra visione. Si
badi, a scanso di equivoci, Sorogoyen non giustifica l’omicidio di Antoine e
confeziona un film che è anche (solo superficialmente, ad avviso di chi scrive,
contro la xenofobia), ma propone la visione animale del mondo. Se un animale ha
fatto tana in uno spiazzo, e un altro animale, in un tempo successivo, a sua
volta vi fa tana, a decidere per lo spiazzo - ripeto, nella logica animale che
fortunatamente non ha Costituzione scritta - non sarà mai l’animale venuto dopo.
Sorogoyen è onesto, nel suo prendere posizione a favore di Antoine e Olga, nel
mostrarci le fila del ragionamento dei violenti e, diciamolo di nuovo,
ingiustificabili comprimari.
E lo
diciamo di nuovo perché As bestas - film di genere a tutti gli effetti
che riesce a ricoprirsi di strati semantici su strati semantici - parla della
battaglia per agire e vivere nella legalità contro il sopruso, ma trasla quella
che avrebbe potuto essere una pellicola di stampo legale in un contesto che va
alla radice dei conflitti umani, alla radice brutale delle dinamiche di potere,
alla mera sopraffazione, alla bestialità. Viene
affrontato il concetto di terra e di appartenenza con un tono che è quasi da
parabola biblica, dove la prima immagine dei cavalli si sovrappone allo
strangolamento (lungo perché difficile, difficile perché ammazzare è difficile
– e questa è etica dello sguardo, come insegna Nanni Moretti nell’ultimo Il
sol dell’avvenire) di Antoine. Si
trasforma poi, As bestas, in un film sul concetto di giustizia e sulle
sue aporie. Perché,
morto Antoine, nessuno che se ne sia importato. E i colpevoli - a tutti noti -
sono rimasti impuniti.
La
figlia della coppia raggiunge Olga e le due si scontrano, perché questa ha
consacrato la vita alla ricerca del cadavere del marito, in un’ossessività
prossima alla psicosi, versando in un isolamento totale, nell’oppressione,
nella minaccia, come dicevamo prima. La Legge è stata calpestata dal momento
che le forze dell’ordine stesse non si muovono per agevolare le ricerche di Olga,
ma la lasciano colpevolmente fare in solitudine. Ci si lascia alle spalle il
concetto di hybris. Perché nell’atto della coppia una hybris la potevano vedere
solo i due fratelli assassini, il cui ragionamento è tratteggiato come logica
del sopruso e legge del più forte. Adesso il dramma è quello dell’individuo
lasciato solo dalle istituzioni, che non riconoscono l’ingiustizia e anzi
delegittimano la vittima. Perché nessuno ha fatto nulla? Perché conveniva, dice
il regista. Ma
quando Olga trova la videocamera (con la quale Antoine ha filmato invano tutti
i soprusi, compreso quello definitivo, legando la macchina a un albero), la
situazione cambia, non perché la memory card venga ritrovata ma perché nei
pressi della camera deve trovarsi il corpo: così è, e il film si chiude con un
primissimo piano di Olga scortata dalla polizia.
Ma non
c’è pacificazione, per lei. Potrà appianarsi l’ossessione, di fatto conclusa.
Ma dovrà decidere se restare in un paese già ostile e che diventerà soffocante
una volta che Olga passerà per quella che “ha fatto arrestare” i due fratelli,
o se rinunciare al sogno senile di vivere di un orto e tornare in Francia, in
una parimenti dolorosa solitudine. Sollevando
temi attuali quale la colpevolizzazione della vittima, As bestas assolve
la sua funzione di film thriller che, facendo del crescendo di atrocità la sua
forza (e in questo ricordando la discesa verso il sempre più marcio dei film,
mi viene in mente, di Michael Haneke), getta luce sulla radice marcia dei
rapporti umani, in un non nuovo ma attuale homo homini lupus.