Il
genocidio in Palestina ha aperto uno squarcio nel mondo, trasversale perché ci
ha fatto aprire gli occhi sulla vera natura del potere, un potere che non si
cela più dietro ideologie o bandiere, ma che è disposto a sopprimere un popolo
intero per qualche giacimento di gas, per ottenere un po’ di profitto da una
ricostruzione che sarà comunque nefasta, perché utilizza la Palestina come
laboratorio per testare sistemi di controllo e armi di distruzione di massa che
saranno utilizzate nel prossimo conflitto che non sappiamo dove e chi colpirà. Dobbiamo
cominciare ad allargare il campo, a riempire di contenuti questa protesta che
non può ridursi più al solo conflitto palestinese, ad un moto di umanità per
l’altro che viene oggi martoriato e spezzato, ma dobbiamo cominciare ad intuire
che riguarda anche noi, che è l’umano in quanto tale il bersaglio di questo
potere, che non ha pietà di nessuno, che non difende nessuno ad eccezione del
proprio continuo profitto. I temi su cui dobbiamo cominciare a porre attenzione
sono il riarmo europeo che ha come primo corollario lo smantellamento definitivo
di un welfare che ha protetto finora ricchi e poveri, che segnerà la fine
definitiva del ceto medio mentre allargherà le fila dei miserabili che
continueranno a soccombere senza voce.
E il riarmo significa anche apertura di
nuovi conflitti: siamo certi che il prossimo non avrà come obiettivo la stessa
Europa che ingenuamente consideriamo terra di pace? Siamo certi che non
richiameranno i nostri figli in guerra, figli di povera gente, ma anche di
quelli che si sono sentiti fin qua al sicuro? Perché la guerra non guarda in
faccia al reddito, distrugge e affama, livella tutti nella disperazione, toglie
qualsiasi tutela e diritto che consideravamo inalienabile. Dobbiamo cominciare
a guardare senza paura la forbice sociale che si è andata creando durante il nostro
lungo sonno, in cui l’un per cento della popolazione mondiale si è accaparrata
il cinquanta per cento delle ricchezze del pianeta mentre le moltitudini si
fanno guerra per il poco che rimane. Dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto
che le divisioni, i conflitti tra di noi sono funzionali a questo potere, che
sposta l’attenzione da sé per focalizzarla sui neri, sui bianchi, sui migranti,
sui gay, sui terroristi, sui malviventi, sui fascisti, sui comunisti, sui
maschi, sulle femmine e su infinite divisioni che continuamente crea. È un
potere che tratta tutti come cani affamati che si contendono le briciole,
ignari del fatto di essere al guinzaglio di quei pochi che si abbuffano
all’unico banchetto disponibile, barbari che si riempiono le pance di carne
umana e sangue. Dobbiamo cominciare a
riconoscere che esiste un noi che supera le divisioni in cui ci siamo
incasellati, che unisce destra e sinistra, poveri e meno poveri, nord e sud del
mondo, che ci fa tutti probabili reietti, vittime, ma che insieme ci rende
moltitudini pericolose per quei pochi che si nascondono, che si celano dietro
le istituzioni. Dobbiamo smetterla di fare i nomi di chi ci sembra ci opprima:
il problema non è la Meloni, o Salvini o Trump o Netanyahu, semplici esecutori,
interscambiabili, rottamabili anch’essi, fantocci di un potere a cui si sono
venduti ma oscuro anche a loro.
Dobbiamo ricominciare a
guardarci come alleati, dobbiamo ricominciare a dialogare senza tabù, dobbiamo
chiedere ai nostri figli se vogliono andare in guerra, dobbiamo chiedere agli
extracomunitari in Italia che ruolo vogliono avere, dobbiamo chiedere a coloro
che pensano di appartenere a un’élite, se si sentono davvero al sicuro, perché
solo se ci sediamo e parliamo, affrontando insieme le paure, potremo essere
pronti per combattere la nostra battaglia. E questa battaglia dovrà essere
nonviolenta in quanto unica strada percorribile, dovremo saperla riannodare con
gli insegnamenti che ci provengono dal passato, farla nostra, abitarla come
esseri umani. Dovremo studiare e creare nuovi atteggiamenti nonviolenti,
renderli armi affilate, perché radicate nel rigore di un corpo sociale vivente,
che si muove e respira e lotta all’unisono.