“La felicità è reale solo
quando è condivisa”. Due film sul primato della relazione. La vicenda
legata alla “famiglia nel bosco” nel chietino, ormai diventata virale sui
social, continua a dividere l’opinione pubblica tra chi la elegge a simbolo di resistenza
ecologista contro una modernità ritenuta indistintamente marcia e corrotta e
chi sostiene la salvaguardia dei “diritti indisponibili” per i minorenni. Al
centro del dibattito ci sono Catherine Birmingham, 45 anni, australiana,
e Nathan Trevallion, 51 anni, inglese, con tre figli (una bambina di 8
anni e due gemelli di 6) che vivono in un rudere fatiscente, senza acqua
corrente né elettricità, con un bagno a secco all’esterno, una camera da letto
per cinque persone, senza controlli medici regolari e pediatrici névaccinazioni
complete. Le figlie seguirebbero l’unschooling (metodo di apprendimento
autodiretto e naturale senza programmi fissi) e avrebbero contatti solo con
coetanei di famiglie con lo stesso ideale neorurale. Dall’altra parte ci sono
il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila e la macchina burocratica dei servizi
sociali che, dopo più di un anno di tentativi di dialogo per la tutela minorile,
sono arrivati alla sospensione della potestà genitoriale e all’allontanamento dei
figli in una struttura protetta insieme alla madre per un periodo di osservazione.
Le due parti entrano in cortocircuito dopo le ostilità e la poca collaborazione
dei genitori e qualcosa si inceppa: a fronte del riconoscimento dei bisogni/diritti
dei minori come prioritari rispetto alle convinzioni culturali dei genitori, inizia
a moltiplicarsi una narrazione strumentalizzata dalle parti politiche, dalle
tifoserie romantiche, da chi proietta sulle istituzioni la propria rabbia
generalizzata, da chi vive nel pensiero nostalgico e idealizzato del passato, avendo
già rimosso da dove nascono alcune battaglie per il progresso socio-economico. E
torna qui l’antica querelle tra il mito rousseauiano del buon selvaggio e
quello del progresso a tutti i costi, escludendo la possibilità di un
compromesso che sappia mediare tra natura e cultura.Mi vengono in mente,
allora, due film che nella loro differente rappresentazione affrontano questa
questione: Into the wild ovvero Nelle terre selvagge (del 2007
diretto da Sean Penn) e The lobster ovvero L’aragosta (del 2015,
diretto da Yorgos Lanthimos).
Nel primo
film, il protagonista è Christopher McCandless, un ragazzo statunitense di
buona famiglia che reagisce alla visione rigida dei genitori, basata
sull’ostentazione dello status symbol e del benessere materiale, con un modello
estremo che rifiuta ogni segno di civiltà. Questa ribellione accompagna tutto
il percorso geografico e psicologico di Christopher il quale, dopo essersi
laureato, dà i suoi risparmi in beneficenza, brucia tutti i documenti e fa perdere
le sue tracce. Si mette in viaggio vagabondando per l’America dell’ovest fino all’Alaska,
dove vivrà in assoluta simbiosi con la natura trovando un triste epilogo. Christopher,
nel suo atto di disobbedienza, diventa sempre più radicale abbracciando un
ideale che all’inizio sembra più sostenibile di quello dei genitori e di ciò
che loro rappresentano, vale a dire la modernità soffocante ed effimera di “una
razza pazza, ipocrita ed egoista dove ognuno vuole prevaricare sull’altro con
la violenza” (parole del protagonista). Tuttavia, questo stile di vita lo porta
a isolarsi completamente, dimenticandosi della natura “sociale” dell’uomo e
chiudendosi in un circuito mortifero con la natura più ostile. La libertà, intesa
come assoluta indisponibilità a qualsiasi compromesso sociale e come inappartenenza
culturale, diventa insostenibile per la sopravvivenza stessa. Le condizioni ambientali
difficili dell’Alaska, ultima meta del suo lungo viaggio, rispecchiano la
radicalità del ragazzo che, dopo tanti incontri significativi, si vede come “un
viaggiatore esteta che ha per casa la strada” e che cerca di “suggellare
vittoriosamente la rivoluzione spirituale” disintossicandosi dalla civiltà. E
proprio nella tappa finale, a seguito di un “imprevisto” che gli costerà caro, ha
una nuova consapevolezza: l’uomo deve spogliarsi dell’inessenziale ma nella
ricerca dell’autentico non può fare a meno dei rapporti sociali. “La felicità è
reale solo quando è condivisa” scrive sul suo diario, riflettendo su come la
sua fuga dalla società - per quanto problematica - e il suo estremismo non lo
abbiano aiutato a riappacificarsi con se stesso. Ma quando arriva questa
maturazione, la natura nuda e cruda ha ormai preso il sopravvento in modo
irreversibile. In punto di morte, Christopher lancia con gli occhi il suo
messaggio verso il cielo e ripensa ai momenti di condivisione con la famiglia.
Nel secondo film, The lobster, la
narrazione si concentra su due mondi opposti dispotici e radicali, non
lasciando spazio a un’alternativa mediana. Due eccessi che nel loro
contrapporsi sono accomunati dallo stesso statuto estremista, un
fondamentalismo generatore della stessa efferatezza e violenza. Ci troviamo in
un tempo indefinito in cui c’è l’atavica questione del rapporto tra regola e
libertà, tra civilizzato e selvaggio. Nella società di questo tempo
indefinito, i “single” vengono portati - o meglio deportati - in un hotel retrò
sul mare. Durante la permanenza i single devono “per forza” trovare un/una
partner entro una quarantina di giorni. Alla scadenza del tempo concesso, gli
ospiti rimasti soli verranno trasformati negli animali che loro stessi hanno
scelto sottoscrivendo un contratto. Nell’hotel, che diventa l’emanazione di un
governo totalitario in cui le aspirazioni personali sono totalmente anteposte
al funzionamento della società, il grande orco da combattere è la solitudine.
L’uomo, portato alla massima espansione della socialità forzata, non può vivere
da solo. O ci si accoppia o si viene trasformati in un animale, regredendo nel
suo status. Anche l’accoppiamento avviene secondo regole precise e dichiarate,
seguendo il principio dell’identità speculare: se zoppichi dovrai accoppiarti
con una persona che zoppica e, se nella ricerca non trovi nessuno che possa
essere associato alla tua condizione, ecco che subentra il grande inganno. Pur
di salvarsi la pelle, gli ospiti dell’hotel fingono caratteristiche, pregi e
difetti, plasmando la propria identità a totale somiglianza di quella
dell’altro. La bugia diventa un’ancora di salvezza e l’apparenza il motore che
fa funzionare la macchina della socialità. In una comunità così strutturata
la ripetizione maniacale, fredda e ossessiva si trasforma man mano in una
catena violenta nella quale l’uomo è privato della sua essenza umana, del suo spirito
critico, della libertà di desiderare e di scegliere. Tutte le relazioni sono
sottoposte a una disciplina rigorosa e codificata. La socialità forzata ne
aliena la soggettività in nome della sopravvivenza fisica.
La
Felicità diventa una procedura imposta, uno stato dittatoriale che richiede una
accettazione inespressiva e austera. Le nuove coppie vengono applaudite durante
un annuncio pubblico e successivamente vengono invitate a trascorrere un
periodo di prova di poche settimane prima di essere riammesse nel mondo fuori
dall’hotel. Al di fuori delle mura dell’hotel, nei boschi, ci sono i
fuggiaschi, coloro che si sono ribellati a questo sistema scappando nella terra
nullius, la terra di nessuno. Tuttavia, l’illusione della libertà si
scontra subito con un altro tipo di convivenza, quella tra individui slegati
dagli obblighi della società dominatrice ma comunque vincolati a regole interne
altrettanto ferree: ci si può masturbare ma non flirtare o baciare, si può ballare,
ma da soli e con musica elettronica ascoltata con le cuffiette. Se nella
dittatura della socialità la solitudine è la grande nemica, nel bosco
l’isolamento, inteso come annullamento di ogni tipo di relazione affettiva, è
il massimo ideale da raggiungere. Anche nel bosco, quindi, c’è un regime
repressivo e brutale, dove la chimera della libertà è presto dissolta in una
spirale di violenza per chi infrange le regole “non scritte” e dove gli uomini
e le donne si riducono a gusci vuoti senza espansione emotiva. Sia Into the wild sia The
lobster delineano due mondi antitetici ma accomunati dalla tirannia delle regole
o dei condizionamenti - che vengano dallo stato selvatico o dallo stato civile.
Due assolutismi nel quale agli esseri umani non è permesso mediare o trovare
compromessi, e proprio in questa omologazione e mancanza di pensiero divergente
sta la dissoluzione dell’uomo stesso.