Questa
lunga anteprima appare come un vero e proprio manifesto poetico sul rapporto
tra vita, memoria e scrittura. Non è un semplice preambolo: è un’autobiografia
che si nega mentre si offre, un autoritratto in filigrana, continuamente
spostato, contraddetto, ritratto e rilanciato. La riflessione iniziale su
Vermeer non è un ornamento erudito, ma una chiave d’accesso: la donna intenta a
leggere, sorpresa nell’intimità, diventa lo specchio del gesto segreto dello
scrittore che fruga nella propria memoria come la madre ipotetica fruga nei
cassetti del figlio. È qui che l’immagine si fa narrazione, e la narrazione
teoria: l’atto di leggere - e dunque di vivere, ricordare, scrivere - è sempre
un’intrusione, un furto d’identità, un rischio di scoperta. L’autore sviluppa la propria
poetica attraverso una serie di confessioni che non concedono mai realmente la
confessione. Il diario, gli appunti sparsi, le fotografie fuori fuoco: tutto
concorre a una memoria che vuole essere precisa ma si riconosce frammentaria. I
suoi strumenti sono concreti ma il risultato sfugge: la vita vissuta e quella
raccontata divergono, e nel loro divario nasce la letteratura. L’insistenza sul
diario come archivio privato e destinato alla distruzione mette in scena un
paradosso: ciò che è più autentico non è per i lettori; ciò che è pubblicato è
inevitabilmente un inganno. Ma è un inganno che salva. Molto affascinante è la tensione
tra racconto e romanzo, tra brevità e pretesa delle grandi forme. L’autore
rifiuta il romanzo come se gli venisse imposto dall’esterno, come se per
scriverlo servisse una verità che nessuno possiede - o peggio, che sarebbe un
tradimento. Il rapporto con la madre, evocato come rovello e come impossibilità
narrativa, incarna il nodo centrale: ci sono figure e dolori che non stanno in
trenta pagine, ma che nemmeno il romanzo può contenere. La notte, evocata come
possibile luogo di una futura scrittura materna, non è un tempo ma uno stato
dell’anima: il tempo in cui il “soldato nella notte”, figura dylaniana e
insieme epica, avanza alla cieca sapendo soltanto che la paura è anche
protezione. La parte che più mi ha colpito
dell’anteprima del testo è forse quella in cui lo scrittore dichiara, con
limpida sincerità, che “scrivendo di me, scrivo sempre di un altro e scrivendo
di altri, scrivo sempre di me”. Qui l’autobiografia si dissolve nella
bioautografia: non un racconto di sé, ma un raccontarsi attraverso i fantasmi
degli altri, attraverso i personaggi amati, rubati, reinventati. Il riferimento
a Cyrano, Casanova, Baudelaire, Hemingway non è citazione colta: è
dichiarazione di appartenenza a una linea di scrittori inattuali, infedeli, refrattari
alle mode. È una rivendicazione preziosa in un tempo che chiede continue
semplificazioni. Colpisce anche il tono sommesso e
ironico, la volontà di non prendersi troppo sul serio pur parlando di temi
gravissimi: l’identità, il linguaggio, la memoria che cola via come acqua
attraverso un elmo bucato. La metafora finale è splendida: chi cerca nella
scrittura dell’autore una biografia ordinata “morirà di sete”, perché il vero
non è trattenibile. Non per mancanza di sincerità, ma per necessità strutturale:
la vita è acqua corrente, la scrittura il suo riflesso tremolante. Questa
anteprima è un saggio-narrazione che prepara il lettore non solo a un “viaggio
con la madre”, ma a una poetica della soglia. Ogni pagina sembra dire che si
può scrivere solo ciò che sfugge, ciò che non coincide, ciò che non torna: i
ricordi indistinti, le ombre che svaniscono, le parole che non bastano e
tuttavia insistono. Ed è proprio in questa oscillazione - tra verità e
invenzione, tra io e altro, tra intimità e maschera - che il testo trova la sua
forza più alta. È una dichiarazione d’amore alla
scrittura, ma anche un avvertimento: nessuna autobiografia dice davvero “io”.
La vera voce, quella che rimane, è quella che riesce a diventare “tu” e “noi” Massimo Del Pizzo In viaggio con la madre Arsenio
Edizioni, 2025 Pagg.
48, 10 euro