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domenica 23 novembre 2025

SCAFFALI
di Francesca Mezzadri



Questa lunga anteprima appare come un vero e proprio manifesto poetico sul rapporto tra vita, memoria e scrittura. Non è un semplice preambolo: è un’autobiografia che si nega mentre si offre, un autoritratto in filigrana, continuamente spostato, contraddetto, ritratto e rilanciato. La riflessione iniziale su Vermeer non è un ornamento erudito, ma una chiave d’accesso: la donna intenta a leggere, sorpresa nell’intimità, diventa lo specchio del gesto segreto dello scrittore che fruga nella propria memoria come la madre ipotetica fruga nei cassetti del figlio. È qui che l’immagine si fa narrazione, e la narrazione teoria: l’atto di leggere - e dunque di vivere, ricordare, scrivere - è sempre un’intrusione, un furto d’identità, un rischio di scoperta.
L’autore sviluppa la propria poetica attraverso una serie di confessioni che non concedono mai realmente la confessione. Il diario, gli appunti sparsi, le fotografie fuori fuoco: tutto concorre a una memoria che vuole essere precisa ma si riconosce frammentaria. I suoi strumenti sono concreti ma il risultato sfugge: la vita vissuta e quella raccontata divergono, e nel loro divario nasce la letteratura. L’insistenza sul diario come archivio privato e destinato alla distruzione mette in scena un paradosso: ciò che è più autentico non è per i lettori; ciò che è pubblicato è inevitabilmente un inganno. Ma è un inganno che salva.
Molto affascinante è la tensione tra racconto e romanzo, tra brevità e pretesa delle grandi forme. L’autore rifiuta il romanzo come se gli venisse imposto dall’esterno, come se per scriverlo servisse una verità che nessuno possiede - o peggio, che sarebbe un tradimento. Il rapporto con la madre, evocato come rovello e come impossibilità narrativa, incarna il nodo centrale: ci sono figure e dolori che non stanno in trenta pagine, ma che nemmeno il romanzo può contenere. La notte, evocata come possibile luogo di una futura scrittura materna, non è un tempo ma uno stato dell’anima: il tempo in cui il “soldato nella notte”, figura dylaniana e insieme epica, avanza alla cieca sapendo soltanto che la paura è anche protezione.
La parte che più mi ha colpito dell’anteprima del testo è forse quella in cui lo scrittore dichiara, con limpida sincerità, che “scrivendo di me, scrivo sempre di un altro e scrivendo di altri, scrivo sempre di me”. Qui l’autobiografia si dissolve nella bioautografia: non un racconto di sé, ma un raccontarsi attraverso i fantasmi degli altri, attraverso i personaggi amati, rubati, reinventati. Il riferimento a Cyrano, Casanova, Baudelaire, Hemingway non è citazione colta: è dichiarazione di appartenenza a una linea di scrittori inattuali, infedeli, refrattari alle mode. È una rivendicazione preziosa in un tempo che chiede continue semplificazioni.
Colpisce anche il tono sommesso e ironico, la volontà di non prendersi troppo sul serio pur parlando di temi gravissimi: l’identità, il linguaggio, la memoria che cola via come acqua attraverso un elmo bucato. La metafora finale è splendida: chi cerca nella scrittura dell’autore una biografia ordinata “morirà di sete”, perché il vero non è trattenibile. Non per mancanza di sincerità, ma per necessità strutturale: la vita è acqua corrente, la scrittura il suo riflesso tremolante. Questa anteprima è un saggio-narrazione che prepara il lettore non solo a un “viaggio con la madre”, ma a una poetica della soglia. Ogni pagina sembra dire che si può scrivere solo ciò che sfugge, ciò che non coincide, ciò che non torna: i ricordi indistinti, le ombre che svaniscono, le parole che non bastano e tuttavia insistono. Ed è proprio in questa oscillazione - tra verità e invenzione, tra io e altro, tra intimità e maschera - che il testo trova la sua forza più alta.
È una dichiarazione d’amore alla scrittura, ma anche un avvertimento: nessuna autobiografia dice davvero “io”. La vera voce, quella che rimane, è quella che riesce a diventare “tu” e “noi”
  
Massimo Del Pizzo
In viaggio con la madre
Arsenio Edizioni, 2025
Pagg. 48, 10 euro