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domenica 23 novembre 2025

TRA LE PAGINE
di Marco Sbrana


Marco Sbrana

Franco Manzoni, dal singolare all’universale.


Rifiuto della punteggiatura. Non certo cosa nuova nel panorama italiano, ci aveva già pensato Giuseppe Ungaretti. È questo quanto salta immediatamente all’occhio leggendo le liriche di Franco Manzoni. Il testo, la traccia, il segno è un tutt’uno dove le cesure non sono delegate a virgole e punti - che romperebbero l’unità tonale, fonetica - bensì a un ritmo interno e alla chiosa dei versi. È innanzitutto l’aspetto fonetico che il poeta cura. La poesia contemporanea si preoccupa troppo, sembra dire Manzoni, della semantica; la poesia è, in prima istanza, musica. Il significante, col significato quale sasso in bocca, prima di tutto: parlare non può, è detto dell’indovino Tiresia, ma cantare parole senza senso.


Franco Manzoni

Manzoni lavora, in questa raccolta, Nel cuore del nulla, fin dalla prima poesia (in battito), sull’allitterazione (s, sn, st) e su una composizione ciclica, ad anello: chiosa del primo verso è “il vuoto”; chiosa dell’ultimo, il riflessivo “si sfa”. L’oggi del poeta è vuoto rispetto all’ardore del passato. E, nella nostalgia, il poeta rievoca. Inizio perfetto per una silloge che, da un certo punto di vista, può dirsi storytellare.
Segue una poesia erotica, dove gli audaci seni della donna si alzano in controluce, nel mezzo sonno. E poi a nascondino. Il poeta, qui – è notte – lascia la luce accesa per la paura dei serpenti e sogna uno scenario infantile, dove l’ultimo verso è un’epifania al contrario, perché sogna (“l’ultimo bacio”) l’irreversibilità. Paradosso, dunque, tanto quanto nella poesia pietraia, nella quale il pugnale serve a tutelare le vene, e non a reciderle. Di contrasti si nutre la lirica di Manzoni, di corpo e datità che subito vengono elevati a trascendenza metafisica, come gli arcobaleni di febbre di fuga (i titoli non hanno la maiuscola iniziale) che si contrappongono ai “bambini morti”, partoriti nel rischio del “filo spinato”. Chiude una trasfigurazione del Pascoli dolente di  ‘X Agosto’: “nel sapore idiota del male” (così Manzoni); “atomo opaco di male” (così Pascoli).
Capita di sovente, invero, che le poesie di Manzoni descrivano una scena che solo nell’ultimo verso prende senso, che il solo ultimo verso “risemantizza” a fortiori.
È un Io lirico, quello del nostro, che si specchia, monade dalle finestre spalancate. Dalle finestre, si osserva il mondeggiare, come in mistero della sorte. Antropomorfismo, elemento naturale e quotidianità sono tutti “un altro giorno da raccontare” per il protagonista, probabilmente un clochard che, nella miseria, ha il potere immenso del testimone.


La copertina del libro

La lirica più intima è a bocca aperta. Nel “solco di trincea” che è il letto del padre morente (trincea, non guerra lampo: viene al fruitore suggerita, dunque, una malattia lunga, non un malanno improvviso), il poeta assiste al “vomitare dell’estremo respiro” di chi l’ha concepito. Un respiro faticoso, sofferto, corposo, “nel cuore del nulla” di un già per sempre morti, disdegnando per l’ultima volta il rimpianto (sebbene la polisemia - cui Manzoni tiene, da poeta vero - ci impedisca di capire definitivamente se “disdegno del rimpianto” sia genitivo oggettivo o soggettivo).
La silloge di Franco Manzoni muove nei toni di Eros che si fa Thanatos, dell’esule benjaminiano che trova rifugio nella sospensione, nell’atto di scrivere: “inchiostro senza terra”, viene detto, perché chi non ha radici se le crea; e poi il corpo femminile amato; e ancora il desiderio di “mangiarsi la lingua” (melodia di luce), l’unica morte del poeta, l’unico suicidio, la spinta, ovverosia, a non significare più alcunché. Echi lacaniani in corpo di onda, con il fagocitare l’Altro del verso “ti mastico”, e poi l’ungarettiano schiudersi al mondo di candido fiore, e infine l’antropomorfismo dannunziano de il lemure, l’animale - per citare Derrida - che dunque parla di noi.
Dolceamara la poesia uomo di precisione, dedicata a un vero amico del poeta, che questi vede prepararsi “l’ultimo bianchino”, laddove in capponi (quelli di Renzo ne: I promessi sposi), la morte è attesa dal poeta stesso, che però in bandiera sogna la quiete e, nella sperimentale lirica trasloco, diventa parte del mobilio della casa che si deve abbandonare, insieme a oggetti che sono “larve solitarie” e “cellule sviscerate” del padre.
Manzoni presenta una spiritualità autentica dove la figura messianica è umanizzata e sempre presente e che si incarna, per esempio, nel clochard a cui, “quando va bene”, tocca una pelle di patata. La figura cristologica, che si ritrova anche nei testi di Clemente Rebora e Piero Bigongiari, è uomo tra gli uomini, e l’unica trascendenza è quella di un ordine mondiale che preservi la pace, in tempi - i nostri - di sistematici sterminî. Che non vengono da Manzoni nominati, ma comunque trattati, com’è la poesia bandiera un chiaro riferimento alle barbarie in corso. È una poesia, quella di Manzoni, di Eros che subito si fa Thanatos, e che poi ritorna unione, infine discioglimento dell’unità, dove i ricordi sono da per sempre differiti nel significato per la polisemia dei versi, che anzitutto, per Manzoni, devono essere cantabili, e in ultima battuta, forse, al limite, significare.
Nel cuore del nulla costituisce un itinerario poetico dove l’Io lirico muove nei paesaggi della sua esistenza posando gli occhi su scorci che, come il bambino sulla soglia di Benjamin, svelano immanentemente una verità più ampia: dal singolare si ascende all’universale.