Rifiuto
della punteggiatura. Non certo cosa nuova nel panorama italiano, ci aveva già
pensato Giuseppe Ungaretti. È questo quanto salta immediatamente all’occhio
leggendo le liriche di Franco Manzoni. Il testo, la traccia, il segno è un
tutt’uno dove le cesure non sono delegate a virgole e punti - che romperebbero
l’unità tonale, fonetica - bensì a un ritmo interno e alla chiosa dei versi. È
innanzitutto l’aspetto fonetico che il poeta cura. La poesia contemporanea si
preoccupa troppo, sembra dire Manzoni, della semantica; la poesia è, in prima
istanza, musica. Il significante, col significato quale sasso in bocca, prima
di tutto: parlare non può, è detto dell’indovino Tiresia, ma cantare parole
senza senso.
Franco Manzoni
Manzoni lavora, in questa raccolta, Nel
cuore del nulla, fin dalla prima poesia (in battito),
sull’allitterazione (s, sn, st) e su una composizione
ciclica, ad anello: chiosa del primo verso è “il vuoto”; chiosa dell’ultimo, il
riflessivo “si sfa”. L’oggi del poeta è vuoto rispetto all’ardore del passato.
E, nella nostalgia, il poeta rievoca. Inizio perfetto per una silloge che, da
un certo punto di vista, può dirsi storytellare. Segue una poesia erotica, dove gli audaci
seni della donna si alzano in controluce, nel mezzo sonno. E poi a
nascondino. Il poeta, qui – è notte – lascia la luce accesa per la paura
dei serpenti e sogna uno scenario infantile, dove l’ultimo verso è un’epifania
al contrario, perché sogna (“l’ultimo bacio”) l’irreversibilità. Paradosso,
dunque, tanto quanto nella poesia pietraia, nella quale il pugnale serve
a tutelare le vene, e non a reciderle. Di contrasti si nutre la lirica di
Manzoni, di corpo e datità che subito vengono elevati a trascendenza
metafisica, come gli arcobaleni di febbre di fuga (i titoli non hanno la
maiuscola iniziale) che si contrappongono ai “bambini morti”, partoriti nel
rischio del “filo spinato”. Chiude una trasfigurazione del Pascoli dolente di ‘X Agosto’: “nel sapore idiota del
male” (così Manzoni); “atomo opaco di male” (così Pascoli). Capita di sovente, invero, che le poesie di
Manzoni descrivano una scena che solo nell’ultimo verso prende senso, che il
solo ultimo verso “risemantizza” a fortiori. È un Io lirico, quello del nostro, che si
specchia, monade dalle finestre spalancate. Dalle finestre, si osserva il
mondeggiare, come in mistero della sorte. Antropomorfismo, elemento
naturale e quotidianità sono tutti “un altro giorno da raccontare” per il protagonista,
probabilmente un clochard che, nella miseria, ha il potere immenso del
testimone.
La copertina del libro
La lirica più intima è a bocca aperta.
Nel “solco di trincea” che è il letto del padre morente (trincea, non guerra
lampo: viene al fruitore suggerita, dunque, una malattia lunga, non un malanno
improvviso), il poeta assiste al “vomitare dell’estremo respiro” di chi l’ha
concepito. Un respiro faticoso, sofferto, corposo, “nel cuore del nulla” di un
già per sempre morti, disdegnando per l’ultima volta il rimpianto (sebbene la
polisemia - cui Manzoni tiene, da poeta vero - ci impedisca di capire
definitivamente se “disdegno del rimpianto” sia genitivo oggettivo o
soggettivo). La silloge di Franco Manzoni muove nei toni
di Eros che si fa Thanatos, dell’esule benjaminiano che trova rifugio nella
sospensione, nell’atto di scrivere: “inchiostro senza terra”, viene detto,
perché chi non ha radici se le crea; e poi il corpo femminile amato; e ancora il
desiderio di “mangiarsi la lingua” (melodia di luce), l’unica morte del
poeta, l’unico suicidio, la spinta, ovverosia, a non significare più alcunché.
Echi lacaniani in corpo di onda, con il fagocitare l’Altro del verso “ti
mastico”, e poi l’ungarettiano schiudersi al mondo di candido fiore, e
infine l’antropomorfismo dannunziano de il lemure, l’animale - per
citare Derrida - che dunque parla di noi. Dolceamara la poesia uomo di precisione,
dedicata a un vero amico del poeta, che questi vede prepararsi “l’ultimo
bianchino”, laddove in capponi (quelli di Renzo ne: I promessi sposi),
la morte è attesa dal poeta stesso, che però in bandiera sogna la quiete
e, nella sperimentale lirica trasloco, diventa parte del mobilio della
casa che si deve abbandonare, insieme a oggetti che sono “larve solitarie” e
“cellule sviscerate” del padre. Manzoni presenta una spiritualità autentica
dove la figura messianica è umanizzata e sempre presente e che si incarna, per
esempio, nel clochard a cui, “quando va bene”, tocca una pelle di patata. La
figura cristologica, che si ritrova anche nei testi di Clemente Rebora e Piero
Bigongiari, è uomo tra gli uomini, e l’unica trascendenza è quella di un ordine
mondiale che preservi la pace, in tempi - i nostri - di sistematici sterminî.
Che non vengono da Manzoni nominati, ma comunque trattati, com’è la poesia bandiera
un chiaro riferimento alle barbarie in corso. È una poesia, quella di
Manzoni, di Eros che subito si fa Thanatos, e che poi ritorna unione, infine discioglimento
dell’unità, dove i ricordi sono da per sempre differiti nel significato per la
polisemia dei versi, che anzitutto, per Manzoni, devono essere cantabili, e in
ultima battuta, forse, al limite, significare. Nel cuore del nulla costituisce un itinerario poetico dove l’Io
lirico muove nei paesaggi della sua esistenza posando gli occhi su scorci che,
come il bambino sulla soglia di Benjamin, svelano immanentemente una verità più
ampia: dal singolare si ascende all’universale.