L’esito
delle elezioni cilene impone di ritornare sul tema della democrazia: non è
consentita indifferenza e o sottovalutazione. In Cile si
afferma una destra pinochettista che sale al potere proprio nel momento in cui
tutti gli indicatori statistici indicano un arretramento nella qualità della
democrazia sul piano planetario. Proprio il 15 dicembre, avevamo cercato di
attirare l'attenzione sulla relazione nel merito del tema dei diritti compilata
dalla Commissione del Parlamento Europeo, oggi "il Manifesto"
pubblica un ampio articolo di Filippo Barbera che prende le mosse dal rapporto
di Freedom House nella sua 52a edizione. Il rapporto di Freedom House
registra per 19 anni di seguito una "diminuzione globale consecutiva
della libertà in 60 paesi che hanno peggiorato i loro indicatori di diritti
politici e libertà civili". Nel suo articolo appena citato
Barbera individua bene i prerequisiti sui quali può basarsi la democrazia: 1) un livello minimo di
integrazione sociale della base popolare; 2) una relativa autonomia del
processo decisionale collettivo; 3) una separazione tra la
disuguaglianza nella sfera privata e l'uguaglianza nella sfera politica. Sono questi i punti sui quali si
sta incrinando la democrazia; i punti che sono negati dalla modernizzazione tecnocratica-autoritaria
(ricordando che storicamente la tecnocrazia ha spesso assunto la veste della
dittatura e della guerra). Si inquadra in questo contesto il salto all'indietro
che il Cile ha compiuto con il turno elettorale conclusosi con il ballottaggio
di domenica scorsa (ricordando anche che l'acuirsi delle contraddizioni ha
portato - alla fine - allo scontro tra un filo fascista e una comunista). Kast ha ottenuto 7.200.000 voti
risultando così il presidente eletto con il maggior numero di voti nella storia
del Paese Andino, mentre Boruc candidato della sinistra ed eletto nel 2021 ne
aveva ottenuto 4.600.000 sconfiggendo lo stesso Kast fermo a 3.650.000: quindi
tra il 2021 e il 2025 non si può non registrare un forte spostamento di voti
verso destra. Una situazione quella cilena che
si infila in un quadro latinoamericano molto complesso laddove davvero forme
democratiche di sistema politico appaiono disporre di poco spazio. Un risultato
che avrà influenza anche sui meccanismi politici a livello planetario: una
spinta non da poco a quel restringimento di agibilità politica che verifichiamo
essere già in atto assumendo anche tratti che possono definirsi egemonici. Per
l'Italia quella cilena può ben essere considerata come una brutta lezione: è
facile ricordare i legami tra la sinistra italiana e quella cilena nella
memoria del golpe che trascinò via Salvador Allende. L'influenza di quella vicenda è
da ricordare per la proposta di compromesso storico che sulla base di quei
fatti fu avanzata da Enrico Berlinguer ma anche nell'attualità tra Cile e
Italia sorgono affinità comuni: la vittoria della destra infatti è stata
propiziata da una promessa "securitaria" avanzata da Kast sul tema
dei migranti. Un'agenda di legge e ordine "da far paura" quella
di Kast cui hanno immediatamente plaudito gli esponenti nostrani della destra. Un risultato quello cileno (senza
dimenticare l'analisi del fallimento di quella sinistra di governo arretrata ai
minimi storici) che non deve essere sottovalutato in Europa, ma soprattutto in
Italia, paese che un tempo aveva un sistema politico dalle caratteristiche
simili a quello cileno oggi invece albergato da soggetti personalistici-populisti
oppure incentrati sulle acquisizioni istituzionali in un contesto di
"autonomia del politico" slegato da riferimenti sociali. L'Italia è
ormai un Paese nel quale sta affermandosi una vera e propria scissione tra il
sistema politico-istituzionale e i livelli minimi di integrazione sociale: una
scissione che può rappresentare la base per uno scivolamento in un
accentramento di potere che negherebbe la sostanza costituzionale.