L’ESERCIZIO INVOLONTARIO DEL SOGNO
di Francesca Mezzadri
Il romanzo di Nicola Argenti L’esercizio involontario del sogno (Les Flâneurs Edizioni, 2025),
è un oggetto narrativo
insolito, refrattario a classificazioni semplici, capace di oscillare con naturalezza
tra filosofia, comicità involontaria, malinconia cosmica e un lirismo talvolta
feroce. È un libro che non corteggia il lettore: lo trascina invece in un
universo dove il tempo si inceppa, i corpi brontolano, i sentimenti assumono
forme oblique, e un titano dimentica persino come si chiama mentre impara a
maneggiare ami e canne da pesca. Sul piano contenutistico, il romanzo si muove
con libertà sorprendente. Vi si trovano riflessioni sull’origine dell’universo,
sulla natura dell’amore, sulla memoria e sulla potenza distruttiva dei treni,
accanto a meditazioni sulle farfalle nello stomaco e sulla lanugine infantile.
Nulla è mai gratuito: ogni immagine, anche la più surreale, apre una porta su
un altro livello di senso. L’autore lavora per risonanze interne, creando un
sistema di simboli che si richiama a vicenda e che costruisce progressivamente
un orizzonte di significato non immediato, ma vivo. Lo stile è, forse,
l’elemento più sorprendente dell’opera. La lingua si contorce, si allunga, si
gonfia di immagini e dettagli, fino a diventare essa stessa personaggio. C’è un
gusto barocco nella sintassi, un piacere quasi anarchico nel descrivere, un uso
dell’aggettivazione che sfida ogni norma scolastica e costruisce un tono unico,
riconoscibile, vibrante. Il romanzo respira attraverso le sue frasi, che
oscillano tra un’eleganza ricercata e improvvise scartate comiche, come se la
prosa sapesse alternare solennità e disincanto senza mai perdere equilibrio.
Uno degli elementi più interessanti e vivaci, per alcuni
versi forse anche il cuore dell’opera, è il rapporto tra il protagonista,
Iperione, e Zeugma, amico-nemico, accompagnatore svogliato, supponente e
provocatorio: una coppia letteraria che funziona per attrito, per
sbilanciamento continuo, come se ciascuno fosse il contrappeso dell’altro.
Zeugma, fragile, digressivo, martoriato dai dolori di stomaco e dalle idee
troppo nitide; Iperione, gigantesco e silenzioso, figura mitica che si aggira
nel mondo con l’incertezza di un bambino. La loro amicizia è una delle
architetture del romanzo: un legame che non nasce da affinità esplicite, ma da
una sorta di attrazione gravitazionale, un destino comune che non si lascia
decifrare. Ogni loro dialogo è un frammento rivelatore: ironico, sbilenco,
attraversato da un senso di inadeguatezza che diventa paradossalmente la loro
forza.
Proprio nella dimensione di questo rapporto conflittuale che
si trova una delle simbologie più potenti: il “Due-Sezioni”, un impianto
immaginario che Zeugma mostra con orgoglio e che Iperione non riesce a vedere.
È un gesto poetico e filosofico allo stesso tempo: un oggetto che esiste solo
come perfezione mentale e che proprio per questo deve rimanere intatto, mai
tradotto in materia. L’idea stessa di creazione viene capovolta: ciò che nasce
nel mondo è già condannato al deterioramento; ciò che resta nel dominio
dell’immaginazione è eterno. È qui che il romanzo mostra il suo nucleo più
profondo: la tensione fra il desiderio di dare forma e la consapevolezza che
ogni forma è una ferita nel tempo.
Quando si chiude il libro, si ha l’impressione di aver
condiviso un pezzo di cammino con due creature che non appartengono solo alla
finzione, ma a una regione più intima del nostro immaginario. Zeugma e Iperione
non sono semplici personaggi: sono figure-soglia, incarnazioni delle nostre
esitazioni, dei nostri slanci, delle nostre paure di fallire o di avere
successo. Una coppia che resta impressa non per ciò che fa, ma per ciò che
rappresenta: il desiderio umano di trovare un ordine, un ponte, un “due-sezioni”
che colleghi parti disperse dell’esistenza.
Il messaggio implicito del romanzo, mai esplicitato, si
dischiude proprio in questo equilibrio. L’opera suggerisce che l’esistenza è
fatta di crepe, di imperfezioni, di legami che non si comprendono appieno e che
proprio per questo hanno valore. L’amicizia tra Zeugma e Iperione non promette
salvezza né rivelazioni definitive: è una forma di resistenza, un modo di stare
nel mondo nonostante il mondo sia enigmatico, incompiuto, talvolta comicamente
assurdo. Il vero atto eroico non è dominare masse solari, ma restare accanto
all’altro mentre il tempo vacilla.
Ed è proprio questa capacità di far convivere il visibile e
l’invisibile, il corporeo e il concettuale, a rendere il romanzo un’esperienza
così singolare. La lettura procede come un lento avvicinarsi a qualcosa che non
si lascia mai del tutto afferrare: una verità mobile, sfuggente, che cambia
forma come l’acqua del lago sotto il remo di Iperione. Ogni capitolo sembra
aggiungere un nuovo strato, non tanto alla trama quanto alla percezione del
lettore, che impara progressivamente a decifrare un linguaggio fatto di
simboli, allusioni, improvvisi squarci emotivi.
Lo humour che attraversa il testo è di una delicatezza rara:
non nasce dalla battuta, ma dal contrasto tra la grandezza delle idee e la
piccolezza degli esseri che le abitano. È un umorismo essenziale, mai gratuito,
che alleggerisce la densità filosofica e al tempo stesso la rilancia, mostrando
come il ridicolo e il sublime non siano poli opposti, ma due facce della stessa
esperienza umana.
La prosa, infine, lascia intravedere un universo in cui ogni
elemento - dai pesci che non abboccano alle statuarie barriere del paesaggio - partecipa a una meditazione più ampia sulla fragilità del reale.
Il romanzo, in definitiva, non impone interpretazioni ma le
suscita; non chiude, ma apre; non consola, ma accompagna. Invita a guardare le
crepe, le pause, gli spazi bianchi tra una parola e l’altra - gli stessi in cui
Zeugma sa sparire - come territori poetici in cui il senso si rigenera. È
un’opera che chiede partecipazione, attenzione e un pizzico di fiducia: fiducia
che le metafore conducano da qualche parte, che il viaggio valga anche senza
una mappa chiara, che l’assenza possa dirci quanto la presenza pesi davvero.
E se il finale resta qui volutamente non rivelato, è solo
perché l’autore ha costruito un percorso che merita di essere vissuto pagina
dopo pagina, senza anticipazioni. Un percorso che continua a vibrare anche
quando si è lontani dal libro, come il ronzio lontano di un treno che passa o
come una farfalla che, per un istante, smette di sbattere le ali.


