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domenica 21 dicembre 2025

VERSO L’INVERNO
di Zaccaria Gallo


Monet
                                                                                         
Now is the Winter of our discontent”: sono le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”, dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi?  Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care, bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise” o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied, il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio spirituale, il suo destino. Invece noi abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente incontrato sulle pareti di un Museo).   

Arcinboldo

Un vecchio, fatto di tronchi e grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi, avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare, ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre il suo aspetto pauroso. Vero, farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco, era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone, che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città). 


Gagnon
 
Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. / Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/ più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità.  


Chagal

Non è, allora, davvero l’inverno, completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte, affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno, durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre) il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno, per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno, in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci, come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti, nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare, danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale esaltante.