VERSO L’INVERNO
di
Zaccaria Gallo

Monet
“Now is the Winter of our discontent”: sono
le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé
stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”,
dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi? Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora
si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care,
bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così
per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato
in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è
semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo
questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la
speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella
che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa
stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem
Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise”
o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un
viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si
trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una
natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied,
il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio
spirituale, il suo destino. Invece noi
abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo
personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente
incontrato sulle pareti di un Museo).

Arcinboldo
Un vecchio, fatto di tronchi e
grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole
foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e
un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla
corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi,
avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi
verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare,
ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre
il suo aspetto pauroso. Vero,
farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo
bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco,
era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed
amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà
amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo
colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone,
che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del
perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca
spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i
versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in
contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città).



Gagnon
Ascoltami,
i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati:
bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi /
fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra
i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. /
Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/
più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si
muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in
petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace
la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore
dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel
profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si
vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma
l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro
si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la
terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa
avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli
alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore
si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della
solarità.


Chagal
Non è, allora, davvero l’inverno,
completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana
con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte,
affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi
era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione
di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli
ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa
delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti
del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una
via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica
Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno,
durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti
e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi
erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre)
il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno,
per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno,
in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci,
come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno
a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole
illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il
rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi
accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le
quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta
dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti,
nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al
calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico
prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente
dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla
fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare,
danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così
descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e
difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale
esaltante.


