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domenica 13 aprile 2025

POETI
di Giovanni Di Lena


Giovanni Di Lena
 
Israele
 
La tua brutalità
mi disarma.
 
Spietato e
freddo come un boia                    
continui a falciare
delicate primizie.
 
Tace l’Occidente
e
tra gli ulivi
non c’è sconcerto.
 
 *
 
Percezioni autunnali
 
Non amo lo sfarzo,
le rivoluzioni premeditate
né la falsa filantropia.
Nulla di ciò che amo:
libertà senza condizioni
e generosità disinteressata
trovo tra le tue stelle
e le tue strisce.
Solo nuovi sfaceli intravedo:
alimenti un fuoco
che non ti brucerà.
 
Brontola la mia anima
ma presto le mie parole svaniranno
mentre le tue schiacceranno il cuore
a chi il cuore ti ha donato.
 
 *
 
Atacama
 
Quando d’improvviso ti colori,
trasformi un luogo arido
in terra florida:
i semi – pazienti –
attendono la pioggia
ma lasciano i fiori
danzare nel vento.
 
Intorno a me
altri deserti avanzano,
in essi – però – non c’è fioritura
perché il vento del profitto
allontana la solidarietà.
 




Per contatti con l’autore
Giovanni Di Lena
Via Novario, 54
75015 Pisticci (MT)
dilenag@tiscali.it

SCAFFALI


Le novità di Odissea
 
La razionalità latitanteNulla di nuovo nel Mondo Occidentale – di Luigi Mazzella, raccoglie scritti pubblicati su “Odissea” dal 28 giugno del 2022 al 1° febbraio del 2025. Si tratta di un corpus compatto e nutrito di riflessioni intellettuali, di analisi, di prese di posizioni controcorrente, di vibranti polemiche, quasi quotidiane, come si può vedere dalle date, che hanno creato spesso reazioni contrastanti non solo in una parte dei lettori, ma anche fra alcuni collaboratori del giornale. Radicale l’avversione di Mazzella verso le ideologie e le fedi autoritarie (le cinque ideologie, come le chiama Mazzella) che hanno influito in maniera nefasta nel complesso della cultura occidentale: islamismo, ebraismo, cristianesimo da un lato; nazifascismo e comunismo dall’altro. Altrettanto radicale la sua critica all’irrazionalità del pensiero e al fanatismo che condizionano in modo rovinoso il vivere sociale, e gli atti concreti degli individui. La tanta esaltata ragione di cui l’Occidente va fiero, non ha trovato nella realtà fattuale il suo svolgimento positivo, né tanto meno la sua umanità, anzi: non ha trionfato che barbarie. La guerra e il militarismo (altre bestie nere su cui si concentra la critica feroce di Mazzella) anch’essi figli dell’irrazionalismo fanatico e dell’istinto di morte, contrapposti con tragica protervia alla gioiosa sensualità dei corpi, all’istinto vitale e della bellezza, hanno alimentato a dismisura la cultura dell’odio e della prevaricazione, tanto da porre ai margini la cultura del dialogo, della dialettica, della diplomazia e del confronto. La sola che può impedire l’apocalisse, verso cui il “bellicismo fazioso” ci sta precipitando. L’agguato perentorio e ultimativo che ha teso alla nostra sopravvivenza, e a quella di tutte le specie viventi e senzienti, che dimorano sul nostro pianeta.
Angelo Gaccione                                                                                                 
    
Luigi Mazzella
La razionalità latitante.
Nulla di nuovo nel Mondo Occidentale
Di Felice Edizioni 2025
Pagg. 312 € 25                                                                                            

BRECHT
di Anna Rutigliano


B. Brecht

Negli anni successivi alla Repubblica di Weimar, non solo in Germania ma in tutto il mondo, si assiste ad una rapida discesa del movimento culturale espressionista provocato dalle disillusioni degli avvenimenti bellici e postbellici. Si avverte l’esigenza di mostrare la vita quotidiana nelle sue miserie, di parlare della guerra e delle sue conseguenze, come ci ricorda il titolo di un famoso dipinto ad olio su tela, del 1638, del pittore fiammingo Rubens, che ho avuto modo di ammirare dal vivo presso Palazzo Pitti a Firenze qualche anno fa. Tale urgenza di guardare alla realtà nella sua oggettività, nota come Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), emerge in particolare nelle attività teatrali degli anni venti-trenta di significativi drammaturghi del novecento tra cui Bertolt Brecht, Thomas Mann e Erwin Piscator.
Nei drammi brechtiani, tra cui annovero i Lehrstücke (Drammi didattici), composti attorno agli anni 30, il drammaturgo tedesco fa confluire tutto il suo pensiero marxista fondato sul materialismo storico, concependo la messa a nudo di una struttura sociale basata unicamente sul denaro e sugli interessi di classe: la sua teoria del teatro epico, antiaristotelico e dialettico, mira principalmente a non far immedesimare lo spettatore nella vicenda rappresentata ma a mobilitarlo sul piano intellettuale col tentativo di suscitare stupore di fronte all’artificiosità delle convenzioni sociali, utilizzando l’elemento drammatico attraverso l’effetto di straniamento o Verfremdungseffekte, espressione mutuata dallo studio brechtiano del marxismo.
Nel 1933, con l’ascesa del potere nazista, Brecht è costretto a fuggire in esilio nella città danese di Svendborg, città che dà il nome alla sua silloge di poesie Svendborger Gedichte (Poesie di Svendborg), pubblicate nel 1939 dopo aver lasciato la Danimarca. Di seguito vi propongo la traduzione di una delle poesie della silloge in questione: General, dein Tank ist ein starker Wagen (Generale, il tuo carro armato è un mezzo potente): lo stile è asciutto, scarno, semplice, non vi è alcuna traccia di nebulosità o virtuosismi linguistici; mediante anafore, assonanze (si legga a tal proposito nel testo originale, nella seconda strofa, la triade: stark-schneller- Sturm) e un discorso paratattico, Bertolt Brecht ci invita a riflettere sulla duplice natura distruttivo-costruttiva della razionalità di cui è forgiato l’uomo; da un lato il genere umano ha compiuto progressi nella tecnica, dall’altro, con la stessa, è capace di provocare orribili stragi dei suoi simili. La lirica di Svendborg è un invito urgente a riflettere sulla Pace e ad agire nel Bene dei popoli in funzione di essa.
 

Generale, il tuo carro armato è un mezzo potente.
 

Generale, il tuo carro armato è un mezzo potente.
Abbatte una intera foresta e schiaccia centinaia di uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo cacciabombardiere è potente.
Vola più veloce di una tempesta e trasporta molto più di un elefante
ma ha un difetto:
ha bisogno di un tecnico.
Generale, l’uomo è molto utile.
Sa volare e sa uccidere
ma ha un difetto:
Sa riflettere.

DARIO GHIBAUDO
di Maurizio Minchella


 
L’arte che muta, tra natura e immaginario.


In occasione del Fuorisalone 2025, che anima il capoluogo lombardo durante il Salone del Mobile, il Cortile d’Onore dell’Università Statale di Milano ospita un’opera straordinaria: Il Grande Pesce Bianco, una scultura in plastica riciclata che sembra fluttuare nell’aria. A firmarla è Dario Ghibaudo, artista piemontese trapiantato a Milano, scultore e pittore di fama internazionale, noto per il suo Museo di Storia Innaturale, un progetto iniziato nel 1990 che intreccia ironia, provocazione e riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Le sue creazioni, che spaziano da sculture a installazioni, utilizzano materiali eterogenei per dare vita a un immaginario potente e straniante.
Ghibaudo non si limita all’arte visiva: la sua versatilità lo ha portato a esplorare anche la scrittura, con la recente pubblicazione di Violenze minime (Arca Edizioni), una raccolta di racconti che scava nelle pieghe della quotidianità con uno sguardo acuto e disincantato. In attesa della sua prossima personale all’Espace Constantin Chariot di Bruxelles, dal 23 aprile all’8 giugno, l’artista ha gentilmente accettato di raccontarci la sua visione, tra mutazioni, miti e interrogativi sul nostro tempo.
 
L’opera esposta all’Università Statale, Il Grande Pesce Bianco, è un pesce fantastico dotato di zampe, sospeso come in un sogno surreale. Il suo simbolismo si presta a molteplici letture. Può offrirci qualche chiave interpretativa, o preferisce lasciare al pubblico il compito di decifrarne il significato?


Ogni opera vive nello sguardo di chi la incontra, e l’artista, spesso, dissemina tracce che si intrecciano alla sua ricerca. Personalmente, sono affascinato dalle mutazioni: quelle naturali, legate all’evoluzione, e quelle indotte dalla scienza. Il Grande Pesce Bianco sintetizza un’idea di trasformazione: da creature marine a esseri terrestri, un viaggio evolutivo che si compie sotto gli occhi di chi osserva. Ma la vera magia accade quando chi guarda si svuota di preconcetti e si lascia trasportare dall’opera, trovandovi un riflesso di sé.


 
Gli animali fantastici ricorrono spesso nelle sue creazioni, evocando un passato mitologico che sembra contrapporsi a un presente altrettanto leggendario, dominato da tecnologia e robotica. È una risposta a un futuro che inquieta, o un abbraccio a una realtà nuova, che ci spinge a interrogarci  sulla nostra natura?


Non credo esista una natura “autentica” dell’uomo. Le mie creature mutanti raccontano un mondo in perenne adattamento, dove nulla è fisso o definitivo. Sono frammenti di un caos naturale, tappe di un percorso che non ha una meta ultima, ma solo continue metamorfosi. Il mito e la tecnologia, in fondo, sono solo strumenti per narrare questa danza incessante.
 


Il richiamo a immagini di ere remote sembra suggerire che il tempo, forse, sia un’illusione. O che, come il suo pesce bianco, possa fermarsi, rendendo l’eternità più vicina di quanto crediamo. È così?


Come artista visivo, mi nutro di ciò che vedo e sento, non di speculazioni filosofiche. Non ho risposte sul tempo o sull’eternità: osservo, interpreto, traduco in sculture, disegni, parole. Il pesce bianco, forse, invita a sospendere il giudizio, a contemplare un istante che potrebbe essere eterno. Ma lascio a chi guarda il compito di trovare il proprio senso.


 
 
Nelle sue opere, alberi e animali si intrecciano, e le figure umane sembrano dissolversi in queste forme naturali, suggerendo una misteriosa continuità. La natura, però, non è solo rassicurante: ha una forza seduttiva, quasi pericolosa, che ricorda il serpente dell’Eden. Come vive questa dualità tra seduzione e distruzione?
 
Tutto - animato o inanimato - condivide un destino comune. Non parlo di distruzione, ma di trasformazione, un concetto antico che attraversa ogni cosa. Dall’Eden alla robotica, il tempo stesso è metamorfosi. La natura seduce perché ci ricorda che siamo parte di un ciclo più grande, ma anche che ogni passo può cambiarci per sempre.
 
Oltre alla sua arte, lei ha una passione per la scrittura, come dimostra Violenze minime, una raccolta di racconti che esplora la banalità del male quotidiano. I suoi protagonisti sembrano vittime di una mostruosità subdola, quasi invisibile. Gli archetipi mitologici possono aiutarci a curare il nostro male di vivere.


 
 
La mostruosità, per me, non è mai banale: è una delle infinite facce della realtà. Gli archetipi mitologici sono specchi che ci aiutano a vedere, a tracciare sentieri verso nuove interpretazioni del mondo, ma non unguenti per il dolore dell’esistenza. Scrivere Violenze minime è stato un’avventura splendida, ma anche una sfida: come per una mostra, un libro espone l’autore, lo mette a nudo. Scrivo e disegno con la stessa urgenza, intrecciando storie che poi si trasformano in segni, in immagini, in parole. È un processo che mi appartiene, ma che mi sorprende ogni volta.

LA POESIA
di Antonella Rizzo



 
 
Gravità
 
Di miseria parlano
all’ombra di questo cielo.
 
La pietà fa il giro largo
non trova spazio
prende i segni di terra rossa
e scrive campi di fieno
lì piega l’universo in minuscoli fatti di meraviglia.
 
C’è gravità a qualche tempo dal mare
dove i discorsi si fanno rapidi e secchi,
vicini al disastro, poi l’incanto di suoni eterni
risollevano i canti e fino alla perdita
ogni albero è certezza, ogni frutto caduto è inevitabile.
 
Tutto è spietato là dove la morte è un manifesto di parola.
E neanche la morte muore là dove è detta. 
 
*
Antonella Rizzo. Nata in Salento, compie studi classici e umanistici. Approda alla ricerca accademica che lascia per una scelta di indipendenza. Dopo un lungo dialogo con il Senegal e con le comunità migranti, arriva a Milano dove insegna in scuole di periferia, scrive poesia e continua il suo lavoro di ricerca sulle identità plurali, diasporiche, che ammira come paesaggi. È autrice di due raccolte poetiche e di numerosi saggi pedagogici e antropologici. 

 

ARTE
di Donato Di Poce


 
Ennio Bencini. Le visioni metafisiche della bellezza

Sono tante le etichette o le definizioni che vari critici d’arte hanno dato negli anni all’arte di Ennio Bencini: “Spirituale”, “Metafisica”, “Simbolica”, “Tetrista”, “Sacra”, “Mistica”, “Polimaterica” e “Visionaria”.


La luce sofianica della Bellezza
Tutte in parte vere e tutte aderenti a singoli periodi o tematiche affrontate dall’artista, ma c’è un filo conduttore e un’energia sotterranea che ha fatto da piattaforma etica, ideologica ed emozionale a tutti i suoi lavori ed è l’amore per l’arte e la luce sofianica della bellezza che infonde ai suoi lavori un’aura e una forza visionaria e metafisica, un’energia vitale senza confini. La sua idea di bellezza però non è mai fine a se stessa, ma è una sorta di bellezza funzionale all’etica ed al respiro estetico dell’uomo. Bencini riesce a dare un’anima alla materia e materialità alla luce, al suo senso di ascesi mistica e spirituale, padroneggiando tecniche e stili diversi in un’armonia compositiva di rara bellezza, sino a far diventare i suoi lavori dei veri “reperti estetici”.


La cultura del “reperto estetico”
La sabbia nera dell’Elba diventa un tappeto spirituale per eclissi esistenziali; le “pietre” di Cortona diventano nelle sue mani scudi araldici di bellezza primordiale e chiave architettonica per portali estetici; I suoi “cancelli” dorati sono cattedrali di luce nel deserto dove i suoi simboli giocano la partita a carte con la vita e le sue “nature morte”, altari estetici che celebrano la bellezza dell’arte. Così come nel pensiero teologico, la creazione è autorivelazione della sofia divina della Trinità, Bencini declina in modi laici e sacrali insieme la sua azione culturale in cui la creazione artistica va intesa e praticata in modo molteplice e simultaneo: l’arte è materia, l’arte è pensiero, l’arte è rivelazione.  
 
Donato Di Poce
Ennio Bencini. Le visioni metafisiche della bellezza
I Quaderni del Bardo Ed. Lecce, 2025.

LA FRASE DEL GIORNO



Le folle credono di più alle fole...
Laura Margherita Volante 

NOVITÀ LIBRARIE
Percorsi di Adiacenza


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Nel corso degli ultimi anni, grazie anche a fraterne sollecitazioni di Donato Di Stasi, ho deciso di riprendere in mano la massa dei miei scritti di ricerca critica - saggi, recensioni e note di lettura - tra cui, quelle di Anticipazioni, raccolte nel Sito di Milanocosa -, dedicati a opere di poesia, musica, prosa e arti visive. L'intento era quello di ricostruire tratti salienti e tappe più decisive del mio percorso al centro e intorno alla passione poetica, entro una visione sintetizzata col termine Adiacenza. Mi rammarico per i tanti Nomi che non ho potuto inserire, forzato a contenere la dimensione del libro e gli oneri editoriali che l’Editore Marco Saya affronta, come è noto, con coraggio e generosità. Ne sono comunque risultate 600 pagine, in cui i destinatari di questa email sono fonti di arricchimenti di un percorso che al di là della sua condivisione, credo sia un approccio interdisciplinare interessante con cui confrontarsi, non chiuso nel letterario ma sollecitato dalle problematiche sempre più gravi del mondo contemporaneo. Talché, più che a un approccio civile - termine un po’ scontato e delimitante - penso a una poesia con responsabilità e gesto politico, riferito non al politichese del degrado in corso, ma a una polis che vogliamo custo-dire, quale cuore-sede del violato e tuttavia non arreso senso umano. Chi tra voi è perciò interessato ad avere una copia di questa prima mia memoria di ricerca - cui confido possano seguire quaderni di aggiornamenti - potrà farne richiesta all’Editore o a me, fruendo di un prezzo scontato. Per ora vi allego l’immagine di copertina e un file con denominazioni, partizioni e pre-postfazioni.
Con i miei cordiali cari saluti


Adam Vaccaro
marcosaya53@gmail.com 
 

CALDARA EVENTI
Al “Circolo De Amicis” di Milano




sabato 12 aprile 2025

GLI ASSOLUTISMI SI EQUIVALGONO
di Luigi Mazzella
 



Per chi condivida (ce n’è  qualcuno/a?) la mia teoria dell’irrazionalità dominante nella vita (pubblica e privata) Occidentale come conseguenza inevitabile dell’abitudine contratta a “credere” anziché a “pensare” (e ciò a causa di una ‘cultura[?]” costituita sostanzialmente da tre assolutismi religiosi e due politici) non c’è da meravigliarsi di due recenti eventi: 1) la posizione assunta dai vescovi cattolici americani a dichiarato sostegno di Israele nella repressione a Gaza: 2) l’incontro, più che cordiale, complice di Orban con Netanyau. Ciò che meraviglia gli imperterriti sostenitori della cosiddetta “civiltà” della parte ovest del pianeta dovrebbe ritenersi, invece, una conseguenza prevedibile e scontata di ogni conflitto tra assolutismi diversi: chiunque vinca la situazione di illibertà, di repressione, di violenza, di aggressività criminale resta la stessa. Si tratta, in buona sostanza, dell’effetto di una stessa “mentalità” in cui le “sfumature” diverse servono solo ad alimentare il conflitto.
Domanda: Si può veramente credere che vi sia differenza tra il genocidio imputabile ai sionisti a danno dei Palestinesi a Gaza e quelli perpetrati nei secoli dai cristiani in Terrasanta, in America (centrale ma non solo), in Africa? È credibile che gli attentatori e i tagliagole islamici siano mossi da istinti diversi e più feroci di quelli degli altri due fideismi mediorientali? O Cortes docet? È ipotizzabile  che gli assassini nei lager nazisti possano distinguersi da quelli compiuti dai comunisti nei gulag, nelle foibe e via dicendo?
Risposta: No! Gli assolutismi, siano essi religiosi o ideologici, sono espressione dello stesso cancro che mina l’esistenza di un pensiero libero e incondizioinato: smuovono, nel profondo,  l’emotività e mettono la sordina al raziocinio. L’unico modo di agire che consenta di “ragionare”nella valutazione di ogni azione umana è di liberarsi  dei paraocchi della fede o della ideologia.
L’Occidente sarà veramente un continente vivibile quando non sarà più costituita dai Netanyau, dai Borgia, dai tagliagola dell’Islam, da Hitler, da Stalin, da Mussolini e Fidel Castro e anche dai Biden, Trump, Macron, Starmer, Von der Leyen, Peron, Orban: tutte anime pie e utopiste, che vogliono il bene dell’umanità e lo realizzano mandando “anzitempo all’Orco” i loro contemporanei a godere di non provate celestiali dolcezze.
Alla fine della guerra, a Roma, le scritte che asserivano che si stavameglio quando si stava peggio, cominciavano in dialetto locale con l’espressione “A ridatece…
Erano slogan ingannevoli e mendaci: da duemila anni si stava malissimo e ogni promesso, agognato “bene” non rappresentava altro che un male peggiore! Consentitemi allora, in base al principio del “repetita juvant”, di insistere nel mio personalissimo (e non seguito) slogan: Aridateci i Democrito, i Parmenide (perdonando gli Eraclito per l’idea malsana sulla “guerra”), i sofisti, e tutti i presocratici (rectius: pre platonici) e soprattutto Epicuro che ci invitava ad amare la vita e a viverla piacevolmente in libertà e in pace senza nuocere agli altri.

IN PIAZZA PER LA PALESTINA




FIGLIOLIA A BUSTO ARSIZIO




venerdì 11 aprile 2025

CONVERSAZIONI DI ESTETICA
Alla Fondazione “Corrente” di Milano


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TRUMP LUCIDO FOLLE?



Londra. Caro Direttore, ci andrei più cauto sul “personaggio” Trump e la sua squadra di governo di quanto fa su “Odissea” Luigi Mazzella, per lo meno sulle sue reali intenzioni in fatto di guerra. Finora la guerra fra russi e ucraini va avanti senza che abbia fatto realmente qualcosa. Tra l’altro continua a fornire armi e sostegno all’Ucraina. E del Medioriente non parliamone: il massacro di Israele ai danni dei palestinesi continua con il suo aperto appoggio politico e militare. Non mi pare che si sia discostato molto dalla precedente amministrazione Biden in fatto di favori alla lobby delle armi, anzi. Ricatta l’Europa con la minaccia del disimpegno, li obbliga a comprare armi dagli Usa e di smantellare missili in Europa ed a sciogliere la Nato non se ne parla. A me pare piuttosto un furbo lucido folle, come lo hanno definito su “Odissea” nei loro scritti Romano Rinaldi e Alfonso Gianni, citando Shakespeare, e che pensa semplicemente ai suoi interessi.
Fabio Poli

IL PROVOCATORE 
di Luigi Mazzella



Trump sbertuccia i leader politici europei.
 
È molto probabile  che Donald Trump continui nella sua opera di persistente provocazione e di provocatorio sbertucciamento dei cosiddetti “leader politici europei” di cui chiaramente non ha alcuna stima e che il prossimo passo possa essere quello di concedere a Giorgia Meloni lo “zero a zero” sui dazi. E ciò, mentre  Ursula Von der Leyen ed Emmanuel Macron  dovranno attendere i previsti “novanta” giorni per conoscere, con le loro minacce di “bazooka” sul tavolo e amenità consimili, il destino di “daziati” o di “graziati”. A dispetto della “grancassa”, battuta senza risparmio di ripetuti colpi dai filo-Democratici del sistema mass-mediatico Occidentale (una maggioranza strabordante), l’irridente neo-eletto Presidente americano, pur caduto nel tranello del “Carneade Navarro” (sbugiardato, senza troppa e garbata “diplomazia”, da Elon Musk), è riuscito a dimostrare che il Re (id est: l’Europa) è inesorabilmente “nudo”, anche se non ha perso nessuna delle caratteristiche che ne hanno fatto nei secoli il padre (id est: la madre)  dei più imperterriti e pertinaci guerrafondai del globo, i suoi connazionali statunitensi. Naturalmente, il neo-eletto Presidente Donald ritiene di non avere nulla a che fare con l’America dei Democratici, servi interessati della CIA, del Pentagono e dell’industria della armi oltre che con quelli che ancora la votano (e che, secondo le sue previsioni, saranno sempre meno perché non gli sarà difficile dimostrare per tabulas le connivenze della cricca di potere da lui sconfitta con il mondo del malaffare politico (e non solo). È verosimile che, nel propositum in mente retentum di Trump, il “riarmo” fortemente voluto dalla “pulzella” di Bruxelles, possa essere la  premessa di una ennesima guerra interna al vecchio Continente che, a suo giudizio, con i suoi comportamenti aggressivi e manie di grandeur è all’origine di ogni confusione e corruzione dell’Occidente. Non è da escludere che la sua segreta speranza siasoprattutto che Germania, Francia e Inghilterra possano darsi reciproche e forsennate botte (come suol dirsi “di santa ragione”) dando agli Stati Uniti dei Repubblicani alla Trump l’occasione di assistere alla tenzone fuori dal ring (senza intervenire, quindi) per salvaguardare e continuare  il progetto di “America first”.
Per l’Italia è difficile fare previsione. Nel suo passato, c’è sempre stato, al vertice dei suoi governi, un “sacco di mattoni” (per usare la terminologia di Musk) che ha pensato di “sedersi al tavolo della pace” (per finire, magari, sul lato sbagliato e mollare, come la Storia insegna, qualche ulteriore parte del suo territorio). Il livello culturale dell’attuale classe dirigente, cresciuta ai canti di “Noi vogliam Dio per nostro padre”, “All’armi siam fascisti” e “Bandiera rossa”e l’assenza pressoché totale di gente che ha un pensiero libero e si muove seguendo la ragione non lascia sperare molto. Non manca, ovviamente, chi irrazionalmente sostiene che c’è uno “stellone” che interviene al momento giusto a salvare il “Bel Paese”. Chi non vuole discostarsi dall’uso del raziocinio parla di tendenza incoercibile degli Italiani al “girellismo” più spregiudicato che salva il Paese, come suol dirsi con gergo calcistico, “in corner”. 
Domanda: Chi potrà  essere il “voltagabbana” di turno? Almeno un po’ di coraggio dovrà averlo: non dovrà temere i bazooka messi sul tavolo dalla Von Der Leyen e sapere di dover fare a meno dell’ombrello nucleare di Macron e di Starmer.  
 
 

 

 

 

 

 

BIENNALE
Rinasce la storica Rivista “La Biennale di Venezia”


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giovedì 10 aprile 2025

I PERCHÉ DELLA GUERRA DEI DAZI  
di Alfonso Gianni



Se si potessero tradurre in un grafico le innumerevoli e contradditorie dichiarazioni ed azioni di Donald Trump, ne risulterebbe probabilmente un tracciato simile a quello di una pallina in un flipper. Uno zigzagare improvviso e imprevedibile, da una parte all’altra, un salire e scendere senza una direzione definitiva e coerente, ma sempre con il massimo di energia nella spinta. Tutto ciò non significa affatto che siamo di fronte a un pazzo come viene descritto in frequenti banalizzazioni, o quantomeno faremmo bene a indagare il metodo che vi è quella follia, seguendo il consiglio implicito nel famoso detto shakespeariano (“there’s method in his madness”). In altre parole Trump sta non solo implementando un credo ideologico e ferocemente classista, ma sta seguendo a modo suo un piano che è alla base di quella che ormai possiamo chiamare trumponomics. Del resto l’autorevole The Economist, oggi tra i più critici, come il Wall Street Journal, sulle scelte trumpiane, non molto tempo fa titolava prudentemente che la “Trumponomics potrebbe non essere così male come molti si aspettano”[1]



Ma certamente il 2 aprile 2025 Trump ha delineato con la consueta ruvidezza una svolta drastica nella politica estera, economica e finanziaria degli Usa, buttando per aria regole e intese che riguardavano il commercio mondiale e creando conseguentemente forti turbolenze sui mercati finanziari. Non era mai successo, almeno in questi termini e in queste proporzioni nel secondo dopoguerra, anche se i primi segnali si erano avvertiti durante la prima presidenza di Trump. Al punto che emergono incrinature tra Musk e il tycoon, avendo il primo interessi assai concreti da tutelare in diverse parti del mondo, mentre la popolarità di Trump è in discesa rapida anche in Occidente. Nel nostro paese, ad esempio - ove la Meloni cerca di restare aggrappata al Presidente Usa, in un gioco di spericolato equilibrismo nei confronti della Von der Leyen, mentre Salvini si propone come il più autentico sostenitore della linea d’oltreoceano - recenti sondaggi, che certo non sono verità assolute, ma spesso indicano tendenze reali, testimoniano un rapido crollo di fiducia da parte de inostri  cittadini nei confronti di Trump.[2] Intanto le Borse segnano pesanti passivi sia in Europa che in Asia; Wall Street sale e soprattutto scende a seconda delle voci, vere o false che siano, che si inseguono nell’arco della giornata e persino l’oro che aveva toccato vette inconsuete le sta abbandonando rapidamente.[3]
Un simile sconvolgimento non era certamente imprevedibile. Anzi era messo nel conto da Trump e dai suoi consiglieri economici. Vi è infatti una ragione di fondo che sta dietro le sue mosse ed un piano specifico.



Il già citato Wall Street Journal aveva definito “stupida” la guerra commerciale intrapresa da Trump. Ma non è così. Ce lo suggeriscono due studiosi americani, l’uno operante a San Francisco, l’altro a Pechino, i quali ci avvertono che le guerre commerciali sono in realtà guerre di classe.[4] Il perché è semplice. I dazi e i contro dazi aumentano inevitabilmente i prezzi delle merci in una economia integrata che tale rimane malgrado il rinculo della globalizzazione; quindi l’inflazione riparte e a farne le spese sono i ceti, le classi meno abbienti e interi popoli di quello che ormai siamo soliti chiamare (con una definizione di carattere più politico ed economico che non geografico) il Sud globale. Non è quindi come dice Jeffrey Sachs, pur all’interno di una intervista piena di buone cose, “che sarà una battaglia lose-lose, tutti hanno da perdere”[5]. Non tutti. Il fatidico 1% ne trarrà ulteriore vantaggio e le diseguaglianze già così enormi si approfondiranno ulteriormente. “È il momento di arricchirsi” ha detto Trump, inconsapevolmente – credo – ricalcando quasi il celebre invito lanciato, in tutt’altra condizione, da Deng Hiaoping. Il progetto di fondo di Trump è esattamente quello non solo di vincere la lotta di classe – cosa già avvenuta, come ci ha detto Warren Buffet – ma di stravincerla, anche a costo di calpestare quella middle class e quelle parti di classe operaia della Rust Belt (“la cintura della ruggine”, ovvero le zone deindustrializzate) che pure lo hanno votato.[6]



Questo disegno di fondo, per riuscire, ha bisogno di un piano, per quanto rischioso, che si muova a livello internazionale. Questo gli è stato fornito in un  paper – “A user’s Guide to Restructuring the Global Trading System” - elaborato nel novembre del 2024 dal suo principale consigliere economico Stephen Miran.[7] Il nocciolo della questione è subito esplicitato nelle prime righe del testo “La radice degli squilibri economici risiede nella persistente sopravvalutazione del dollaro che impedisce l’equilibrio del commercio internazionale e questa sopravvalutazione  è guidata dalla domanda anelastica di attività di riserva. Con la crescita del Pil globale diventa sempre più gravoso per gli Stati Uniti finanziare la fornitura di attività di riserva e l’ombrello della difesa, poiché i settori manifatturiero e commerciale sopportano il peso dei costi”. Il primo step di questo percorso è appunto rappresentato dall’aumento dei dazi. Miran si rende perfettamente conto che questo può portare in un primo momento, per l’aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione, a un rafforzamento del dollaro, anziché ad un suo indebolimento come sarebbe da lui stesso auspicato quale obiettivo di fondo di tutto il piano. Infatti lo scrive nella pagina conclusiva del paper: “In ogni caso, poiché il presidente Trump ha dimostrato che i dazi sono un mezzo con cui può estrarre con successo leva negoziale (ed entrate) dai partner commerciali, è molto probabile che i dazi vengano utilizzati prima di qualunque strumento valutario. Poiché i dazi sono positivi per il dollaro statunitense, sarà importante per gli investitori comprendere la sequenza delle riforme del sistema commerciale internazionale. È probabile che il dollaro si rafforzi prima di invertirsi, se ciò avviene”.



Ma nessuna paura, fa capire Miran, perché gli Usa hanno altre frecce al loro arco. Certamente, spiega, “storicamente gli accordi multilaterali sulla valuta sono stati il mezzo principale per attuare cambiamenti internazionali nel valore del dollaro”. Come fu con il Plaza Accord del 1985, ove Usa, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito si sono coordinati per indebolire il dollaro, frenandone poi l’eccessiva discesa con il successivo Louvre Accord del 1987. Ma allora il quadro era decisamente diverso. Ad esempio mancava un player, oggi diventato un protagonista e un antagonista, dal punto di vista statunitense, sulla scena mondiale, quale è la Cina. È difficile oggi immaginare un accordo monetario multilaterale, una sorta di Mar-a-Lago Accord, dal nome della residenza in Florida di Trump. Allora, dice Miran, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota: “Innanzitutto c’è il bastone delle tariffe. In secondo luogo c’è la carota dell’ombrello della difesa e il rischio di perderla”. Ecco quindi che il disegno strategico per riacchiappare la centralità e il dominio del dollaro nel commercio e nei mercati globali, e con esso la diminuzione del deficit commerciale e dell’enorme debito degli Usa, si intreccia indissolubilmente con la costruzione di un sistema di guerra che funzioni da ricatto e minaccia permanenti. E che, per avere efficacia, non può basarsi solo su guerre latenti, ma su guerre effettivamente guerreggiate e possibilmente infinite se viste nel loro insieme, al di là dei singoli luoghi dove possono accendersi e (provvisoriamente) spegnersi. I pericoli di contro dazi, almeno nel campo dove ancora ha determinante voce in capitolo la declinante potenza di Washington – ad esempio l’Europa – sarebbero così eliminati o almeno fortemente attutiti dalla capacità di manovrare il bastone e la carota. Da qui la necessità di scavalcare ogni sistema di intermediazione a livello mondiale, come quelli nati alla fine della seconda guerra mondiale così come quelli che hanno cercato di governare la globalizzazione nel suo periodo più aureo, cioè l’ultimo ventennio del secolo scorso, e di trattare con i singoli Paesi ponendoli di fronte ad una scelta secca: o nella sostanza accettate i dazi oppure aumentate le spese per la difesa militare della Nato.



Nello stesso tempo Miran si pone il problema di come convincere le banche centrali di Cina, Giappone ed Europa a vendere le riserve di dollari in eccesso da esse possedute comprando sui mercati le rispettive valute nazionali. Per questa via il dollaro dovrebbe perdere valore e quindi ne trarrebbe profitto la competitività delle merci statunitensi. Non facile, come è evidente, soprattutto tenuto conto delle elevatissime riserve in dollari della Cina. Non solo, ma come evitare che la forte vendita dei titoli Usa (i Treasury) possa provocare una corsa alla liquidazione di attività in dollari, quindi un rialzo dei rendimenti, ottenendo un effetto collaterale del tutto indesiderato (viste le pressioni di Trump sulla Fed su questo tema) e cioè che i tassi di interesse salgono anziché scendere? C’è un altro coniglio nel capace cappello di Miran pronto ad essere estratto: i cosiddetti titoli Matusalem. Ovvero le banche centrali verrebbero incoraggiate a scambiare titoli a breve termine con quelli a lunghissima scadenza, fino a 100 anni, garantendo al contempo alle banche di approvvigionarsi della liquidità a loro necessaria senza essere costrette a vendere i bond in perdita.[8]



Questo è dunque il disegno e questo il piano di attuazione. Non siamo quindi di fronte ad atti di sconsiderata follia. Ma ciò non significa che non creino contraddizioni o che siano imbattibili. Certamente ci vorrebbe ben altra consapevolezza e altro spirito di quelli messi in campo qui da noi e in Europa. Mi riferisco sia ai propositi dei vari governi, sia a quanto è emerso a livello Ue. La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli Usa e dal maneggio alternato del bastone e della carota. Oggi più che mai l’indipendenza dell’Europa dal disegno di Trump di riconquistare ciò che l’America sta perdendo, ovvero il ruolo di baricentro dell’economia e della politica mondiale, il famoso “secolo americano”, risiede nello spezzare il sistema di guerra, così consustanziale, come abbiamo visto, al disegno economico e politico degli Usa, quindi farsi portatrice di un progetto di pace che in primo luogo si opponga al riarmo, alla cosiddetta difesa comune, ai progetti di un esercito europeo. Nello stesso tempo la via di uscita è quella di volgersi dal punto di vista commerciale ed economico verso i Brics, verso i paesi del Global South, attuando accordi su basi paritarie. Un percorso che va compiuto contemporaneamente. Difficilissimo, lo so. Ma ogni altra strada è preclusa o porta alla rovina. Almeno cominciamo a muovere i primi passi in questa direzione.

 
Note
[1]. “Trumponomics would not be as bad as most expect. Opposition would come from all angles” The Economist, 11 luglio 2024.
 
2. Si veda Renato Mannheimer “Crolla la fiducia verso Trump. Si amplia anche la frattura fra l’Europa e gli Stati Uniti” in ItaliaOggi, 8 aprile 2025.
 
3. Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2025 sintetizza così la situazione nel titolo a cinque colonne di prima pagina: “Borse nel caos, crollano Europa e Asia, Wall Street sull’ottovolante, oro in caduta”.
 
4. Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente diseguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einuadi, Torino 2021.
 
5. Vedi Eugenio Occorsio “È come una guerra che tutti perderanno” intervista a Jeffrey Sachs, in Affari&Finanza del 7 aprile 2025.
 
6. Una trattazione più estesa di questi aspetti della politica di Trump è contenuta nel mio editoriale “Il nichilismo di Trump” in Alternative per il Socialismo n.75, Castelvecchi, Roma pp. 326, che è stato ospitato in questo stesso blog la scorsa settimana.


7. Il testo in inglese è reperibile al link: https://www.hudsonbaycapital.com/documents/FG/hudsonbay/research/638199_A_Users_Guide_to_Restructuring_the_Global_Trading_System.pdf 


8. Si veda anche, su questi ultimi temi, Luigi Pandolfi “Matusalem bond, i prestiti a 100 anni, l’arma letale per coprire il debito Usa” in il manifesto del 3 Aprile 2025.