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domenica 14 dicembre 2025

NON È CHE UN ADDIO
di Angelo Gaccione


Mario Ferrando con il gatto Epifanio
 
Il libro di Mario Ferrando: Non è che un addio. Vite in un sussurro, me ne ha fatto venire in mente un altro di diversi anni fa: Tumbas, di Cees Nooteboom, su cui avevo scritto un’articolata recensione, che avevo pubblicato su queste pagine lunedì 7 maggio 2016. Inserisco qui sotto il link per chi volesse darci un’occhiata.
https://libertariam.blogspot.com/2016/03/libri-tombe-di-uomini-molto-illustri-di.html
Il libro di Nooteboom, alla ricerca di tombe di persone illustri, riguardava luoghi fra i più diversi e lontani, e le motivazioni erano strettamente intellettuali: quelle di uno scrittore, di un intellettuale che va alla ricerca delle spoglie di altri scrittori, di altri intellettuali che lo hanno, nelle forme più diverse, stimolato o influenzato. Questo di Ferrando, invece, riguarda i luoghi di sepoltura di un’area geografica ben precisa e delimitata: il Ponente Ligure, la sua terra, perché Ferrando in quella parte di terra c’è nato (ad Alassio dove tuttora vive, e a Genova dove ha compiuto gli studi), e dunque il suo affetto per i luoghi e i nomi dei trapassati, è un legame sentimentale vero, caldo, credibile, radicato. Ferrando ama la quiete e il silenzio, e non c’è luogo più idoneo di un cimitero per questo e per una riflessione profonda; per meditare sul senso della vita e della morte; per stare in raccoglimento con sé stessi, per ricordare. Nella nota che chiude il libro Ferrando ce lo confessa apertamente: “Da sempre amo camminare in luoghi poco affollati e silenziosi. Salvo nei primi giorni di novembre i cimiteri sono i posti ideali”. Ci racconta che da bambino vi si recava con la madre, e tutte quelle sepolture dalle fogge più diverse e cariche di simboli, quelle fotografie, quelle incisioni, quelle frasi spesso così esagerate, non potevano non rimanere nel suo animo e nella sua memoria. Da adulto, girare fra le tombe della sua terra, soffermarsi a leggere ciò che i familiari hanno voluto lasciarvi a imperituro ricordo, immaginare da quei pochi indizi, dalle professioni, dai gesti che in vita i trapassati avevano compiuto, meditare sul tempo che sulla terra avevano trascorso, sulle partenze e sui ritorni, sulle parabole esistenziali, sui sentimenti che avevano provato, lo hanno indotto a lavorare con la fantasia dello scrittore e a restituircele, quelle vite, di nuovo vive e palpitanti. Ci sono persone oscure in quei cimiteri, ma ce ne sono di quelle che hanno compiuto gesti non comuni. Non si tratta di Staglieno o del nostro Monumentale con il tempio della Fama per custodirvi gli spiriti magni, sono piccoli cimiteri di piccole cittadine, spesso spogli e raccolti e senza alcuna pretesa di esibire sfarzo o arte. Le motivazioni del suo progetto Ferrando le ha ribadite in uno dei passaggi dello scritto che mi ha inviato via email: “Da un anno sono a riposo e ho voltato pagina: ora posso dedicarmi pienamente alle mie passioni umanistiche, agli studi botanici, storici e alla teologia. Sono molto legato alla Liguria, che mi piace raccontare mescolando storia e fantasia, esplorare nei suoi piccoli borghi e percorrere a piedi lungo i meravigliosi sentieri costieri, collinari e montani, scoprendo ogni volta curiosità e informazioni interessanti che mi invogliano ad approfondire ancora. Qualche anno fa ho curato una ricca raccolta epistolare della famiglia di mia moglie, tra Villa Viani e il Perù, dal 1915 al 1947. Si tratta di un corpus che testimonia il fenomeno migratorio dalla Liguria al Perù, l’impatto dei migranti liguri con l’ambiente sudamericano, le loro condizioni di vita e i riflessi che grandi eventi della storia mondiale ebbero sull’esistenza di quelle famiglie. Questo primo lavoro ha anche ispirato uno dei racconti presenti in Non è che un addio, intitolato Le nostalgie degli altri. Ci sono riferimenti a documenti autentici, che troverete a pagina 236; io vi segnalo le lettere di Garibaldi a Caroline Giffard Phillipson, quella di D’Annunzio al tenente di vascello Giuseppe Garassini, il testamento del libero pensatore ateo, il cavaliere Agostino Pagliano. Il testamento, ma soprattutto la laconica scritta sulla sua tomba: Nessun Rimorso, nel cimitero di Laigueglia, suggerisce a Ferrando un gustosissimo dialogo teatrale a più personaggi. Pagliano ci è reso nel suo più autentico spirito di ribelle intransigente, ma anche generoso. La visita alla tomba del poeta dialettale Giuseppe Chiozza al cimitero di Pegli, è il pretesto per la costruzione di un immaginario incontro fra questi e Camillo Sbarbaro. Ferrando li farà incontrare sul monte Figogna dove Chiozza cerca asparagi e Sbarbaro i suoi amati licheni che colleziona e cataloga con passione e competenza. Dalle pagine di un diario che si dispiegano fra il 7 marzo del 1922 e il 5 gennaio del 1924, scopriamo che i due si sono tenuti in contatto epistolare e che finalmente, nel mese di aprile di quell’anno, si daranno appuntamento a Genova in Piazza De Ferrari.


Camillo Sbarbaro

Pranzeranno assieme in una trattoria non lontana da Piazza delle Erbe: sono due poeti e non potranno non parlare di poesia. Sbarbaro parlerà soprattutto di licheni, di questi strani compositi organismi di cui è affascinato: “Quel che in essi mi commuove è la prepotenza di vita” dirà di essi. Non ho visitato la tomba di Sbarbaro nei miei numerosi viaggi e soggiorni in Liguria, ma ho visitato la sua casa di Spotorno. Per un mese intero vi sono passato ogni giorno davanti, e tutte le volte leggevo la targa che è stata apposta nel sottoportico di via Finale per “l’estroso fanciullo”, come lo aveva definito Eugenio Montale. Troverete una trentina di tombe in questo libro, e un’altra trentina, o poco più, di narrazioni: fra il vero e il verosimile, come giustamente scrive Giancarlo Consonni nella sua introduzione. A lettura ultimata ci si accorge che storia, scienza, aneddotica, economia, e perché no? anche politica, morale, cibo, lingua, usi, costumi, tradizioni, geografia, insomma tutto ciò che ha riguardato questi uomini e queste donne, è condensato in un viaggio di scrittura. Chi ci ha accompagnato nell’esplorazione, ha profuso anche i suoi sentimenti privati in quelle vite. Le ha offerte al nostro sguardo con la benevolenza del complice, non con la distaccata noncuranza del semplice cronista.



Mario Ferrando
Non è che un addio. Vite in un sussurro
La Vita Felice, 2025
Pagg. 248 - € 20,00

  

CONTRAPPUNTI  
di Alessandra Paganardi



Polifonia e ripresa nei “Contrappunti” di Angelo Gaccione
 
Questi “contrappunti” non sono soltanto appunti “in direzione ostinata e contraria”.  Sono anche veri e propri contrappunti musicali a precisi testi poetici scritti e raccolti negli anni, in particolare nel libro Una gioiosa fatica presentato dieci giorni fa. “Puncti contra punctos”, perché i testi poetici e quelli in prosa costituiscono linee melodiche indipendenti, ma funzionano anche insieme. Ho svolto una piccola ricerca filologica per trovare i richiami precisi, le corrispondenze. Li ho annotati con molto scrupolo (si può, a titolo di elenco parziale, fare qualche esempio) e il risultato mi ha sorpreso. Ho avuto conferma, se ce ne fosse stato bisogno, della reale polifonia di cui la creatività di Gaccione è dotata. Non solo: ma dato che i contributi poetici e quelli giornalistici sono sempre scrupolosamente datati, si può capire qualcosa in più anche del “cantiere” intellettuale in cui i pensieri e le idee di Gaccione hanno preso vita negli anni.
 

Prima di tutto: le date dei contributi poetici sono spesso anteriori a quelle dei pezzi in prosa. Distanziati, a volte, di anni (un esempio per tutti: la poesia Dachau marzo 1981 e il pezzo “Viaggio nella memoria”, scritto nel 2021).  Come se il testo poetico corrispondesse a un’urgenza, cui la riflessione segue a distanza con altri strumenti, arricchita da anni di domande, letture, dialoghi dell’autore con se stesso e con gli amici stimati (quelli con i quali, scrive Gaccione, conversare è una delle vere gioie della vita). Ma la ripresa a distanza temporale significa soprattutto che in questa polifonia, in questo intelletto estremamente mobile e multiverso, Gaccione non è affatto volubile: torna anzi sempre su temi che sono per lui delle vere ossessioni - l’ingiustizia, la guerra, l’utopia, i luoghi e gli oggetti come entità che si caricano dell’anima di chi li ha abitati. Si vedano i pezzi Cose e beni e L’eterno presente, che trovano innumerevoli corrispondenze trasversali nei testi poetici. Altre ossessioni sono l’empatia verso ogni essere senziente, il tempus edax che tutto cancella, le perplessità contro certo realismo e progressismo d’accatto che costituiscono l’ideologia dominante: e sempre una fiera resilienza contro la progressiva disumanizzazione del mondo. Homo sum, humanum mihi nihil alienum puto, recita la citazione terenziana, da cui parte uno dei pezzi più profondi del libro. Spesso i contrappunti in prosa sono ancora più lucidi e scorati di quelli in poesia: non certo perché la poesia funzioni come un feltro nella sordina del pianoforte, ma perché lo spazio dedicato alla riflessione (e il tempo che passa) consentono di processare con maggior profondità i problemi, soprattutto quelli più insolubili e angosciosi. Non è solo edax questo nostro tempo: per fortuna regala al pensiero una dimensione in più, se sappiamo farne tesoro.



Un posto speciale nella riflessione di Gaccione, l’abbiamo detto, occupano luoghi e oggetti. Il paesaggio letterario si sovrappone a quello naturale, così come i personaggi fittizi hanno lo stesso impatto esistenziale sull’autore di amici reali. Questo per una ragione profonda: l’intera esperienza umana viene processata nell’interiorità, scomposta per così dire in elementi emotivi che la rendono speciale. Non conta la realtà sensibile, ma il suo senso. Per la stessa ragione, sostiene l’autore citando Oscar Wilde, la vera realtà è l’utopia. Aggiungo che ogni scrittura civile in grado di far riflettere e di emozionare, come quella di Gaccione, non può che fondarsi sull’ossimoro (soltanto apparente) di un “intimismo estroverso”. Un occhio d’ape che esplora il mondo e una ragione soggettiva che, come in un movimento diastolico e sistolico, lo filtra e gli dà significato. Una scrittura, infine, che trova i propri modi - soggettivi e universali - per restituire al mondo gli esiti sempre provvisori di questo viaggio dell’anima.

EDUCARE ALL’AFFETTIVITÀ
di Zaccaria Gallo


Abbracci

                       

I’ cominciai: “Poeta, volentieri  parlerei a quei due ch’insieme vanno / e paion si’ al vento esser leggieri”./ Ed elli a me: “Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed e verranno”.                        

[Dante Alighieri. Divina Commedia, Inferno, Canto V] 

Sì, sono loro, Paolo e Francesca, uniti per l’eternità, in un abbraccio che li ha avvinti in vita e che continua a tenerli assieme, anche dopo la morte. Un lungo fortissimo abbraccio: ci manda un invito a considerare, con più attenzione, questo gesto. Per vivere in armonia, siamo abituati a pensare, infatti, che gran parte della nostra comunicazione avvenga tramite le parole. In realtà, la maggior parte dei messaggi, che trasmettiamo agli altri, viene veicolata attraverso il linguaggio non verbale, quindi attraverso gesti del corpo e di tutta una altra serie di fattori. Gli abbracci sono uno di questi strumenti espressivi e, quando nasciamo, è il primo contatto che ci mette in relazione con il mondo al quale ci affacciamo. L’abbraccio materno non solo ci accoglie ma, tenendoci appoggiati al petto, ci sostiene, ci rassicura: possiamo passare il confine che ci divideva dagli altri. Quando abbracciamo l’altro, possiamo sentire il suo respiro e, se ci sta parlando, possiamo sentire il tono della sua voce in modo diverso da quello che ci proviene da lontano; possiamo percepire il profumo dei suoi capelli e talvolta anche il battito del suo cuore. È un gesto magico. Trasmette accoglienza, affetto e amore: noi cerchiamo sempre di abbracciare il più spesso possibile le persone con cui sentiamo di aver un legane affettivo profondo, dai nostri familiari, agli amici cari, ai nostri partner. Si abbraccia anche per altri motivi: per sostenere l’altro in difficoltà. Quante volte, infatti, è capitato anche a noi di stare male e di aver sentito il bisogno di un abbraccio? Ci abbracciamo anche per condividere un momento di intimità: un modo per scavalcare e per abbattere i muri e le barriere e per esser sé stessi, ritrovando quello che al giorno d’oggi ci sta venendo a mancare: la gentilezza e il rispetto per i sentimenti altrui. Un abbraccio che nasce dal cuore, un abbraccio sincero, sarà sempre un gesto di pace, un gesto che combatte contro la violenza. Ricordate? Dopo la pandemia tutti eravamo alla ricerca di un abbraccio, di un ritrovare quel momento di contatto con chi volevamo bene e non solo. Oggi che la digitalizzazione delle relazioni sta cedendo inesorabilmente verso l’artificio relazionale, e che i popoli si sono dichiarati una guerra senza quartiere, una guerra disumana per la sua violenza, forse, parlare di abbracciarsi può apparire solo un vuoto artificio retorico, una utopia da lasciare solo a inguaribili sognatori. Eppure è questo, invece, il momento in cui ogni abbraccio diventa, forse, il solo modo per comunicare e condividere nel dolore la speranza della pace, perché contiene il valore simbolico dell’accettazione dell’altro e da parte dell’altro, e quindi non è banale. Avvicina, intreccia, insalda e rinsalda, esprime intesa, voglia di scambio, desiderio di condividere, rifiuto di ogni separazione e paura di non potersi riabbracciare. Tutto quello che abbiamo detto finora trova le sue basi negli studi moderni della neurofisiologia: è stato dimostrato, infatti, che gli abbracci stimolano nell’ipotalamo la produzione dell’ossitocina chiamato anche ormone dell’amore, dei legami sociali, della tranquillità e regola la sensazione di benessere interiore attraverso la riduzione del cortisolo: si riducono ansie e paure, si ottiene la calma e la consapevolezza di sé stessi. Inoltre è stato anche dimostrato che un abbraccio è salutare per il sistema cardiocircolatorio, perché abbassa i valori della pressione arteriosa, riduce i battiti cardiaci e, aumentando il numero di globuli bianchi, rafforza il sistema immunitario; equilibrando il sistema nervoso lenisce le ferite del cuore, riempie il vuoto interiore. Dunque, tutto questo si ottiene abbracciando ogni essere vivente: non solo un uomo o una donna, ma il proprio gatto, il proprio cane e anche un albero. Diversi anni fa tante donne della comunità Bishnoi nel Rajasthan in India sotto la guida di Gaura Devi sacrificarono le proprie vite per salvare dall'abbattimento i loro alberi sacri abbracciandoli. Cingendoli con le braccia, attaccate ai tronchi, difesero con il proprio corpo gli alberi e la foresta fonte di sostentamento della loro società. 



Da allora e fin dagli anni Settanta si consolidò il rito di abbracciare gli alberi e resistere e il movimento prese il nome di Chipko che in India significa aggrapparsi. Il governo fu obbligato a costituire un comitato per comandare la cessazione per 15 anni dei tagli degli alberi a scopo commerciale e nel dicembre del 1987 a Stoccolma fu consegnato il Premio Nobel per il diritto alla vita alle donne del Movimento. Le donne diventarono figure iconiche essendo riuscite a collegare la lotta ecologica alla giustizia sociale e ai diritti delle donne stesse. Non fu solo una protesta ma anche una difesa delle risorse naturali legate agli alberi come acqua cibo e legno. “Abbraccia i nostri alberi” fu lo slogan semplice ma potente: simbolo globale di disobbedienza civile non violenta a difesa dell’ambiente. Gli alberi con la loro maestosità e la loro presenza ancestrale hanno sempre esercitato un fascino speciale sull’essere umano e l’atto di abbracciare gli alberi va ben oltre il semplice gesto fisico: si tratta ancora per ciascuno di noi, se dovessimo farlo, di un’azione profonda che coinvolge il corpo la mente e l’anima e mira a creare un’armonia tra l’individuo e la natura perché gli alberi sono entità viventi che emanano energie, connessi all’essenza della terra. Abbracciare un albero è un modo per riconnettersi con la natura, per sentirne l’energia vitale, per sincronizzarsi con i ritmi naturali del pianeta e se è vero che gli alberi hanno la capacità di assorbire le energie negative rilasciando energie positive, abbracciare un albero, uno qualsiasi, può aiutare a bilanciare e purificare la propria energia portandoci, tutte le volte che ne avvertiamo la necessità, verso una sensazione di rinnovato benessere. Invita, allora, così il grande poeta spagnolo Juan Ramon Jimenéz: “Taci! Gusta lo zenith, / ascolta il sole. / Non parlarmi! / Unisci. / Nel fiore permanente / di un infinito amore, / le tue mani alle mie, / il tuo silenzio al mio. / Taci! Aspira l’azzurro, / Ascolta l’oro. Questa è la magia che contiene ogni abbraccio.

 

 

LIRICA
di Luigi Mazzella
 


Lady Macbeth nel distretto di Mcensk 
 
L’inaugurazione della stagione operistica del ‘Teatro alla Scala’, a parte qualche (agevolmente) evitabile problema di protocollo (con errore marchiano dovuto, probabilmente, al pessimo gusto, incline alla provocazione faziosa, di gente che è chiamata a svolgere ruoli superiori alle sue capacità professionali e alla sua intelligenza), è stato un grande successo degno della tradizione dell’attività musicale italiana. Lady Macbeth nel distretto di Mcens (titolo originale: Ledi Makbet Mcenskogo Uezda) ha confermato di essere un capolavoro assoluto, pure appartenendo solo alla prima produzione, giovanile, di Dmitrij Sostakovic. La musica è possente ed esuberante, il respiro della partitura è grandioso, il ritmo incalzante. Sorprende la varietà dei moduli espressivi per aderire, quasi cinematograficamente, alla complessità dell’azione scenica che ha tratti molto movimentati, popolari, grotteschi e sottilmente ironici.



L’affinità con esponenti illustri della tradizione tedesca e francese, agevolmente rilevabile costituisce la riprova “geopolitica”, del tutto inconfutabile, che un’Europa senza la Russia è un Continente monco che può dare luogo solo a un’Unione Europea dimezzata. Come tutta la cultura dell’Occidente anche quella Russa è fortemente fantasiosa e sostanzialmente irrazionale, perché è condizionata anch’essa da un’intensa e profonda religiosità e da posizioni ideologiche che tendono, per loro natura, all’estremismo. La mancanza di razionalità le consente, per converso, di creare spazi enormi alla creatività emotiva ed artistica. Sostakovic, al momento della creazione di quello che può ritenersi il suo capolavoro, era vicino ai movimenti dell’avanguardia rivoluzionaria, sentiva di essere pieno di orgoglio per i valori musicali della sua patria (soprattutto: Rimskij-Korsakov e Prokofiev), attento e appassionato ai temi canori e ai timbri chiassosi e aggressivi della tradizione popolare.
Ascoltando Lady Macbeth, si avverte che la sua ironia non risparmia la musica borghese, da lui probabilmente ritenuta inidonea a trasmettere, con realismo, gli ideali rivoluzionari: nulla, però, è mai sopra le righe. L’opera, rappresentata per la prima volta a Leningrado nel 1934, fu accolta con grande favore dal pubblico sia in URSS che all’estero, anche se una parte della critica ne disapprovò l’aggressività e la crudezza di alcune situazioni di vita cosiddetta “intima”.



Due anni dopo la prima rappresentazione, Stalin mise, però, al bando l’opera definendola caotica e confusa. A conferma dell’identità e dell’omogeneità culturale dell’intero Occidente, la critica Statunitense, ugualmente imbevuta di irrazionalità e di bigottismo religioso definì l’opera “pornofonia”.
Meno agevole è comprendere l’ipotizzabile riferimento del titolo a quello della tragedia shakespeariana.
Non si tratta, come qualche critico ha scritto, di un’opera di rivolta politica chiaramente antiborghese, rabbiosa e torbida come le antiche lotte di palazzo.
Né, a mio giudizio, può parlarsi di un’anticipazione della lotta femminista per il riscatto della sottomissione familiare della donna russa, tradita da una rivoluzione del tutto mancata su tale punto (pur comprese le istanze femministe nei programmi ideali di Lenin volti al riscatto da ogni condizione servile).


Siamo pur sempre nell’Occidente delle “favole” illusorie, religiose e politiche, scambiate dal “popolo bue” per verità ritenute certe. E ciò, anche se si tratta di narrazioni inverificabili o addirittura contraddette dai fatti concreti.
Non v’è, quindi, nelle parole del libretto, un’imprecazione lucida e spregiudicata contro il male fatto al genere umano di sesso femminile dal falso e finto rigorismo, definito impropriamente etico ed invece solo del tutto contro-natura, sia delle tre religioni monoteistiche mediorientali sia delle due concezioni “in maniera sostanziale borghesemente puritane” dell’idealismo post-platonico ed hegeliano. Non possiamo dimenticare che una di quelle aberrazioni ideologiche post-leniniane era entrato addirittura nel patrimonio politico dall’autore.
Allora: qual è il senso degli eventi rappresentati e quale il nesso con la Lady Macbeth del drammaturgo inglese? Come nel dramma di Shakespeare, a dominare i fatti sono la perfidia e la violenza: condivise da entrambi i generi, quello maschile e quello femminile. Anche le visioni di rapporti sessuali lascivi non sono soltanto espressione di violenza maschilistica, ma come, soprattutto nel finale, anche di callido e interessato meretricio muliebre (un distratto coito, sul sedile di un camion, per un paio di calze di lana). Per capire, a fondo, la sconvolgente attualità dell’opera, bisogna pensare all’odio che già pervadeva (e ancor più pienamente pervade oggi) la società Occidentale. Al contrario delle fiabe religiose sull’amore per il prossimo e quelle politiche sulla solidarietà sociale, gli abitanti dell’Occidente erano già negli anni Trenta e sono ora sempre più divorati da un rancore reciproco che conduce a un terrificante, diffuso cupio dissolvi che li sta avviando al tramonto preconizzato da Spengler. Con buona probabilità, negli anni Trenta, Sostakovic credeva ancora, forse per non cadere nella disperazione e per straordinaria lucidità mentale, nel valore essenziale dell’amore nella vita umana ed immaginava che la mancanza di tale sentimento portasse sia l’uomo e sia la donna ad annoiarsi.



Di noia esistenziale, nell’opera, in tempi diversi, parlano, con enfatica sottolineatura, sia Katerina sia Sergej i neo-amanti, prima e dopo l’assassinio del marito di lei e del suocero. L’assenza drammatica di una vera e profonda relazione sentimentale che, nel dramma Shakespeariano, rende esasperata e spasmodica la ricerca del potere politico e del conseguente dominio sugli altri come alternativa alla mancanza di un vero sentimento appagante e lietamente affettuoso, diventa, nell’opera del compositore Russo, violenza personale, “casareccia” e dozzinale tra le mura domestiche. Con precisi accenti, al tempo stesso forti e delicati, dettati dal prevalere nella sensibilità di Sostakovic della componente per così dire “femminile” del compositore (e co-sceneggiatore) dell’opera, sottolinea efficacemente i diversi effetti e gradi della noia tra i protagonisti della storia narrata.  I maschi non sembrano soffrire molto per la mancanza di amore: per combattere la noia si ubriacano con dosi abbondanti di alcol, sghignazzano senza ritegno in locali pubblici dove si danno convegno, in famiglia si comportano da despoti assoluti, con donne sottomesse e succubi. Katerina, all’opposto, non rinuncia alla speranza di contrapporre alla noia in cui si dibatte la vicinanza erotica e affettiva di un uomo. Lo trova con i metodi dozzinali che ha passivamente sperimentato sulla propria pelle, e sbaglia. Sergej è della stessa pasta degli altri maschi da lei frequentati anche se appartiene alla classe lavoratrice e non a quella degli odiati “padroni”. La sua “speranza” s’infrange malamente e sul suo suicidio (si cosparge di benzina e si dà fuoco) cala il sipario.

Sostakovic

È nel racconto dei fatti e nella loro sottolineatura con note appropriate la modernità dello spettacolo teatrale dato alla Scala e diretto con impegno e amore dal Maestro Chailly. Se ancora oggi molti cultori della Narrativa e (ancora di più) i tetragoni, incrollabili e numerosi fautori della magia della Poesia, continuano a impegnarsi per intrattenere i lettori, con le loro opere di fantasia (storie meravigliose o composizioni di versi alati) sostanzialmente obnubilanti e ottundenti ai fini della ricerca della verità filosofica della realtà esistente (che alla ragione appare sola e unica senza alternative dualiste, puramente immaginarie), sorprende che un giovane musicista e gli autori del libretto dell’opera (Aleksandr Prejs e lo stesso Sostakovic, prendendo spunto dall’omonimo racconto di Nikolai Leskov) anticipassero, circa un secolo fa, il crollo psicologico odierno degli Occidentali, che sembra ormai foriero unicamente di guai ulteriori. Quest’opera di Sostakovic dimostra anche, però, che se l’anima russa, stravolta (come quella di tutto l’Occidente),  dal doppio ciclone assolutistico della religione (nella specie: ortodossa) e di una delle due ideologie teutoniche di fine Ottocento (quella comunista), ha saputo trovare in lui un cantore della vita ispirata alla razionalità e alla ricchezza sentimentale, lo stesso potrebbe avvenire anche in altri Paesi della Vecchia Europa che, allo stato, sono riusciti ad apparire insopportabili persino agli occhi degli abitanti del Nuovo Continente!

 

  

L’ESERCIZIO INVOLONTARIO DEL SOGNO
di Francesca Mezzadri
 

Il romanzo di Nicola Argenti L’esercizio involontario del sogno (Les Flâneurs Edizioni, 2025), è un oggetto narrativo insolito, refrattario a classificazioni semplici, capace di oscillare con naturalezza tra filosofia, comicità involontaria, malinconia cosmica e un lirismo talvolta feroce. È un libro che non corteggia il lettore: lo trascina invece in un universo dove il tempo si inceppa, i corpi brontolano, i sentimenti assumono forme oblique, e un titano dimentica persino come si chiama mentre impara a maneggiare ami e canne da pesca. Sul piano contenutistico, il romanzo si muove con libertà sorprendente. Vi si trovano riflessioni sull’origine dell’universo, sulla natura dell’amore, sulla memoria e sulla potenza distruttiva dei treni, accanto a meditazioni sulle farfalle nello stomaco e sulla lanugine infantile. Nulla è mai gratuito: ogni immagine, anche la più surreale, apre una porta su un altro livello di senso. L’autore lavora per risonanze interne, creando un sistema di simboli che si richiama a vicenda e che costruisce progressivamente un orizzonte di significato non immediato, ma vivo. Lo stile è, forse, l’elemento più sorprendente dell’opera. La lingua si contorce, si allunga, si gonfia di immagini e dettagli, fino a diventare essa stessa personaggio. C’è un gusto barocco nella sintassi, un piacere quasi anarchico nel descrivere, un uso dell’aggettivazione che sfida ogni norma scolastica e costruisce un tono unico, riconoscibile, vibrante. Il romanzo respira attraverso le sue frasi, che oscillano tra un’eleganza ricercata e improvvise scartate comiche, come se la prosa sapesse alternare solennità e disincanto senza mai perdere equilibrio.
Uno degli elementi più interessanti e vivaci, per alcuni versi forse anche il cuore dell’opera, è il rapporto tra il protagonista, Iperione, e Zeugma, amico-nemico, accompagnatore svogliato, supponente e provocatorio: una coppia letteraria che funziona per attrito, per sbilanciamento continuo, come se ciascuno fosse il contrappeso dell’altro. Zeugma, fragile, digressivo, martoriato dai dolori di stomaco e dalle idee troppo nitide; Iperione, gigantesco e silenzioso, figura mitica che si aggira nel mondo con l’incertezza di un bambino. La loro amicizia è una delle architetture del romanzo: un legame che non nasce da affinità esplicite, ma da una sorta di attrazione gravitazionale, un destino comune che non si lascia decifrare. Ogni loro dialogo è un frammento rivelatore: ironico, sbilenco, attraversato da un senso di inadeguatezza che diventa paradossalmente la loro forza.



Proprio nella dimensione di questo rapporto conflittuale che si trova una delle simbologie più potenti: il “Due-Sezioni”, un impianto immaginario che Zeugma mostra con orgoglio e che Iperione non riesce a vedere. È un gesto poetico e filosofico allo stesso tempo: un oggetto che esiste solo come perfezione mentale e che proprio per questo deve rimanere intatto, mai tradotto in materia. L’idea stessa di creazione viene capovolta: ciò che nasce nel mondo è già condannato al deterioramento; ciò che resta nel dominio dell’immaginazione è eterno. È qui che il romanzo mostra il suo nucleo più profondo: la tensione fra il desiderio di dare forma e la consapevolezza che ogni forma è una ferita nel tempo.
Quando si chiude il libro, si ha l’impressione di aver condiviso un pezzo di cammino con due creature che non appartengono solo alla finzione, ma a una regione più intima del nostro immaginario. Zeugma e Iperione non sono semplici personaggi: sono figure-soglia, incarnazioni delle nostre esitazioni, dei nostri slanci, delle nostre paure di fallire o di avere successo. Una coppia che resta impressa non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta: il desiderio umano di trovare un ordine, un ponte, un “due-sezioni” che colleghi parti disperse dell’esistenza.
Il messaggio implicito del romanzo, mai esplicitato, si dischiude proprio in questo equilibrio. L’opera suggerisce che l’esistenza è fatta di crepe, di imperfezioni, di legami che non si comprendono appieno e che proprio per questo hanno valore. L’amicizia tra Zeugma e Iperione non promette salvezza né rivelazioni definitive: è una forma di resistenza, un modo di stare nel mondo nonostante il mondo sia enigmatico, incompiuto, talvolta comicamente assurdo. Il vero atto eroico non è dominare masse solari, ma restare accanto all’altro mentre il tempo vacilla.



Ed è proprio questa capacità di far convivere il visibile e l’invisibile, il corporeo e il concettuale, a rendere il romanzo un’esperienza così singolare. La lettura procede come un lento avvicinarsi a qualcosa che non si lascia mai del tutto afferrare: una verità mobile, sfuggente, che cambia forma come l’acqua del lago sotto il remo di Iperione. Ogni capitolo sembra aggiungere un nuovo strato, non tanto alla trama quanto alla percezione del lettore, che impara progressivamente a decifrare un linguaggio fatto di simboli, allusioni, improvvisi squarci emotivi.
Lo humour che attraversa il testo è di una delicatezza rara: non nasce dalla battuta, ma dal contrasto tra la grandezza delle idee e la piccolezza degli esseri che le abitano. È un umorismo essenziale, mai gratuito, che alleggerisce la densità filosofica e al tempo stesso la rilancia, mostrando come il ridicolo e il sublime non siano poli opposti, ma due facce della stessa esperienza umana.
La prosa, infine, lascia intravedere un universo in cui ogni elemento - dai pesci che non abboccano alle statuarie barriere del paesaggio - partecipa a una meditazione più ampia sulla fragilità del reale.
Il romanzo, in definitiva, non impone interpretazioni ma le suscita; non chiude, ma apre; non consola, ma accompagna. Invita a guardare le crepe, le pause, gli spazi bianchi tra una parola e l’altra - gli stessi in cui Zeugma sa sparire - come territori poetici in cui il senso si rigenera. È un’opera che chiede partecipazione, attenzione e un pizzico di fiducia: fiducia che le metafore conducano da qualche parte, che il viaggio valga anche senza una mappa chiara, che l’assenza possa dirci quanto la presenza pesi davvero.
E se il finale resta qui volutamente non rivelato, è solo perché l’autore ha costruito un percorso che merita di essere vissuto pagina dopo pagina, senza anticipazioni. Un percorso che continua a vibrare anche quando si è lontani dal libro, come il ronzio lontano di un treno che passa o come una farfalla che, per un istante, smette di sbattere le ali.

 

  

TRADUZIONI
di Anna Rutigliano


 
Alla Speranza
 
Oh amata mite Speranza!
Tu che nobilmente sei al servizio dei sofferenti
e la cui dimora non abbandoni,
tu che regni fra i mortali ed il cielo,
dove sei? Poco ho vissuto: persino la mia sera 
fredda sospira.
E ormai io son qui, nel silenzio,
come l’ombra,
ed il mio cuor tremante,
nel petto, senza voce,
già sonnecchia.
Lì, nella verde valle, dove dai monti
sempre scroscia
fresca sorgente,
dove l’intramontabile Bella
nel dì d’autunno a me sboccia,
lì, nella quiete, oh Amata,
voglio cercarti,
o quando l’incerta vita a mezzanotte
per i boschi va fluttuando
e sempre lieti fiori
le fiorenti stelle sul mio capo
fanno risplendere,
Oh tu, figlia dell’Etere, scendi allora dai
giardini del Padre e, se non ti è dato di giungere
come spirito della terra, sotto sembianze altre,
oh mio Sgomento, scuoti il mio cuor soltanto.
 
[An die Hoffnung, da: Nachtgesänge di F. Hölderlin] 

ERANO GIOVANI E FORTI…
di Laura Margherita Volante


 
Erano giovani e forti e sono 
morti!
Se è meglio morire nel proprio 
letto... o
sotto le bombe fra le ceneri dei 
vivi
con le mani riverse
al cielo.
Se è meglio che i figli 
siano campioni per un viaggio 
fra amici... o
eroi per una medaglia 
fra ignoti.
Se è meglio essere 
soldati... o 
artigiani di Pace.
La scelta dei vivi è la vita del 
filo d’erba 
per praterie libere e non 
della rosa del deserto per dune
senza croci.
Unici e uniti si è più forti al
destino
dei predestinati sotto il potere 
dei folli!

 

BIBLIOTECA
di Bruno Pompili



Massimo Del Pizzo, ovvero la densità del racconto.
 
Sarebbe ormai il tempo che il discorso sulla produzione narrativa di Massimo Del Pizzo passasse dal resoconto delle singole raccolte di racconti a una più ampia rendicontazione, una completa rassegna se non una monografia (se ancora si facessero, o semmai ci fosse una attenzione all’evoluzione delle scritture). Per questo non mi intrattengo in citazioni di dettaglio dal suo nuovo volume (non voglio usare il termine “volumetto”, che riguarderebbe lo spessore o il numero delle parole) appena uscito: In viaggio con la madre. Qui l’assalto contro la convenuta trama del raccontare si è compiuto, abbiamo i sussulti, gli echi, i frammenti di eventi e contrasti, le riflessioni incise o scolpite, vale a dire solo i residui di una storia; non trova ospitalità la concatenazione dei fatti, dei luoghi e delle persone, o delle maschere. Attenzione però: tutto questo - grazie alla scrittura di Del Pizzo - finirà per apparire o ritornare a giochi esauriti, quando la lettura conclusa si fa memoria della storia letta. Allora il lettore attento troverà la sua parte di riflessione e di soddisfazione. Insomma, di continuità. Cosa ha fatto il Narratore? Ha isolato gli echi e i rimbombi di un viaggio che assomiglia a un viaggio. L’abitudine, nella vita e nelle narrazioni, prevede che si accompagni, con trucchi e sentimenti più o meno colpevoli, un genitore verso una casa di riposo. Qui una madre viene portata da un figlio a casa propria. Questo è il viaggio, breve e circoscritto, nel corso del quale la madre pronuncia poche parole; molte altre il figlio se le anticipa, le pronuncia “come da solo”. Non c’è un dialogo reale, solo supposizioni e ricordi e memorie, per la maggior parte legate a rimproveri, delusioni, mancanze, tristezze per remoti abbandoni o non eseguiti abbracci, o eluse parole. La scrittura si fa carico sintetico delle distanze e dell’infelicità filiale, del destino di incompiuta felicità della madre annidata nell’imminente inevitabile destino. Vengono scartati gli eventi e privilegiato un rammarico latente di un viaggio di tragica cortesia, di necessaria dedizione. Anche spazio appartato per rammarico e rivendicazioni. Qui la scrittura ha assolto al proprio compito primario: variare sé stessa per scoprire storie sottratte all’ovvio. Max Del Pizzo sta sintetizzando e mettendo in ordine i frammenti sfuggiti alla storia quotidiana; poi li fissa in un bassorilievo prossimo a una filosofia del resistere. Ultima osservazione: il percorso verso la sintesi sta addensando la sua scrittura, che spesso elude le contiguità sintattiche e occhieggia a una prosa poetica che non è più racconto. Si può dire che Massimo del Pizzo poco racconta e molto distilla. Ci dobbiamo ormai aspettare altro. Ultima consolazione: ci sono ancora editori (evitiamo definizione “di nicchia”) che garantiscono spazio all’evoluzione di generi e scritture, lontano dall’inutile rumore delle convenzioni.


                                                 
            
 
Massimo Del Pizzo
In viaggio con la madre
Arsenio Edizioni, 2025,
Pag. 48 - € 10

 

sabato 13 dicembre 2025

IL TEMPO È SEMPRE GALANTUOMO   
di Chicca Morone


 
Mi è capitato più volte di assistere a deliri di onnipotenza da parte di persone apparentemente equilibrate: bastava una semplice frase di dubbio e dall’alto del loro sapere la mia visione da “casalinga di Voghera” veniva screditata e messa all’angolo. Partendo dal concetto che per fare una torta di mele ci vogliono ingredienti giusti in una giusta misura, ho sempre pensato che la mancanza di uno solo dei componenti destinasse al fallimento il progetto. Così quando mi spiegavano che per far progredire il fatturato di una casa editrice era necessario pubblicare un tot di libri al mese, facevo presente che se più del 50% delle opere erano delle solenni porcate prima o poi qualcosa si sarebbe inceppato. Così nell’ambito del giornalismo: non è solo l’avvento di Internet ad aver fatto colare a picco le vendite dei giornaloni, al cui tamponamento si è ricorso più volte con la danza dei direttori… la realtà vissuta dalla popolazione si è dimostrata troppo lontana dalla propaganda ignobile perpetrata dal mainstream e questo ha avuto il suo prezzo: disdette da abbonamenti, chiusura di edicole, enormi i resi, incremento di sostegni alle varie radio e televisioni private, nonostante i ricatti ai singoli giornalisti, personaggi angariati da sanzioni degne del più feroce regime stalinista.



È di questi giorni la notizia della cessione - da parte della Gedi - di tutte le attività editoriali (La Stampa, la Repubblica ecc.) che fanno capo al gruppo Exor, all’Antenna Group dell’armatore greco Theodore Kyriakou.
Risulta, questo imprenditore, essere amico intimo di Trump e non c’è da stupirsi perché dopo il 1992 e la “felice” crociera del Britannia in acque internazionali, i gioielli italiani sono stati implacabilmente svenduti a imprese straniere: nulla di nuovo sotto il sole, dunque.
Il patrimonio pubblico italiano - con una certa visibile soddisfazione da parte del fautore di tale progetto, il grande economista Mario Draghi, allora Direttore Generale del Tesoro italiano, in seguito assunto dalla banca d’affari Goldman Sachs - all’epoca è stato saccheggiato a 360°: perché dunque stupirsi oggi se un privato cede un’attività, che non rende quanto dovrebbe, a un altro privato? Strana però la coincidenza del documento della Casa Bianca firmato dal presidente Trump “Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America” che condanna l’Unione Europea e mette fine al governo mondiale, quello in cui si vagheggiava la fine delle sovranità nazionali e la costruzione di una governance globale, gestita da blocchi geopolitici internazionali, i quali a loro volta rispondevano a interessi di natura privata bancaria e finanziaria.


Enrico Mattei

Sull’altare del progetto dell’unico governo globale sono stati sacrificati personaggi del calibro di Enrico Mattei, un uomo che aveva fatto un accordo più che vantaggioso sia per i compratori (noi) sia per i venditori (paesi arabi) del petrolio.
Henry Kissinger in persona aveva avvertito Aldo Moro del pericolo che correva con la prosecuzione del suo progetto di compromesso storico e abbiamo assistito al suo assassinio ad opera delle Brigate Rosse dal colore leggermente atlantista.
Bettino Craxi si era salvato rifugiandosi in Tunisia, aveva avuto l’ardire di proclamare la sovranità territoriale italiana a Sigonella, schierando i Carabinieri armati intorno ai militari statunitensi che pretendevano di trasferire i terroristi dell’Achille Lauro in America.


H. Kissinger

Non miglior fine hanno fatto i vari Slobodan Milosevic e Muammar Gheddafi…
Sinceramente che si chiami Trump, Superman o Pippo, chiunque abbia il potere di trarre l’Italia fuori dal pantano in cui è stata cacciata con l’avvento dell’Unione Europea, corredata dalla nascita della moneta unica, mi trova perfettamente d’accordo: dati alla mano, l’enorme buco nero in cui siamo piombati per mano di un gruppo di criminali dediti al proprio profitto, non è più accettabile.
La casalinga di Voghera che alberga in me preferirebbe avere enormi quantitativi di farina, uova, burro, zucchero, mele e lievito per poter dar da mangiare a quei bambini affamati che compaiono sullo schermo tra tende e macerie; inoltre non tollera di sentire Ursula Von der Leyen, leader dell’Unione Europea, dichiarare questa essere fondata sui valori del Talmud, perché fino a prova contraria la religione italiana è il Cristianesimo.
E se buonanima il conte Richard Nicolaus di Coudenhove-Kalergi (figlio di un diplomatico austro-ungarico, e della giapponese Mitsuko Aoyama, discendente di una nobile famiglia di Samurai) convinto della importanza di mescolanza etnica dalle proprie origini, fosse ancora vivo, forse si accorgerebbe di quanto poco l’immigrazione di massa e il tentativo di cancellare i tratti distintivi delle nazioni sia stato un farneticante processo di globalizzazione ormai sconfitto.   
Questo il progetto del presidente americano di cui non si conoscono ancora in modo sicuro tutte le coordinate: si sussurrano “particolari riguardi” verso nazioni che non aderirebbero entusiasticamente al progetto di riarmo europeo. Nonostante l’apparente docilità nei confronti dei “Volonterosi” l’abbraccio di Giorgia Meloni al frastornato Zelenskji, pellegrino tra i vari capi di stato, appariva meno caloroso di qualche mese fa e l’ufficiale nostra non partecipazione all’acquisto di armi dagli USA da inviare in Ucraina, segnala l’inversione di rotta.



Noi però abbiamo qualche “peccatuccio” da farci perdonare da Trump, ben conscio di tale macchia: all’epoca delle votazioni che hanno visto trionfare Biden, l’intervento della nostra Leonardo sul travaso di voti da un candidato all’altro non è passato inosservato. Manifesto risulterebbe il coinvolgimento dei nostri servizi segreti, del governo Conte e del generale Graziano, ahimè deceduto nel 2024 secondo gli organi di stampa per “suicidio”: una delle tante morti improvvise di testimoni piuttosto scomodi!  
Washington ci fa sapere che ha deciso di ritirare il suo appoggio a Bruxelles, di qui la disfatta dell’Unione Europea, dipendente in tutto e per tutto dagli Stati Uniti, sia per il commercio tra i due blocchi sia per la difesa.
Anche la NATO viene affidata esclusivamente all’Europa, cosa irrealizzabile perché senza il supporto americano, non esiste organizzazione atlantica, patrocinata e tenuta in piedi proprio dagli Stati Uniti.
L’Unione Europea è destinata all’estinzione e il suo fondamento, l’idea del Nuovo Ordine Mondiale, è di fatto ormai fallito.