UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

sabato 5 luglio 2025

IL TEMPO LIBERATO
di Angelo Gaccione


 
C
’è stata una stagione vitale e ricca di fermenti in cui le idee più ardite prendevano corpo e davano al dibattito culturale tutta la linfa necessaria alla sua ragione e alla sua esistenza. In quella straordinaria stagione il bisogno per ciascun individuo di quello che abbiamo chiamato il tempo liberato, si imponeva come un’urgente necessità per il corpo, prima che per qualsiasi altra esigenza di carattere psicologico ed esistenziale. Liberare il tempo di donne e uomini voleva dire, per costoro, impossessarsi di una quantità in più di esistenza, preservare le loro vite dallo stress, dall’usura, dall’esposizione al pericolo di incidenti ed alle malattie che sono i maggiori fattori di perdita della salute. Tempo liberato da impiegare al meglio per prendersi cura di sé stessi, dei propri affetti, delle proprie passioni. Per rallentare il passo rispetto al vortice della civiltà moderna che obbliga a ritmi sempre più disumanizzanti travolgendo con violenza quelli imposti dalla natura e dalla biologia. Stava diventando sempre più concreta la possibilità di una riduzione drastica delle ore lavorate che avrebbe permesso un allargamento della base produttiva, e ai giovani di entrare più facilmente nel mondo del lavoro. Le nuove tecnologie, si diceva, saranno messe a disposizione degli uomini e delle loro necessità, per alleviare la fatica. Fatica è definito il lavoro in molte lingue, poiché spesso provoca stanchezza, rischi, debilitazione, modifica dell’umore. Quelle miracolose tecnologie avrebbero dovuto affrancare gli esseri umani restituendo loro un ampio margine di libertà attraverso il tempo liberato. Quanto tutto ciò si sia dimostrato menzognero, lo possiamo constatare oggi a distanza di circa mezzo secolo. La tecnologia e la scienza hanno fatto passi da gigante, ma di tempo liberato non se ne è vista nemmeno l’ombra. Morti e incidenti sono diventati piaga sociale; le ore lavorate aumentate e i diritti diminuiti; il lavoro povero, super-sfruttato e schiavistico è divenuto incontrollabile; le tecnologie hanno espulso braccia e intelligenze dal ciclo produttivo, le produzioni delocalizzate, le disuguaglianze estese. Uomini e donne si ritrovano più di prima asserviti al dominio del tempo, della tecnologia e del profitto. 

A FIRENZE PER LA PIRA


Giorgio La Pira
 
Conferenza - Giorgio La Pira: attualità di un pensiero per la pace
Lunedì 7 luglio 2025 - ore 16:00 - 19:00 - Sala del Refettorio - Camera dei Deputati Palazzo San Macuto - Via del Seminario 76, Roma
 
In occasione del settimo anniversario del riconoscimento di Giorgio La Pira come Venerabile della Chiesa cattolica, si terrà a Roma il convegno “Giorgio La Pira: attualità di un pensiero per la pace”, promosso da Vision & Global Trends - International Institute for Global Analyses, in collaborazione con l’On. Fabio Porta (Commissione Affari Esteri - Camera dei deputati), con il patrocinio della Fondazione Giorgio La Pira e della Società Italiana di Geopolitica - Progetto di Vision & Global Trends. L’incontro - ospitato lunedì 7 luglio 2025 presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati - vuole essere un omaggio profondo e articolato alla figura del “sindaco santo” di Firenze: testimone del Vangelo, intellettuale profetico e protagonista del dialogo tra i popoli. Ma non solo. Il convegno si propone come uno spazio di riflessione politica, culturale e spirituale sull’eredità di La Pira, oggi più che mai attuale, in un mondo attraversato da conflitti, instabilità e trasformazioni globali. Durante la Guerra Fredda, La Pira seppe elaborare e praticare una politica di pace che superava i confini ideologici, con gesti coraggiosi come i viaggi a Mosca e Hanoi, l’impegno per il disarmo, il dialogo interreligioso e la promozione dello sviluppo nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Il suo sguardo universalista e cristiano anticipava un ordine internazionale fondato sulla giustizia, la dignità umana e la cooperazione. Rileggere oggi il suo pensiero significa interrogarsi sulla possibilità di una nuova cultura politica della pace, capace di coniugare idealismo e concretezza, spiritualità e progettualità, soprattutto in relazione al ruolo dell’Italia in uno scenario multipolare dove emergono nuovi attori come Cina, India e i paesi dell’Africa. Il convegno vedrà la partecipazione di accademici, analisti, amministratori pubblici e protagonisti della vita politica e sarà articolato in tre sessioni: sulla testimonianza di pace di La Pira, sui suoi fondamenti filosofici e politici, e sulla sua visione geopolitica.
 
PROGRAMMA
16:00 - Apertura dei lavori
Fabio Porta - Commissione Affari Esteri - Camera dei deputati
Tiberio Graziani - Vision & Global Trends
16:30 - Relazioni
Giorgio La Pira, messaggero di pace
Abbattere i muri, costruire i ponti: Giorgio La Pira e la Pace
Patrizia Giunti - Fondazione Giorgio La Pira
Sulla strada del “sindaco santo”: Comuni e cultura della Pace
Sergio Moscone - Sindaco di Serralunga d’Alba
Pensiero e azione in Giorgio La Pira
I principi del personalismo nella visione politica di Giorgio La Pira
Giulio Alfano - Pontificia Università Lateranense
La lezione di La Pira e i democratici cristiani europei
Anton Giulio de’ Robertis - Università degli Studi di Bari
La visione geopolitica di Giorgio La Pira
Il ruolo geopolitico del Mediterraneo nel pensiero di Giorgio La Pira
Maurizio Gentilini - ISEM, Consiglio Nazionale delle Ricerche
La “via italiana” di Giorgio La Pira e la trasformazione odierna degli equilibri internazionali
Maurizio Vezzosi - Analista di geopolitica


Per accedere è obbligatoria la registrazione. Inviare la richiesta di registrazione a: info@vision-gt.eu
Per informazioni e accrediti stampa: info@vision-gt.eu

venerdì 4 luglio 2025

ANCORA SULL’ARTICOLO 5 DEL PATTO ATLANTICO   
di Luigi Mazzella



Repetita iuvant
 
Sembra innegabile che l’Occidente, in parte per la propagazione dal Medio Oriente dei feroci contrasti ivi esistenti tra i tre inconciliabili monoteismi religiosi, in parte per l’analogo odio reciproco insorto tra nazifascisti e socialcomunisti, entrambi generati dalla scuola idealistica tedesca, rappresenti il vulcano in eruzione permanente del bellicismo mondiale. Motivato quest’ultimo, è bene aggiungerlo, dalle proposte ugualmente irrazionali di utopie irrealizzabili, irrealizzate o realizzate con massacri di massa. Naturalmente, un “panorama” per così dire “ideologico” di tanta atrocità richiedeva una dose di ipocrisia “buonista” di proporzioni colossali e difatti, agli occhi del mondo, i popoli anglosassoni si ponevano e continuano a porsi come quelli che corrono in soccorso degli altri (in Africa per opere di civilizzazione; in guerre avanzate per aiutare i perdenti): quelli latini, soprattutto iberici, come evangelizzatori indefessi al servizio di Dio e così via. All’idea “benefica” del soccorso bellico è ispirato il dettato dell’articolo 5 del Trattato Atlantico. Ora, però, non c’è dubbio alcuno che i Paesi dell’Occidente (in primis, Europei) aderenti alla NATO, hanno violato clamorosamente tale disposizione, diventando, contro la previsione della norma, co-belligeranti dell’Ucraina, Paese estraneo all’Alleanza e come tale non previsto tra quelli da soccorrere. Pronunciando la sostanziale condanna a morte dell’articolo i Paesi NATO hanno indotto Donald Trump a chiedersi a che fine fosse utile mantenere in vita una norma di cui non si era tenuto di recente alcun conto, tanto da indurre i Governi Occidentali a bypassare la medesima senza neppure discuterne nei Parlamenti e mantenendo nell’ignoranza più totale le popolazioni che si erano trovate, senza saperlo, in guerra ed esposte a possibili rappresaglie e a ritorsioni russe. 
Mia domanda: La sua abolizione non sarebbe, altresì, più coerente con il principio di libertà: in guerra ci va chi ha voglia di andarci e sente il bisogno di farlo e se ne astiene, invece, chi, pacifista per sentimento, ritiene anche sul piano razionale che la caduta del Patto di Varsavia abbia reso, con la scomparsa del “nemico”, anche il trattato Atlantico, relegandolo al ruolo di strumento di aggressione del tutto nocivo per la pace sul Pianeta?
Non è un caso che l’abolizione della norma sarebbe nelle intenzioni di Trump, cui pure Elon Musk aveva più opportunamente e saggiamente consigliato, l’uscita, senza indugi, da un’Alleanza del tutto “fuori luogo” per gli Stati Uniti d’America. Se poi in Europa, spuntassero (come i funghi dopo il temporale: fuor di metafora, quello russo-ucraino) uomini di governo degni di tal nome l’intenzione di Trump potrebbe essere sorretta in modo autonomo, logico, utile, razionale e fuori da ogni servilismo in un Occidente che intendesse sottrarsi, per smentire Splenger, al suo cupio dissolvi.  

 

EGEMONIA E SOVRASTRUTTURA
di Franco Astengo


 
Sulle colonne de ‘il Manifesto1 (4 luglio 2025) Vincenzo Vita interviene sulla crisi del Ministero della Cultura, segnato da abbandoni e uscite di scena da parte di importanti dirigenti: la contesa in atto per il Ministro Giuli è l’impadronirsi del cinema italiano considerato un fattore dirimente per la conquista di quell’egemonia cui la destra aspira cercando addirittura di utilizzare - come giustificazione teorica - categorie gramsciane. Giuseppe Giulietti commenta l’articolo inserendo il tema del come l’assalto al pensiero critico sia il tema centrale: la destra non riuscendo a realizzare egemonia con la forza degli argomenti ora sta passando alla fase dello squadrismo e delle epurazioni, che arrivano a colpire anche i più moderati. Il punto allora risiede davvero nell’assalto al pensiero critico e la realizzazione di un’egemonia che lo escluda dalla dialettica e dal dibattito pubblico. Vale la pena allora andare a fondo anche perché è necessario non sottovalutare, attrezzarci, respingere e ribaltare questo attacco. Occorre individuare l’oggetto del contendere, quello che Vita individua così: “Il sovranismo in salsa italiota ha compiuto un vero disastro, miscelando passati ingloriosi e ossequio ai poteri contemporanei”.
Possiamo allora ben affermare che in questa miscela risiede davvero un potenziale esplosivo. L’agire politico sembra ormai ristretto in un confronto tra l’etica e l’estetica. Da un lato oggi, almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato, appare, infatti, ormai egemone il rapporto tra l’estetica e la politica. L’egemonia nel rapporto tra estetica e politica trova il suo fondamento nell’obiettivo di stravolgere funzione dei mezzi di comunicazione.


Alberto Casiraghi
Omaggio a Odissea (2025)

L’estetica è ormai intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione pubblica. Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali portati alla mostra della scena pubblica. La prospettiva è quella della teatralità della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici.
Si è così valorizzato l’agire comunicativo in luogo di quello strategico ed è questo il vero punto di contatto con la dimensione “orizzontale” nel rapporto tra cultura e informazione. Una “forma del politico” armoniosa e composta dentro la cornice da un conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un processo di una gigantesca “rivoluzione passiva” mascherata da “democrazia del pubblico”. Una “democrazia del pubblico” (da qualcuno mistificata da democrazia diretta) che viene esercitata in gran parte in agorà virtuali nelle quali si sta proprio imponendo una “egemonia della sovrastruttura”. È stato anche detto: un’estetica utilizzata da una politica il cui obiettivo è quello dell’anestetizzazione del “dolore sociale”. Il “dolore sociale” ha però bisogno di essere rielaborato partendo da quella che storicamente abbiamo definito come “contraddizione principale” e che adesso come adesso deve essere intrecciata da altri due elementi: quello del limite che incontra il dominio umano sulla natura e quello del nuovo tipo di esercizio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, comprensivo anche dell’ulteriore livello dello sfruttamento di genere. Lo sfruttamento è comunque agito nella società in una dimensione ben più vasta dello sfruttamento esercitato a suo tempo sul “lavoro vivo” e classificato - appunto - come “contraddizione principale”. La domanda finale è questa: nell’era digitale è forse quello dell’egemonia della sovrastruttura il solo orizzonte possibile e occuparsene in quei termini diventerà la forma esclusiva dell’azione politica all’interno della logica dominante della ricerca di un “potere sull’estetica”?
Sarebbe necessario essere capaci di esprimere con semplicità un secco “No” ma la replica appare invece quanto mai difficile e complicata. La deriva che sta assumendo la riflessione culturale posta sotto il dominio della tecnica della casualità intesa come solo strumento di accesso al nodo vitale dell’informazione pare essere il punto di una riflessione che avrebbe bisogno di recuperare antiche categorie e inventarne di nuove.
 

giovedì 3 luglio 2025

QUANDO CI AFFRANCHEREMO?
di Luigi Mazzella


 
Il miraggio italiano: una politica del tutto autonoma. 
 
Oggi, dopo il  servilismo dimostrato in oltre ottant’anni di tutti i politici italiani del dopoguerra (e segnatamente dai democristiani alla Romano Prodi, ai post-comunisti tipo Giorgio Napolitano ed ai neofascisti del modello di Giorgia Meloni) nei confronti degli Stati Uniti d’America (Democratici o Repubblicani che fossero i loro Presidenti), dopo il naufragio di un’Unione Europea finita in mano a burocrati di terz’ordine, lontani mille miglia da ogni utile scelta politica per l’Europa, dopo lo scivolone collettivo  del governo italiano in carica e di quelli europei sulla decisione di entrare (stupidamente) in guerra contro la Russia senza neppure avvertire i quidam de populo  destinatari eventuali di missili e bombe di rappresaglia o ritorsione, dopotutto ciò e altro ancora, la comparsa in Italia di una classe di governo del Paese capace di un pensiero autonomo, volto al perseguimento degli interessi nazionali per un recupero accettabile di credibilità economica e politica pur nelle disastrose condizioni date, può essere solo l’effetto di un miraggio ottico reso possibile dal deserto di raziocinio e di pensiero libero che gli abitanti dello Stivale sono “riusciti” a fare sorgere nel luogo oltre che più bello e ridente del Mediterraneo (e, con buona probabilità, del mondo) anche più ricco, storicamente, di geni universalmente riconosciuti. Leader politici di cultura, che in alternativa è: a) periferica urbana, o b) presuntuosamente contradaiola, o c) più sempliciotta e meramente contadina, sono sempre influenzati e ossequienti dagli e per gli antichi legami di sottomissione nazionale, a capi-popolo stranieri di Paesi, come Francia, Inghilterra, Germania, “volenterosi moschettieri di ogni guerra” e limitano il loro ruolo immaginativo allo scimmiottamento di moduli e schemi altrui, soprattutto se bellicisti. Nessuno valuta in costi e benefici l’esempio di un Paese neutrale e pacifico come la confinante Svizzera, perché nell’immaginario collettivo italico Guglielmo Tell non è paragonabile a Napoleone Bonaparte. E così la nostra Italia, decaduta da gentil donna antico-romana, nobile e altera a bigotta parrocchiana di campagna che racconta ai nipotini  i racconti dei cammellieri mediorientali immigrati da deserti aridi e da terre brulle; resa “incerta” nei suoi tanti staterelli in cui è stata divisa circa l’ossequio dovuto alle varie diramazioni parentali delle maggiori potenze europee; divenuta, per gratitudine per così dire “unitaria” e per un certo tempo, serva di Francia e Inghilterra (per i contributi risorgimentali ricevuti in odio all’impero austro ungarico considerato da quelle due potenze  da demolire in Europa, combattendolo nel “Bel Paese”); frastornata nel Novecento dalle lusinghe circa un utopico futuro migliore da imbonitori di mestiere (sedicenti, senza alcun vero e reale senso, di destra o di sinistra) si trova ad essere oggi più che mai “nave senza nocchiero in gran tempesta”, più donna da bordello (europeo) che prostituta autonoma di provincia (nostrana).

 

ANCORA SUL SOCIALISMO DELLA FINITUDINE
di Franco Astengo


 
Una messa a punto nella destrutturazione del sistema politico italiano.  
 
Ancora una volta mi permetto di rivolgermi ad alcuni esponenti dell’intellettualità e della politica di sinistra in Italia per avanzare una proposta di riflessione sul tema del socialismo della finitudine. Un tema che già avevamo affrontato con il compianto compagno Felice Besostri nell’intento di porre un tema di soggettività che in assieme allora e personalmente oggi ritengo ancora non colmato dalle strutture politiche presenti nel sistema italiano sul versante della sinistra. Se non fosse di eccessiva pretesa rispetto alla qualità della proposta si potrebbe pensare ad incontri di approfondimento chiedendo in questo l’aiuto dei tanti interlocutori molto più preparati che non lo scrivente (il testo che segue sicuramente rappresenta infatti una sintesi superficiale).
 



 
In un quadro di crisi internazionale della quale è difficile ravvisare i precedenti e a tre anni di distanza dell’insediamento di un governo frutto di un evidente spostamento a destra vale forse la pena interrogarsi sullo stato del procedimento in atto ormai da qualche decennio di destrutturazione del sistema politico italiano. Sistema politico italiano nel quale sono avvenuti svariati mutamenti del contesto istituzionale senza mai però addivenire a un completo adeguamento all’imposizione dettata dal presentarsi di quella “Costituzione Materiale” nel senso presidenzialista di cui fu interprete Silvio Berlusconi nel corso della fase di maggioritario/bipolare.
Una fase a suo tempo impostata esclusivamente quale prodotto della trasformazione della formula elettorale voluta semplicisticamente per via referendaria e quindi come espressione di una superficiale “autonomia della politica”.
Dopo la bocciatura popolare del progetto portato avanti dal governo Renzi (2016) anche l’ipotesi di “premierato” ideata dall’attuale maggioranza sta segnando il passo e forse la presidente del consiglio sta aspettando l’occasione favorevole per definire meglio i rapporti di forza attorno alla sua coalizione usufruendo anch’essa dei vantaggi di una accettata “Costituzione Materiale” che le sta comunque conferendo una primazia non prevista dalla nostra Carta fondamentale, ma sancita nella materialità quotidiana dell’esercizio del governo.
In ogni caso andando per ordine.
Nel corso degli ultimi anni si sono verificati fenomeni di vera e propria involuzione nella capacità di espressione di un determinato grado di cultura politica, da parte dei principali attori operanti nel sistema.



Sotto quest’aspetto alcune linee appaiono assolutamente meritevoli di approfondimento:
1) Le influenze internazionali. L’Italia è l’unico paese del mondo occidentale che vede il sistema politico destrutturarsi totalmente con la crisi del ’92-’94 (fenomeno che va ripetendosi ai giorni nostri). Solo nei paesi latino americani (e ovviamente in termini diversi, nell’Europa dell’Est) è avvenuto un processo analogo. Questo fatto colloca le radici della crisi in una storia di lungo periodo del sistema politico e individua negli anni ’70-’80 la conclusione di un ciclo iniziato nel dopoguerra. Allo stesso tempo avvicina (ovviamente solo sotto alcuni aspetti) il sistema politico italiano ad alcuni modelli partitici più fragili e fortemente condizionati dalle linee della Guerra Fredda. Pertanto l'intreccio nazionale/internazionale è un punto di partenza decisivo, anche se solo nel definire la premessa, dello scenario che ha avviato e determinato la crisi italiana.
2) Le influenze dei media. Le caratteristiche della crisi del 1993 sono state assolutamente originali. Nel nostro Paese il peso di forze mediatiche ed economiche è sproporzionato rispetto agli altri Paesi e assegna ruoli decisivi a forze esterne al sistema politico (su questo punto è apparsa notevole” l’intuizione presente nel documento della cosiddetta “Rinascita Nazionale
 elaborato dalla loggia massonica P2 nel 1975). Questo fatto ha implicato una discontinuità con la storia dell’Italia repubblicana ed anche, per alcuni aspetti, della stessa storia dell’Italia liberale. Sono state capovolte gerarchie tradizionali nel rapporto tra sistema politico e forze sociali. Alcuni di questi soggetti sono diventati protagonisti assumendo la leadership o comunque condizionando partiti e coalizioni.

3) Nella fase stretta tra “Tangentopoli” e trattato di Maastricht era intervenuta una fase di passaggio: non trovandoci più  dentro alla classica contrattazione di tangenti tra sistema politico e sistema economico, ma alla rappresentazione diretta del sistema economico nella politica: insomma, la politica viene “usata” direttamente, senza intermediazioni, per “fare affari” come ben dimostra, al massimo livello, la presidenza USA.



Sotto quest’aspetto chi si era permesso di dichiarare che economia produttiva ed economia finanziaria, al giorno d’oggi, si equivalgono nel giudizio di valore, non ha avuto ben presente la gravità e il peso delle parole che stava pronunciando.
Su questa basi si è nel frattempo aperto un vero e proprio “fronte” di decostituzionalizzazione del nostro sistema politico.
Da tempo (fin dall’era dei governi “tecnici” da Monti a Draghi) si sta assistendo, in Italia, alla costruzione di un regime illiberale di tipo nuovo, senza precedenti né confronti nella storia, che è il frutto di molteplici fattori di svuotamento della rappresentanza politica.
Il fattore principale che ha generato lo stato di cose in atto è rappresentato dalla verticalizzazione e personalizzazione della rappresentanza.
Il fenomeno è presente in molte altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è venuta sempre più identificando nella persona del Capo dello Stato o del governo e si sono indeboliti o esautorati i Parlamenti.
Nel nostro caso però siamo di fronte ad una forte accelerazione verso il compimento di un passaggio verso quella che è stata definita “democrazia recitativa
 allinterno della quale la destra  ha operato proprio nel senso appena indicato della già definita “decostituzionalizzazione” del sistema.



Marx ha dedicato pagine memorabili a descrivere la potenza rivoluzionaria e modernizzatrice del capitalismo e come questo avesse travolto le società precedenti, rivelandosi il più grandioso sistema di mobilitazione della ricchezza del mondo sviluppato: oggi ci accorgiamo della forza di questo rinnovamento capitalistico capace di imporre egemonia rivoluzionando la relazione tra struttura e sovrastruttura.
Compreso questo punto dalla “nostra” parte serve mettere in moto un meccanismo nuovo che punti a costruire una soggettività politica a partire dal basso, dalle presenze territoriali (senza nessuna concessione, però ai movimentismi che hanno caratterizzato, in senso deteriore, il primo decennio del nuovo secolo).
Oggi il ritorno della guerra come prospettiva globale, il riferimento a innovazioni tecnologiche in grado di mutare il quadro di riferimento sociale, l'emergere di tensioni “dittatoriali” sconvolgono l’assetto consolidato in un momento in cui si stava attraversando una forte difficoltà per quell’accelerazione nei meccanismi di scambio che abbiamo definito come “globalizzazione” con l’ingresso nel novero delle grandi potenze di nuovi attori politici portatori di diversi sistemi di governo della politica e dell’economia.
Nasce da queste valutazioni la proposta di “Socialismo della Finitudine” di vero e proprio mutamento di paradigma attuato da sinistra che da qualche anno stiamo cercando faticosamente di portare avanti e di cui l’acquisizione del “senso del limite” si deve collegare alla ricerca dell’uguaglianza offrendo spazi diversi di libertà in un modello di società che potremmo definire “sobrio”. È urgente rinnovare un tentativo per affrontare questo tema partendo da un punto fermo: l’inevitabilità di ricostruire una coscienza e una volontà politica. La coscienza della propria appartenenza e la volontà politica di determinare il cambiamento rimangono fattori insuperabili e necessari come motore di qualsivoglia iniziativa della trasformazione dello stato presente delle cose. Attenzione però lo stato presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione oggettiva della nostra esistenza sia in quello dell’assunzione di una consapevolezza soggettiva del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza tra individuale e collettivo “si realizza la vita d’insieme che è solo la forza sociale”, si crea il “blocco storico” (Gramsci: Quaderno 11).

AMMAZZANO CHI HA FAME




MILANO. CONTRO UNA CITTÀ PER SOLI RICCHI


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TRIESTE
Sostenere gli arrestati.


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mercoledì 2 luglio 2025

A COMISO
Seminare la pace 3 - 6 luglio 2025


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LA CORSA AL RIARMO È CORSA ALLA FINE
di Raniero La Valle


 
Se la “Sinistra” continuerà a dire che Trump è un bullo che non sa quello che fa, invece di misurarsi con la nuova identità dell'America che attraverso di lui si manifesta, la destra governerà in eterno. Se la “Sinistra” continuerà a deplorare il riarmo in corso solo perché toglie denaro alla sanità e allo Stato sociale, e non perché è una perversione dell’economia e della politica, la guerra mondiale forse non sarà evitata. Trump è fuori misura con le sue follie, ma è come il folle di Nietzsche che andava al mercato dicendo “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso”: il Dio che è morto è la pretesa messianica del dominio americano sul mondo che invece ha rovinato l’America, come secondo lui hanno fatto “il peggiore presidente degli Stati Uniti”, Joe Biden e gli altri come lui. Infatti l’America si è dissanguata per le guerre fatte anche per conto degli altri (l’“Europa scroccona”), e per essere stata derubata coi dazi, e le conseguenze sono state in America un freno all’arricchimento degli uni e una spinta all’impoverimento e alla frustrazione degli altri.



 

Trump è il primo governante del mondo che si dice contro la guerra non per ragioni ideali, vere o false che siano, ma perché è “stupida”, come è la guerra che ha rinfacciato a Zelensky e a Putin, in quanto produce migliaia e migliaia di inutili morti, e come sarebbe stata la guerra all’Iran, che egli a male parole (“che cavolo fate!”) ha bloccato sul nascere, dopo l’azione di copertura delle bombe sui siti nucleari iraniani, senza neanche vendicarsi per i pur simbolici missili lanciati dall’Iran contro la base americana in Qatar. Dichiarando insensata la guerra, Trump riprende il giudizio che già aveva formulato sessant’anni fa papa Giovanni XXIII quando aveva detto della guerra come fosse ormai “fuori della ragione”, cioè dell’umano. Essa non serve a raggiungere alcuno scopo. Ma non sempre è stata stupida, lo è diventata: per i Greci (Eraclito) era addirittura il padre e re di tutte le cose, poi, come ha ricordato Luciano Canfora sul “il Fatto Quotidiano”, è servita a procurare bottino, schiavi, ricchezze e territori. Ma oggi non è più così, anche le terre rare che Trump vuole dall’Ucraina non sono un dividendo della guerra, ma un risarcimento per gli aiuti. Oggi la guerra non ottiene nulla, non fa che distruggere e uccidere, e si risolve in terrorismo e genocidio (Hamas e Gaza), si rivolta contro chi la fa, è un suicidio. Tuttavia la guerra è oggi la costituzione materiale del mondo, è il sistema che lo struttura e ne determina le relazioni e la vita: pertanto è una istituzione che dovrebbe essere abolita per unanime consenso.


 
Trump, come gli altri, non arriva a questo: però vuol rompere gli automatismi che portano alla guerra; semmai è lui a deciderla. Se si sta ai due documenti sulla ideologia della sicurezza nazionale americana e sulla difesa nazionale degli Stati Uniti, della Casa Bianca e del Pentagono, vigenti fino a ieri a partire dall’attentato alle Due Torri, non si può non notare una discontinuità e una rottura con l’oggi. Essi sostengono come la Russia sia ormai decotta o prossima alla sconfitta e che la guerra finale, se del caso, sarebbe quella con la Cina; e se si leggono insieme all’articolo 5 del Trattato della NATO, si vede come essi inneschino un processo automatico che potrebbe non essere controllato più da nessuno e attivare un pilota automatico che ci porti dritto nella guerra mondiale; e se finora poteva sempre esserci un sussulto di coscienza di uno Stranamore o un coraggio come quello del sovietico Stanislav Petrov che ha evitato l’olocausto nucleare, domani l’Intelligenza Artificiale potrebbe decidere che è venuto il momento dello scontro finale in obbedienza agli algoritmi da noi stessi creati. Ciò innescherebbe la corsa verso la fine, e non gioverebbe alla grandezza dell’America e al suo dominio sul mondo. Perciò questa corsa deve essere interrotta, pensa il folle di Washington.


Non c'è nulla di più pericoloso
di un moderato
 
Ma allora perché tutte queste armi e queste spese militari, e il famoso 5 per cento del PIL? Gli europei si sono inventati la minaccia di Putin (dai Paesi baltici al Portogallo!) con cui Trump invece vuole trattare e considerano Xi Jinping un Nemico, con cui Trump invece ha avuto la prima telefonata dopo l’insediamento. Trump per parte sua pensa ai dollari, alla ricaduta delle commesse sulle industrie americane, e pensa a un uso keynesiano della spesa militare, un piano Marshall, ma a suo favore. Il più affine a questo calcolo è il cancelliere Merz, che non può sfiorare il ridicolo pensando a una nuova Operazione Barbarossa, ma conta su un imponente e incontrastato afflusso di denaro pubblico per costruire l’economia più forte del continente. Secondo le vecchie regole del capitalismo, l’economia cresce anche con l’inutile, si possono scavare fosse e poi riempirle di nuovo, e il PIL cresce.


 
Trump, per fare più grande l’America, conta sulla controproduttività delle armi: si moltiplichino gli armamenti, ma che per carità non ci si faccia la guerra. È il suo “new deal”. La follia è che la guerra può scoppiare davvero, e l’errore è che lo sviluppo, il new deal, si fa investendo su tutto ciò che fa la felicità e il lavoro degli uomini, non nei profitti e nelle aberrazioni dei signori delle armi.

 

REQUIEM DELLO STATO DI DIRITTO   
di Luigi Mazzella


 
Prescindiamo da ciò che avviene nell’Occidente e segnatamente in Europa e rappresentiamo per l’Italia uno scenario reale che metta in evidenza le falsità di quello apparente; disegnato, quest’ultimo, dall’ignoranza o dalla malafede (o da entrambe congiunte) della classe politica e dai mass media. Con la dichiarazione di guerra alla Russia e di co-belligeranza con l’Ucraina è andato, come suole dirsi, “a farsi benedire”, in modo eclatante, il concetto dello “Stato di Diritto” che, com’è noto, presuppone che l’agire dei reggitori della res publica sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti. In altre parole, in tale sistema, lo Stato sottopone, prima di ogni cittadino, sé stesso al rispetto delle norme di diritto e della Costituzione. Nel silenzio complice dell’intera classe politica italiana e del sistema mediatico Occidentale il Governo Italiano ha violato, invece in maniera clamorosa, l’articolo 11 della nostra Carta Fondamentale che consente di derogare al principio di ripudio della guerra solo in ipotesi particolari tra cui l’osservanza degli obblighi derivanti dall’adesione alla NATO. Ora tali obblighi (soccorso, difesa, assistenza di un Paese facente parte dell’Alleanza) non sussistevano, perché l’Ucraina non era membro della NATO. Più chiaro di così…
Negli Stati Uniti d’America, l’elettorato, consapevole o meno della situazione più che incresciosa, gravissima, creata da Joe Biden, ha preferito “cambiare la guardia” alla Casa Bianca, eleggendo Donald Trump che si è subito affrettato ad “arrendersi” e ad uscire dal conflitto in Ucraina. In Italia, per avere lo stesso risultato si sarebbe dovuto procurare o almeno sollecitare, chiedere a gran voce la caduta del governo in carica e mandare, con mosse adeguate, a casa la Meloni, per sostituirla con leader pacifisti che fossero d’accordo con gli Stati Uniti di Donald Trump. Così, come era avvenuto in America per Joe Biden. E ciò per i danni provocati al Paese dalla Meloni: impoverendolo ed esponendolo al rischio di ritorsioni e rappresaglie da parte della Russia.
Non è stato così. Come in altri tipi di ordinamenti di collettività diverse dallo Stato, la gravissima violazione delle leggi da parte del Governo in carica non è stata ritenuta una colpa: né dall’opposizione di invasati e sbraitanti banditori di equivoci slogan né dai membri solo apparentemente e cautamente dissenzienti della stessa coalizione governativa. Il “popol morto” di carducciana memoria ha dovuto assistere, nel “silenzio-stampa” (e radiotelevisivo), all’ennesimo colpo inferto alla sua credibilità civile e democratica e affidarsi sterilmente ai social, senza neppure più porsi la domanda: “fino a quando?”

 

GRATUITÀ VO’ CERCANDO
di Vittorio Melandri



Leggere la notizia che i trecento lavoratori della MCM (prov. di Piacenza), hanno appreso da un servizio giornalistico, del possibile fallimento dell'impresa, con conseguente scomparsa del loro posto di lavoro, mi ha riportato indietro di 45 anni, quando da ancor giovane sindacalista della FIOM-CGIL, ancora parte della unitaria FLM, nutrivo qualche speranza di cambiamento, e con qualche entusiasmo anche in quella fabbrica ho condotto assemblee. Nonostante la disillusione accumulata negli anni, mi ostino a riflettere attorno alla possibilità di far resuscitare qualche speranza e appropriandomi del linguaggio della scrittrice ungherese Magda Szabò (La porta, Einaudi), sono per dire che ciascuno di noi usa uno “scandaglio suo e originale per esplorare il fondale dei propri ricordi”. Non di rado questo scandaglio, come un sonar di cui si conoscono i comandi, ma non la struttura, restituisce non solo immagini dimenticate, ma anche capaci di comporre profili sorprendentemente ignoti, per come risultano collegate fra loro. Ascoltando anni fa Corrado Augias commentare il Don Chisciotte, e riferirsi a quanto quel capolavoro rimandi al concetto di “gratuità”, il mio ‘scandaglio’ ha saldato insieme quanto avevo letto per la penna di un autorevole giornalista su un autorevole quotidiano economico, e quanto un paio di anni prima mi ero annotato in tema di gratuità, da cittadino semplice quale sono. Scriveva il giornalista: “L’Italia sana, (è) quella che combatte ogni giorno per creare reddito e occupazione”, mentre l’Italia in-sana si consuma in “chiacchiere e distintivo”, mi venne di chiosare. Ma siamo sicuri che reddito e occupazione vengano prima, a prescindere, e non come conseguenza di una oculata scelta di cosa sia di volta in volta prioritariamente necessario produrre? Così come anteponiamo avventatamente nella nostra capacità di osservare, gli effetti alle cause, così siamo spinti ad anteporre il “vivere per lavorare” al “lavorare per vivere”. 



Ne scaturisce la “logica” tragica conseguenza, che venuto meno il lavoro, quando “il libero mercato” ne sanziona la fine, viene meno anche la possibilità di vivere, senza nemmeno rendersi conto che basta guardarsi intorno per accorgersi, di quanto lavoro necessario rimanga inevaso attorno a noi. Dovremmo essere noi umani a collegare al lavoro che serve, un reddito, e non aspettare che sia l’inumano mercato a farlo. Ma noi umani con troppa sufficienza confondiamo costo con prezzo, e addirittura i vocabolari inducono all’errore, proponendo l’uno come sinonimo dell’altro. Non occorre però essere filosofi e nemmeno linguisti, per cogliere la sostanziale differenza fra i due termini. Con una banale ricerca etimologica si scopre che il primo termine discende dal verbo “costare” e questo rimanda ad un verbo latino “consistere”, che significa “aver fondamento in qualcosa”. Non esiste al mondo cosa od azione alcuna, che non abbia appunto “fondamento in qualcosa”, cioè che non abbia sempre e comunque, un costo. Il termine prezzo invece, deriva dal latino “pretium, astratto di un perduto verbo la cui radice pret, sta a significare scambio. Il cortocircuito linguistico che porta ad identificare i due termini, è molto di più che un mero inciampo lessicale, è la testimonianza di quanto sia appunto corrotto il linguaggio che ci insegnano ad usare e di conseguenza di quanto si sia imbarbarito il vivere di noi umani, proprio quando ci crediamo invece più civili (alcuni pensano, più furbi) di prima. È anche la testimonianza, amarissima e assurda, a pensarci solo un momento, che per noi umani ormai niente sembra avere più valore, se non può essere scambiato. E questo porta a sottolineare come pure il termine valore, che nella sua funzione di sostantivo aggettivante indica come e quanto e quando una cosa o un’azione sia valida, sia stato assorbito dagli altri due e come tutti e tre insieme costituiscano un vero e proprio “buco nero”, in cui la nostra capacità di discernimento si perde, ogni giorno di più. Parlo di quel “buco nero” dove di una cosa o di una azione che ha comunque un “costo”, e che potrebbe anche non essere scambiata o magari scambiata ad un “prezzo” qualsiasi, e comunque piena o priva che sia, di “valore”, gli si appiccica indifferentemente un costo o un prezzo o un valore, come se i tre termini descrivessero appunto lo stesso attributo. Prima e più illustre vittima di questa perdita di senso è a mio parere la “gratuità” dell’agire. (da non confondersi con l’ambitissimo “a-gratis”). 



Oggi niente viene considerato così privo di valore, quanto appunto “l’agire gratuito”, verso sé stessi e verso gli altri, e non di rado accade pure che coloro che appaiono come i migliori fra noi, scambino il proprio “agire gratuito”, niente meno che con il premio massimo, quello del Paradiso, senza lo stimolo del quale stando ad una certa scuola di pensiero, la vita non avrebbe nemmeno senso. Questo però configurandosi sì, almeno a mio parere come barbarie. Personalmente credo sempre di più che l’agire “gratuito” sia oggi l’agire dal costo più alto, essendo l’energia necessaria per sostenerlo e produrlo la più “preziosa”, e del tipo più raro a trovarsi; sia l’agire connotato dal prezzo più basso, anzi, senza prezzo, non essendo determinato questo agire dalla volontà di innescare scambi di alcun genere; e sia pure, l’agire gratuito, quell’agire dal valore inestimabile, per sé e per gli altri, in quanto porta sempre con sé una utilità insita nel suo semplice esistere, e pure capace di portare addirittura a compimento un qualche “utopistico” umano obiettivo. Tutto questo, a differenza di quanto accade nella nostra sempre più misera e triste normalità, dove, senza una qualche specie di utilità conclamata, nulla si agisce, e tutto ha sempre un costo, sempre troppo alto per chi acquista e un prezzo troppo basso per chi vende! E dove ahinoi soprattutto anche il valore di un essere umano, è percepito come fosse quello di una qualsiasi merce. Con una differenza, a favore delle merci: delle merci nessuno mette infatti in discussione la “clandestinità”, basta che il valore, pardon, il prezzo, pardon, il costo, sia quello giusto per le nostre esclusivissime tasche, dove siamo anche così “pirla” di credere (basta che ce lo dica qualche bravissimo ciarlatano) che solo noi mettiamo le mani.

 

CARO DIRETTORE



A proposito dello svuotamento di tante zone d’Italia. 
 
Ho appena l’etto l’articolo. Terribile il destino riservato a questi posti. Sarebbe davvero bello se la ricerca e la bellezza potessero partire da lì. Grazie all’infinito.
Roberta Guccinelli - Lucca
 
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Bravo, il Sud muore e loro ci bevono su! Mors tua vita nostra…
Giuseppe Faragasso - Serricella, Acri
 



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Non solo il Sud! Ci sono villaggi in Liguria (conosco avendo una casa ad Apricale nell’entroterra di Ventimiglia e a Grimaldi al confine) dove mancano totalmente i servizi primari per quei pochi anziani rimasti. Però ci sono ristoranti (ad Apricale) per i ricchi stranieri che vengono a visitare o che hanno comprato casa. Tutto si fa per loro e niente per i vecchi residenti. A Grimaldi non c’è un negozio alimentare e nemmeno un bar. Il deserto. Poiché i ricchi che han comprato casa lì, possono scendere e fare la spesa. Ma gli anziani? Possono morire.
Gianna Caliari - Milano
 
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Sul declino delle aree interne vi è la stessa mentalità yankee delle riserve indiane! Teniamo conto anche di questa ideologia profondamente sporca e produttrice di rapporti servili e giustificanti soprattutto tra chi non è abituato a prendere posizioni morali intransigenti.
Antonio Lombardo - Orani, Barbagia di Ollolai
 
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Spopolamento, abbandono, desertificazione, degrado sono fenomeni che da tempo ho colto anch’io nelle mie zone montane. Tra Selva di Ferriere e Santo Stefano d’Aveto, tra l’alta val Nure e l’alta val d’Aveto, nell’Appennino emiliano-ligure, nella zona di confine tra le province di Piacenza, Parma e Genova. E sono davvero terribili a vedersi soprattutto da parte di chi conserva il ricordo di quelle zone ben altrimenti vive, tenute e abitate.
Franco Toscani
- Piacenza

 

martedì 1 luglio 2025

 IL CAPITALE UMANO
di Angelo Gaccione


 
Sul fenomeno che da alcuni decenni sta producendo la desertificazione di intere aree del nostro Paese mediante la fuga e l’abbandono, quella che viene da più parti definita “emigrazione di ritorno”, non si è riflettuto abbastanza. La si è liquidata con una certa sufficienza, e addirittura si sono voluti vedere solo aspetti positivi: lo spostamento in altre realtà sia interne, sia europee che extraeuropee, conferiscono a chi lascia il proprio luogo sottosviluppato e privo di risorse, stimoli e opportunità in grado di consentirgli una gratificante emancipazione sia economica che intellettuale. Non viene però affrontato l’altro corno del problema. Se il primo e più importante capitale di un qualsiasi luogo è sempre quello umano, se ne dovrebbe facilmente dedurre che deprivato di tale capitale, quel luogo sarà fatalmente destinato alla sua cancellazione. La prova empirica la può fare facilmente chiunque ha, per un tempo significativo, lasciato la propria abitazione e vi è ritornato a distanza di alcuni anni. Se l’ha lasciata incustodita e nessuno vi ha messo piede, la troverà greve di umidità e di muffa; di ragnatele, di singole parti sconnesse e deteriorate. Se la casa possedeva un piccolo giardino e nessuno se ne è preso cura, al ritorno lo si troverà secco, rovinato e pieno di sterpi. 


Cervelli in fuga

Lo stesso discorso vale per i luoghi: nei quartieri abbandonati sono già visibili agglomerati di case dai tetti e dai muri crollati; all’interno delle corti sono cresciute piante ed arbusti che hanno rovinato il pavimento e gli infissi, e i rami si sono fatti largo in tutto il perimetro scardinando persino le porte. Lo stesso patrimonio pubblico, anche di notevole pregio architettonico e storico, in alcuni parti è risultato compromesso e in alcune perduto per sempre. Considerando che ad emigrare sono ora le generazioni giovani, il luogo di partenza si priva delle intelligenze più vive e dinamiche, delle più forti dal punto di vista della salute e della capacità di prendersi cura fisicamente del territorio. Il sottosviluppo conduce allo spopolamento e lo spopolamento sancisce il sottosviluppo: questa tragica dicotomia non può che produrre una totale deriva. Al contrario, i luoghi di arrivo si avvantaggeranno di questo capitale umano per progredire e marcare ancora di più il proprio vantaggio. Spostare l’intrapresa e la ricerca più avanzata lì dove il rischio di scomparsa di una intera entità geografica si sta verificando, è il solo modo per impedire un esodo dagli esiti disastrosi.  



P. S. Avevo scritto questa breve nota un po’ di tempo fa ed era rimasta in cartella. Ieri ho letto su “il Fatto Quotidiano” l’articolo di Alfonso Scarano e me ne sono ricordato. Ho scoperto che il documento sulle aree interne e le parti spopolate del Paese (Piano Nazionale della Aree Interne), sono state dichiarate dal Governo in carica perdute per sempre. Ecco il passaggio: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza (…) hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. Tradotto nella lingua delle persone normali significa che mentre si spenderà il 5% del Prodotto Interno Lordo per l’industria criminale della guerra e della distruzione, non verrà speso un centesimo per tutte quelle zone della nazione da cui fuggono le nuove generazioni rimaste senza lavoro e senza servizi, per invertire la condizione di declino che le politiche dei vari governi hanno contribuito ad aggravare. Una decisione delinquenziale, ma tacciono tutti: a cominciare dall’egregio Presidente della Repubblica. Aspetteranno semplicemente che si spenga l’ultimo anziano rimasto in quei luoghi depressi del Paese, soprattutto Sud e Isole. Lasceranno che il territorio vada lentamente ed inesorabilmente in rovina, e che di tutto ciò di cui era composto (boschi, colline, centri storici preziosi, culture e quant’altro) si possa tornare a dire: hic sunt leones.
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